Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 28908 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 28908 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/04/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a Cosenza il 7/12/1956 COGNOME NOME COGNOME nato a Cosenza il 01/2/1957 COGNOME NOME nato a Spezzano della Sila il 10/10/1957 COGNOME NOME nato a Cosenza il 9/08/1961
avverso la sentenza della Corte di assise di appello di Catanzaro del 27/03/2023
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di Pranno, COGNOME e Acri, nonché il rigetto del ricorso di COGNOME;
la parte civile, avv. NOME COGNOME ha fatto pervenire conclusioni scritte con le quali ha chiest la conferma della sentenza e la condanna degli imputati alla rifusione delle spese del giudizio, nella misura di euro 4000,00 ciascuno, oltre accessori di legge;
i difensori, avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME per COGNOME hanno fatto pervenire memorie di replica con le quali, ulteriormente argomentando, hanno concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
1.Con la sentenza impugnata, la Corte di assise di appello di Catanzaro ha parzialmente riformato la condanna, resa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale in sede, in data 21 settembre 2021, nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME concedendo agli imputati le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla circostanza aggravante dei motivi abietti, rideterminando la pena in quella di un anno e mesi sei di reclusione ciascuno, con la già ritenuta continuazione con precedenti giudicati, per NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME nonché in quella di anni quattordici di reclusione per NOMECOGNOME
1.1.11 primo giudice aveva condannato:
Pranno, alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione, riconosciuta la continuazione con i reati giudicati con la sentenza emessa dalla Corte di assise di appello di Catanzaro, divenuta irrevocabile il 20 giugno del 2002;
-Acri, alla pena di anni due di reclusione, riconosciuta la c:ontinuazione con i reati giudicati con le sentenze della Corte di assise di appello di Catanzaro, divenuta irrevocabile il 25 marzo 2002 e dalla Corte di assise di Cosenza, resa il 2 ottobre 2004, divenuta irrevocabile il 7 ottobre 2005;
COGNOME alla pena gli anni due di reclusione, riconosciuta la continuazione con i reati giudicati con plurime sentenze definitive emesse dalla Corte di assise di Cosenza, divenuta irrevocabile il 3 luglio 2000, dalla Corte di assise di Cosenza, divenuta irrevocabile il 25 marzo 2002, dalla Corte di assise di Cosenza divenuta irrevocabile il 16 gennaio 2007, dalla Corte di assise di appello di Catanzaro divenuta irrevocabile il 12 luglio 2013;
COGNOME alla pena di anni trenta di reclusione esclusa la circostanza aggravante di cui all’ad 416-bis.1 cod. pen., ritenendo le circostanze aggravanti della premeditazione, del numero delle persone e dei motivi abietti,
oltre alle pene accessorie e la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita NOME COGNOME
1.2. il procedimento ha a oggetto l’omicidio di NOME COGNOME, essendo intervenuta la prescrizione del reato di lesioni personali nei confronti del figlio NOME COGNOME, fatti commessi in data 18 novembre 1981 a Cosenza. L’omicidio si è attuato attraverso l’esplosione di plurimi colpi di arma da fuoco, nei confronti della vittima e di suo figlio, da parte di due o tre individui, con il volto coperto passamontagna, all’interno dell’esercizio commerciale di calzature e pelletteria del medesimo COGNOME.
Il primo giudice valorizza gli esiti della nota della squadra mobile di Cosenza del 19 novembre 1981, le dichiarazioni di NOME COGNOME, quelle dei tre operai che si trovavano nel negozio al momento della sparatoria e che avevano fornito anche
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una descrizione dei killer, nonché quelle di NOME COGNOME dipendente del distributore di carburante che si trovava poco lontano dall’esercizio commerciale teatro dei fatti.
Si rimarca anche la rilevanza degli esiti del sequestro di proiettili presunto calibro 38, di tre frammenti di incamiciatura per proiettili, nonché di quattro frammenti di piombo rinvenuti e sequestrati sul luogo dove si era verificata la sparatoria.
Sulla scorta di tali elementi, venivano, in un primo momento, individuati come possibili autori del delitto NOME COGNOME e NOME COGNOME poi successivamente scagionati.
Solo a distanza di anni, a seguito della collaborazione di giustizia di NOME e NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, emergevano ulteriori elementi per la ricostruzione della vicenda che hanno condotto all’instaurazione del presente procedimento a carico degli attuali ricorrenti.
1.3. La sentenza di primo grado, dunque, fonda sulla confessione di Pranno, COGNOME e Acri, nonché quanto a Cicero, sulla rilevata convergenza delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ex art. 192 cod. proc. pen.
In particolare, si fa riferimento alla confessione degli odierni ricorrenti quanto alla loro partecipazione al delitto, alle dichiarazioni di NOME COGNOME che aveva, inconsapevolmente, accompagnato sul luogo dell’omicidio i killer e che aveva appreso, successivamente, de relato, le modalità di esecuzione del delitto, nonché a quelle di COGNOME e COGNOME che hanno appreso, de relato, le informazioni fornite in merito al delitto, fonti dichiarative ritenute dal pri giudice attendibili e idonee a riscontrarsi reciprocamente quanto al concorso di NOME COGNOME nell’omicidio.
1.2.Ad analoghe conclusioni accede la pronuncia di secondo grado, valutando le medesime fonti di prova (cfr. p. 14 e ss), nonché rinnovando il giudizio di credibilità, attendibilità e convergenza del narrato dei collaboratori d giustizia, addivenendo alla riforma della sentenza impugnata quanto al trattamento sanzionatorio, per il riconoscimento, a tutti gli imputati, delle circostanze attenuanti con giudizio di equivalenza (nel dispositivo soltanto con la circostanza aggravante dei motivi abietti), stante l’ampio lasso temporale trascorso dalla data di commissione del fatto all’instaurazione del procedimento, per i collaboratori valorizzando, altresì, il comportamento processuale e la confessione, resa in mancanza di elementi indiziari a loro carico.
In ogni caso, si rileva che nella motivazione della sentenza di secondo grado, risulta l’avvenuto riconoscimento delle circostanze aggravanti contestate, quindi premeditazione, motivi abietti e numero delle persone superiore a cinque, tranne quella di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. ratione temporis, ma nel
dispositivo risulta il giudizio di equivalenza rispetto alle circostanze attenuant generiche, operato soltanto con la circostanza aggravante dei futili motivi.
2.Propongono tempestivo ricorso per cassazione gli imputati, per il tramite dei difensori, devolvendo censure con i motivi di seguito indicati, riassunti nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. NOME COGNOME, per il tramite dell’avv. NOME COGNOME, denuncia due vizi.
2.1.1. Con il primo motivo si deduce inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 192, 546, lett. e) cod. proc. pen.
Il processo è stato celebrato, a carico del ricorrente, a oltre quarant’anni dal fatto.
A Pranno viene contestato il mandato che lo stesso ha conferito per l’omicidio di COGNOME con elementi probatori provenienti soltanto dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
La motivazione, secondo il ricorrente, è contraddittoria quanto all’elenco dei collaboratori di giustizia riportati in sentenza perché vengono richiamate, oltre a quelle di Pranno, le dichiarazioni di altri cinque collaboratori, tra cui quelle d NOME COGNOME affermazioni però dichiarate non utilizzabili.
NOME COGNOME poi, ha reso dichiarazioni de relato, dando atto i giudici di secondo grado che all’epoca dei fatti questi risultava detenuto, NOME COGNOME ha reso dichiarazioni, in quattro interrogatori, tra loro contraddittorie quanto al conferimento del mandato dell’omicidio.
Anche Acri, nell’interrogatorio del 30 settembre 2019, ha affermato che l’ordine di uccidere era stato ricevuto soltanto da NOME COGNOME mentre negli altri interrogatori questi aveva affermato che NOME COGNOME era d’accordo.
Lo stesso COGNOME nel confessare la sua partecipazione, afferma però che la volontà era soltanto quella di incendiare il negozio del Nigro e che, comunque, quest’ultimo doveva essere soltanto ferito, citando degli appunti che erano stati reperiti al momento dell’arresto.
In sostanza, si sostiene che sono pretermessi i parametri interpretativi di cui all’art. 192 del codice di rito perché le dichiarazioni non sono univoche e sono affette da circolarità.
2.1.2.Con il secondo motivo si denuncia erronea applicazione di legge penale in relazione all’elemento soggettivo del reato e quanto all’esclusione della ricorrenza dell’art. 83 cod. pen. e 116 cod. pen.
COGNOME, nel corso dei suoi interrogatorio, ha affermato che la causale del delitto era riconducibile a NOME COGNOME il quale accampava pretese sull’immobile detenuto da COGNOME che, quindi, andava punito, ma solo attraverso l’incendio dell’esercizio commerciale e con il suo ferimento.
Anche COGNOME nell’interrogatorio del 12 settembre 2001, aveva affermato di essere il mandante dell’omicidio e di averne discusso con COGNOME.
2.2. NOME COGNOME COGNOME per il tramite del difensore, avv. NOME COGNOME affida l’impugnazione a due motivi.
2.2.1. Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 2, comma quarto, 416-bis.1 cod. pen., art. 8 legge n. 203 del 1991.
La Corte di assise di appello ha escluso la circostanza attenuante speciale perché, correlativamente, la sentenza appellata ha ritenuto l’inapplicabilità della circostanza aggravante di cui all’art 7 della legge n. 203 del 1991, essendo pacifica la stretta correlazione tra le due circostanze, richiamando un precedente in termini.
La difesa ha osservato che, nel caso di specie, però l’Insussistenza della circostanza aggravante è stata ritenuta in ragione del tempus commissi delicti.
Invece l’art. 2, comma quarto, cod. pen., impone l’applicazione retroattiva della legge più favorevole, in ossequio a principi di parità sostanziale del trattamento e non vi è dubbio che l’art 8 cit. sia una norma afferente ad un istituto di diritto penale sostanziale più favorevole.
2.2.2. Con il secondo motivo si denuncia erronea applicazione dell’art. 157 cod. pen. in correlazione all’art. 62-bis cod. pen. e 8 legge n. 203 del 1991 e vizio di motivazione.
La Corte di assise di appello ha ritenuto di non accogliere il motivo relativo all’intervenuta prescrizione del reato ascritto all’imputato, affermando che risulta pacifica l’imprescrittibilità del delitto di omicidio pluriaggravato, come esposto nella sentenza di primo grado rinviando sul punto alla pronuncia, senza rispondere alle doglianze difensive.
Il primo giudice aveva rigettato la richiesta richiamando Sez. U, n. 19756 del 2015, sull’imprescrittibilità dei reati puniti con la pena dell’ergastolo anche se posti in essere prima della legge n. 251 del 2005.
L’art. 157 cod. pen. nella previgente formulazione è norma richiamata dal primo giudice, affermando che tale previsione si riferisce soltanto ai reati puniti con le pene pecuniarie o con pene detentive temporanee.
Detta impostazione non considera come vi siano reati che raggiungono la vetta edittale dell’ergastolo per effetto dell’applicazione delle circostanze aggravanti. Appare, dunque, illogica l’esclusione, nell’ipotesi di concorrenza di circostanze attenuanti con circostanze aggravanti, dell’applicazione del terzo comma dello stesso art. 157 cod. pen. che, a sua volta, innesca la bilancia comparativa delle circostanze con possibile elisione della pena perpetua.
Le Sezioni Unite nel ritenere che il richiamo all’art. 157, commi secondo e terzo, cod. pen. a proposito dell’omicidio aggravato, sia frutto di ignoratio elenchi atteso che il reato punito con la pena dell’ergastolo si pone al di fuori della
previsione di cui all’art. 157, comma primo, cod. pen. avrebbe omesso, secondo la difesa, si considerare che il reato di omicidio volontario, in assenza di circostanze aggravanti è punito con pena temporanea e non perpetua, con conseguente applicazione dell’art. 157 cod. pen.
Unica norma che considera le circostanze aggravanti, ai fini di determinare il termine di prescrizione, è il secondo comma dell’art 157 cod. pen., ma non è possibile operare in maniera frazionata rispetto all’interpretazione della norma, applicando al reato di omicidio aggravato il secondo comma dell’art. 157 cit., da un lato, ed escludendo, dall’altro, l’applicazione del terzo comme che nelle ipotesi di circostanze attenuanti generiche dispone il loro bilanciamento.
Il giudizio di bilanciamento è previsto normativamente dall’ad 157, comma terzo, cod. pen. ma esso non comporta la sostituzione del criterio della massima pena edittale voluta dal legislatore con quello della pena concretamente applicata dal giudice nell’ipotesi di equipollenza di circostanze.
In tal caso, il termine prescrizionale dovrà essere calcolato sulla base del massimo edittale previsto per il reato base.
Nell’ipotesi di prevalenza delle circostanze aggravanti, il termine sarà computato sulla base del massimo edittale per il reato base, tenuto conto del massimo aumento previsto per la circostanza aggravante prevalente; invece, nell’ipotesi di prevalenza delle circostanze attenuanti il termine sarà computato sulla base del massimo edittale previsto per il reato base, tenuto conto della minima diminuzione prevista per la circostanza attenuante prevalente.
In definitiva, si sostiene che, nel caso di specie, le circostanze attenuanti generiche riconosciute dalla Corte di assise di appello con giudizio di equivalenza implicano la decorrenza del termine con prescrizionale pari a complessivi anni trenta.
2.3. NOME COGNOME affida il ricorso, per il tramite del difensore, avv. NOME COGNOME due motivi, coincidenti con quelli devoluti nell’interesse di COGNOME.
2.4. NOME COGNOME propone impugnazione attraverso due distinti atti di ricorso
4.1.Con il ricorso a firma dell’avv. R. NOME COGNOME si denunciano due vizi.
2.4.1.1. Con il primo motivo si deduce inosservanza ed erronea applicazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione.
Si ritiene attendibile COGNOME che confessa di aver sparato alla vittima su mandato omicidiario di Pranno, coinvolgendo anche NOME, ma manca, secondo il ricorrente, la costanza del narrato del collaboratore su circostanze, peraltro, generiche e non convergenti con le dichiarazioni di COGNOME.
La Corte territoriale, poi, per sminuire il contrasto tra quanto dichiarato da Acri e le risultanze medico legali, circa la posizione di vittima e sparatore, non si confronta con la distanza risultata tra i due, con l’accertata durata dell’azione e
la parte del corpo attinta, nonché con le dichiarazioni di NOME COGNOME che ha confermato che il padre, nel negozio, durante l’azione di fuoco dava le spalle allo sparatore.
La Corte territoriale, ancora, non si confronterebbe con la precisa collocazione temporale e spaziale offerta da Acri e con la specifica indicazione di Pranno, volta ad accreditare la tesi del mandato diretto ad eseguire lesioni, perché COGNOME non voleva sottostare a richieste estorsive.
2.4.2.11 secondo motivo denuncia inosservanza ed erronea applicazione di legge penale e vizio di motivazione sul trattamento sanzionatorio, sulla circostanza aggravante della premeditazione con travisamento della prova, nonché su quella dei motivi abietti e futili.
La sussistenza della premeditazione in capo a Cicero è ricondotta al narrato di Acri circa il mandato conferito da Pranno, tre giorni prima dell’agguato.
Si sottolinea l’assenza di costanza nel narrato di Acri il quale, prima indica Pranno quale mandante dell’omicidio e, poi, vira su NOME COGNOME nell’interrogatorio del 30 settembre del 2019.
La difesa, peraltro, rimarca il contesto individuale in cui fu conferito l’incarico ad Acri, collocato temporalmente tre giorni prima.
Questo, secondo il ricorrente, riguarda soltanto Acri non COGNOME. Inoltre, si sottolinea l’estraneità di Cicero alla fase preparatoria e al conferimento dell’ordine esecutivo, circostanze confinate in un colloquio a due, tra Acri e Pranno, secondo le stesse dichiarazioni dei collaboratori.
Dunque, per la difesa, non vi è certezza circa l’individuazione del momento precedente all’azione omicidiaria nel quale, specificamente quanto alla posizione di NOMECOGNOME l’imputato risulta essere stato informato del proposito criminoso e ricevuto l’ordine di partecipazione all’omicidio, requisito cronologico necessario per la giurisprudenza di legittimità ad integrare la premeditazione.
Peraltro, si rimarca che vi è stata un’unica perlustrazione culminata con l’azione di fuoco.
Quanto alla sussistenza della circostanza aggravante de F motivi abietti, si osserva che questa è riconosciuta perché ricondotta alla volontà di rafforzare il prestigio associativo del gruppo ‘ndranghetista, offrendo un esempio agli imprenditori riottosi nel pagare il pizzo.
Si sostiene che la motivazione, sul punto, è manifestamente illogica e in contrasto con la giurisprudenza di legittimità secondo la quale l’affermazione del prestigio non integra l’abiezione perché detta finalità è, invece, parte della naturale estrinsecazione del programma criminale dell’associazione di stampo mafioso, tenuto conto, peraltro, che è stata contestata anche la circostanza aggravante di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991, esclusa solo ratione temporis.
Non risulta, dunque, quel quid pluris rispetto alla finalità di consolidamento del prestigio e predominio del clan di riferimento, ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità necessario per integrare la circostanza aggravante comune (Sez. 1, n. 12818 del 2022).
Di qui la richiesta di esclusione della premeditazione e della circostanza aggravante dei motivi abietti, con conseguente necessità di annullare la sentenza con rinvio perché sia rivisto anche il giudizio di bilanciamento che la difesa invoca nel senso della prevalenza, rispetto alla residua circostanza aggravante del numero delle persone.
2.4.2. Con il ricorso a firma dell’avv. P. COGNOME, si denunciano, con un unico motivo, plurimi vizi.
Si deduce inosservanza ed erronea applicazione di legge penale rispetto alle prove costituite dalle dichiarazioni dei collaboratori, con vizio di motivazione.
Si sottolinea che il processo è stato incardinato dopo tre archiviazioni e sulla base di fonti di prova che non sarebbero convergenti.
Quanto a NOME COGNOME si osserva che questi ha affermato di aver assistito, personalmente, alla discussione nel corso della quale si stabilì la tangente per COGNOME precisando che il narrato del collaboratore è inutilizzabile secondo gli stessi giudici di secondo grado, perché circolare e cle relato.
Per NOME COGNOME si osserva che le sue dichiarazioni sono state valutate inutilizzabili nei confronti del fratello NOME COGNOME ma, comunque, si osserva che i fratelli COGNOME, sulla posizione di NOME, rendono affermazioni opposte (per NOMECOGNOME non ha partecipato all’omicidio, per NOME COGNOME, si), infine COGNOME non inserisce mai NOME nell’azione delittuosa a nessun titolo.
Per NOME COGNOME si osserva che, se è vero che questi ha confessato di essere il mandate dell’omicidio, non è escluso che si sarebbero dovuti esaminare i diversi interrogatori resi e la molteplicità delle versioni che si sono susseguite, come evidenziato con l’atto di appello al quale la sentenza di secondo grado non risponde adeguatamente.
Inoltre, si osserva che le dichiarazioni del collaboratore non sono state oggetto di valutazione incrociata con quelle dei collaboratori Acri e Pranno, considerati attendibili.
In relazione a NOME COGNOME si osserva che parte principale della sua dichiarazione è reputata lacunosa e non utilizzabile dai giudici di merito; tale parte della dichiarazione per la difesa, non è de relato ma diretta.
Si deduce che, assumendone l’inutilizzabilità, in sostanza, la Corte territoriale supera le censure devolute con l’atto di appello, ivi comprese le osservazioni sul recupero degli esecutori materiali, attività che Tedesco
attribuisce proprio a COGNOME ma in contraddizione con COGNOME che indica COGNOME e sé stesso come coloro che avevano recuperato i killer.
Per quanto concerne Acri si rileva che la motivazione è contraddittoria, quanto ai riscontri estrinseci rispetto alle sue dichiarazioni.
Vi sarebbe, poi, omessa motivazione sul contrasto tra quanto riferito nelle immediatezze da tre testimoni e quanto riferito dal testimone NOME COGNOME utilizzato in sentenza come riscontro alle dichiarazioni di Acri.
I tre testi presenti nel negozio, secondo la difesa, sarebbero riscontro negativo rispetto alle dichiarazioni di Acri nella parte in cui questi include NOME tra i presenti all’interno dell’esercizio commerciale.
La sentenza assume che i tre testi si sarebbero confusi ma detto assunto è contraddittorio in quanto il metodo di valutazione della prova risulta essere opposto a quello relativo alla valutazione delle dichiarazioni rese dal teste COGNOME. Invece, il racconto dei tre testi coincide con quanto dichiarato da Acri nell’interrogatorio del 30 settembre 2019 riportato per stralcio a pagina 8 del ricorso.
Le testimonianze oculari e le risposte di Acri trovano riscontro vicendevole come era stato devoluto con i motivi di appello, mentre la motivazione della sentenza sul punto è carente.
Ancora si segnala il contrasto insanabile tra le risultanze del referto medico autoptico sul cadavere e le dichiarazioni di Acri.
La sentenza attribuisce alla concitazione del momento il contrasto tra il citato referto e le dichiarazioni del collaboratore, relativi alla parte del cor attinta dai colpi di arma da fuoco, cercando di sanare il contrasto con le altre dichiarazioni sui colpi esplosi anche da NOME COGNOME verso il figlio del COGNOME
Acri ha dichiarato di aver sparato a distanza di tre/quattro metri al massimo e di ricordare che c’era il muratore (uno dei testi) affianco alla sua destra, la moglie (della vittima) a sinistra, precisando di aver sparato e di essere uscito, colpendo alle spalle la vittima.
Infine, si rileva vizio di motivazione quanto ai ritenuti riscontri intrinseci a affermazioni di Acri.
La sentenza assume che, sulla precisione del ricordo, avrebbe inciso il cambio di vita derivante dalla collaborazione, la pratica del programma di protezione e il reinserimento sociale, nonché il tempo trascorso dall’interrogatorio del 1997.
Nei narrati di Acri, però, osserva la difesa la divergenza non attiene solo alla presenza di NOME sul luogo dell’omicidio ma riguarda tutta l’azione delittuosa, la premeditazione, i mandanti, la conoscenza del fatto da parte di altri collaboratori, con particolare riferimento a quanto riportato da Pranno che viene, invece, indicato come elemento di riscontro dal giudice di secondo grado.
Si allega la richiesta di misura cautelare dalla quale si evince, secondo il ricorrente, quanto sostenuto nel motivo.
Da ultimo, quanto a NOME COGNOME si contesta vizio di motivazione circa le dichiarazioni del collaboratore.
Sull’attendibilità si faceva riferimento a quanto sostenuto dalla stessa Procura competente, ritenendo l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni pressoché non apprezzabile e quella estrinseca inesistente.
Nessuna spiegazione è contenuta in sentenza, secondo il ricorrente, su un elemento determinante e divergente con tutte le altre fonti perché COGNOME sostituisce NOME, deceduto, con NOME. NOME COGNOME era deceduto al momento del pentimento di Pranno e, quindi, indicarlo come partecipe non avrebbe condotto ad alcun vantaggio per il collaboratore di giustizia.
Si tratta di osservazione devoluta con i motivi di appello e che non avrebbe trovato risposta nella sentenza di secondo grado.
Il Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME ha fatto pervenire requisitoria scritta, in assenza di tempestiva richiesta di trattazione orale delle parti, ai sensi dell’art. 23, comma 8, d. I. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, come prorogato, con la quale ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di Pranno, Vitelli e Acri e i rigetto di quello proposto nell’interesse di Cicero.
3.1. La parte civile, avv. NOME COGNOME ha fatto pervenire conclusioni scritte con le quali ha chiesto la conferma della sentenza e la condanna degli imputati alla rifusione delle spese del giudizio, nella misura di euro 4000,00 ciascuno, oltre accessori di legge.
3.2.1 difensori, avv. R. NOME COGNOME e NOME COGNOME per COGNOME hanno fatto pervenire memorie di replica con le quali, ulteriormente argomentando i motivi di ricorso, hanno concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.1 ricorsi di Pranno, COGNOME e Acri sono inammissibili, mentre quelli proposti nell’interesse di COGNOME sono fondati, limitatamente alle deduzioni svolte in ordine alla circostanza aggravante della premeditazione e, conseguentemente, al trattamento sanzionatorio.
1.1. Va, preliminarmente, rimarcato, in relazione a tutti i ricorsi all’esame del Collegio, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte che si richiama in quanto condivisibile (tra le altre, Sez. 1, n. 34712 del 02/02/2016, COGNOME, Rv. 267528; Sez. 2, n. 35923 del 11/07/2019, Campo, Rv. 276744), in tema di chiamata in correità, gli altri elementi di prova da valutare, ai sensi dell’art. 192
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comma 3, cod. proc. pen., unitamente alle dichiarazioni del chiamante, non devono avere necessariamente i requisiti richiesti per gli indizi a norma dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., essendo sufficiente che essi siano precisi, nella loro oggettiva consistenza, nonché idonei a confermare, in un apprezzamento unitario, la prova dichiarativa dotata di propria autonomia rispetto a quella indiziaria.
Detti riscontri possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia rappresentativo che logico, a condizione che sia indipendente anche da altre chiamate in correità, purché la conoscenza del fatto da provare sia autonoma e non appresa dalla fonte che occorre riscontrare, e a condizione che abbia valenza individualizzante, dovendo, cioè, riguardare non soltanto il fatto-reato, ma anche la riferibilità dello stesso all’imputato, mentre non è richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova “autosufficiente” perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata di correità (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 255143 – 01; conf. n. 45733 del 2018, Rv. 274151).
Nell’interpretare la locuzione “altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità” contenuta nell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., va precisato, poi, che la conferma imposta dalla norma non è direzionata alla persona del dichiarante (soggetto la cui attendibilità è da valutarsi previamente, in rapporto all’esistenza di indicatori tali da asseverare la sua partecipazione al fatto narrato comunque da rappresentare le modalità della sua conoscenza) ma alle specifiche dichiarazioni.
Va, anche, precisato che l’espressione “elementi di prova’ per descrivere gli elementi convalida, non può fare riferimento a meri sospetti, ma detti elementi devono possedere un’autonoma consistenza e una, sia pur limitata, capacità rappresentativa.
Vi deve essere, peraltro, una correlazione di pertinenza tra i riscontri e l’imputazione contestata.
Il riscontro non può limitarsi, dunque, ad accrescere l’attendibilità intrinseca del dichiarante, ma deve proiettarsi verso i fatti delittuosi attribuiti.
Ovviamente, tale idoneità probatoria non può essere intesa in termini di autosufficienza dovendo, comunque, il riscontro fungere da completamento della narrazione oggetto di verifica.
Si tratta, quindi, di elementi in posizione subordinata e accessoria rispetto alla prova derivante dalla chiamata in correità, avendo essi idoneità probatoria rispetto al thema decidendum non da soli, ma in riferimento alla chiamata. Altrimenti, in presenza di elementi dimostrativi della responsabilità dell’imputato
non varrebbe la regola di giudizio di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., ma quella generale di pluralità di prove e di libera valutazione di queste.
1.2. In ogni caso, il giudice, ancora prima di accertare l’esistenza di riscontri esterni, deve verificare la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibil oggettiva delle sue dichiarazioni, attraverso un percorso valutativo che non deve muoversi con passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva del suo racconto devono essere vagliate unitariamente, non indicando l’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale (tra le altre, Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. cit.; Sez. 1, n. 41238 del 26/06/2019, COGNOME, Rv. 277134 – 01; Sez. 6, n. 40899 del 14/06/2018, C., Rv. 274149).
Si osserva, dunque, che, in base ai criteri giurisprudenziali codificati nei commi 3 e 4 dell’art. 192 cod. proc. pen., le dichiarazioni accusatorie provenienti da taluno dei soggetti ivi indicati devono essere sottoposte, con riguardo ad ogni singola chiamata in reità o correità e a ogni singolo episodio, a un duplice controllo volto ad accertare, tanto l’attendibilità intrinseca del dichiarant quanto l’affidabilità ab extrinseco delle accuse formulate, mediante l’individuazione e la valutazione di elementi processuali esterni di verifica, tra quali possono annoverarsi anche le dichiarazioni accusatorie che provengano da altri soggetti della stessa qualità, sempre che sia possibile escludere ipotesi di collusione o di reciproco condizionamento psicologico (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. cit.; Sez. 1, n. 412:38 del 26/06/2019, COGNOME, Rv. 277134 – 01
1.3. Inoltre, va sottolineato che è stato affermato da questa Corte di legittimità, con orientamento costante, il principio secondo il quale le confidenze autoaccusatorie dell’imputato ad un collaboratore di giustizia, che ne abbia, successivamente, riferito nelle proprie dichiarazioni, hanno natura confessoria.
Di tal ché, una volta positivamente vagliata l’attendibilità del collaboratore ai sensi dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., dispiegano piena efficacia probatoria alla sola condizione che se ne apprezzi la sincerità e la spontaneità, in modo da potersene escludere la riconducibilità a costrizioni esterne o a possibili intenti auto calunniatori (Sez. 5, n. 27918 del 25/05/2021, Grande Aracri, Rv. 281603; Sez. 1, n. 9891 del 04/06/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278503).
2.11 ricorso di Pranno è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
2.1. Il primo motivo è inammissibile.
La deduzione svolta è generica, posto che non indica, specificamente, a quali dichiarazioni il vizio dedotto si riferisce.
La motivazione offerta dalla Corte territoriale in ordine al mandato omicidiario (cfr. p. 40 e ss.) è conforme ai richiamati canoni interpretativi fissat
in tema di chiamata in correità, da questa Corte di legittimità e appare del tutto convergente con quella di primo grado (cfr. p. 22 e ss.), con particolare riferimento alla specificata fonte delle dichiarazioni de relato e, comunque, alla convergenza delle dichiarazioni eteroaccusatorie.
Del resto, è noto che in caso di cd. doppia conforme affermazione di responsabilità, le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (tra le tante: Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 252615- 01).
Si tratta di motivazione del tutto in linea con i parametri dettati da questa Corte, Sez. U, ricorrente COGNOME e che appare coerente, lineare, immune da illogicità manifesta.
La sentenza di secondo grado evidenzia che sul mandato omicidiario, invero, sono convergenti le dichiarazioni di NOME COGNOME COGNOME e di NOME COGNOME i quali hanno riferito, il primo, di un mandato ad uccidere conferito unitamente al Pranno, il secondo, di aver ricevuto l’ordine dai predetti COGNOME e COGNOME di portare a compimento l’omicidio di COGNOME.
Le due dichiarazioni sono convergenti e, dunque, utilmente suscettibili di essere valutate come reciproco riscontro, come, in modo ineccepibile, ritiene la Corte territoriale.
Inoltre, la sentenza di primo grado specifica che tutte le fonti di riferimento originaria, sono oggetto di specifica indicazione da parte dei chiamanti e che, comunque, nel caso di Acri, si tratta di dichiarante che direttamente ha avuto un ruolo attivo nella vicenda delittuosa.
Questi, infatti, con ruolo diverso, ha preso parte all’omicidio con ciò riferendo circostanze apprese direttamente.
Acri, secondo i giudici di merito, ha affermato che era stato Pranno a dare mandato di uccidere COGNOME, mandato conferitogli anche da NOME COGNOME indicato come appartenente al sodalizio con pari posizione rispetto a Pranno (cfr. p. 40 e ss. sentenza di appello).
La sentenza di primo grado richiama anche le dichiarazioni autoaccusatorie di COGNOME il quale, rendendo anche una chiamata diretta in correità a carico di COGNOME, ha affermato di aver deciso di uccidere COGNOME unitamente a NOME COGNOME (cfr. p. 22).
Il mandato si ricava, dunque, anche in base alle dichiarazioni di COGNOME, prima rese il 12 settembre 2001 e, poi, il 30 settembre 2019, il quale assume che COGNOME si era rifiutato di pagare somme richieste a titolo di estorsione, precisando anche che, dopo l’omicidio, proprio COGNOME aveva indicato l’omicidio di COGNOME come esempio per chi non pagava.
Secondo la sentenza di primo grado, poi, anche la chiamata in reità di NOME COGNOME all’epoca dei fatti partecipe al gruppo criminale di riferimento dello stesso COGNOME, ha indicato come principale mandante dell’omicidio proprio NOME COGNOME insieme al fratello NOME e a NOME COGNOME. Questi, altresì, ha indicato Acri e NOME COGNOME come soggetti incaricati di compiere materialmente l’omicidio.
Dette chiamate sono tutte convergenti, dunque, nell’individuare la genesi dell’omicidio e le modalità esecutive di questo; in particolare si chiarisce che si tratta di spedizione necessitata dall’esigenza di punire e colpire l’imprenditore che si era sottratto ai pagamenti richiesti dal gruppo.
COGNOME, su incarico di COGNOME, condusse sul posto gli esecutori materiali. NOME COGNOME fu colui che, come da lui stesso riferito, sparò con una pistola calibro 38, indicando, altresì, la presenza di COGNOME e COGNOME, in attesa di recuperare gli autori del fatto, in auto presso la questura di Cosenza.
2.2. Il secondo motivo è inammissibile in quanto generico.
La motivazione delle convergenti sentenze di merito, invero, esclude la ricorrenza delle ipotesi di cui agli artt. 83 e 116 cod. pen. (cfr. p. 22 del sentenza di primo grado e p. 40 di quella di appello) con ragionamento immune da illogicità manifesta e privo di vizi di ogni tipo.
In particolare, i provvedimenti di merito valorizzano la chiamata in correità di Acri che, sul punto del mandato di COGNOME e COGNOME, specifica che i due erano senz’altro in posizione paritetica all’interno del gruppo e che viene indicata come del tutto convergente con le dichiarazioni autoaccusatorie dello stesso COGNOME.
Del resto, si sottolinea che il riferimento che lo stesso COGNOME opera, nelle sue dichiarazioni autoaccusatorie, alla mera intenzione di incendiare l’esercizio commerciale della vittima, secondo la motivazione, immune da illogicità manifesta, dei giudici di secondo grado, è da ascrivere al tempo trascorso dai fatti, posto che tutte le altre convergenti fonti di accusa a carico, lo indicano come mandante, assieme a COGNOME, dell’omicidio (cfr. p. 41).
Invero, è noto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio aderisce (Sez. 1, n. 44579 del 11/09/2018, B., Rv. 273977 – 01; Sez. 6, n. 6214 del 5/11/2011, dep. 2012, COGNOME. Rv. 252405) la configurazione del concorso cd. anomalo di cui all’art. 116 cod. pen. è soggetta a due limiti negativi e cioè che l’evento diverso non sia stato voluto neppure sotto il profilo del dolo alternativo o eventuale e che l’evento più grave, concretamente realizzato, non sia conseguenza di fattori eccezionali, sopravvenuti, meramente occasionali e non ricollegabili eziologicamente alla condotta criminosa di base.
Nel caso al vaglio, invece, secondo la dinamica ricostruita dai convergenti provvedimenti di merito, il mandato conferito non era quello della mera spedizione punitiva, affidata ad altri con piena autonomia nella scelta dei
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partecipi, dei ruoli e delle armi da utilizzarsi, sicché non si è avuta alcuna evoluzione, nella fase esecutiva, della condotta degli agenti, tale da integrare il cd. concorso anomalo di Pranno.
Nessun elemento, in fatto, riportato dalle sentenze di merito, poi, consente di concludere, come ha fatto il ricorrente, nel senso di ritenere la fattispecie di cui all’art. 83 cod. pen.
La Corte territoriale, invece, ha chiarito con ragionamento immune da censure di ogni tipo che, anche aderendo alla prospettazione difensiva, in ogni caso, il delitto di omicidio, riferibile al mandante, ricorre quanto meno nella forma del dolo eventuale.
Infatti, secondo la costante giurisprudenza di legittimità in tema di aberrato delicti, l’evento non voluto è addebitabile all’agente solo a titolo di colpa, quando sia assolutamente diverso, cioè di altra natura rispetto a quello voluto, ma non quando di questo costituisca una sorta di progressione naturale e prevedibile, dovendo in tal caso l’agente rispondere, anche in relazione al secondo evento, a titolo di dolo, sia pure alternativo o eventuale (Sez. 4, n. 54015 del 25/10/2018, Contu, Rv. 274750 – 02; Sez. 2, n. 19293 del 03/02/2015, COGNOME, Rv. 263519 – 01; Sez. 1, n. 21955 del 02/02/2010, Agosta, Rv. 247401 – 01).
3.1 ricorsi di COGNOME e Acri sono manifestamente infondati.
3.1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Invero, il Collegio intende dare continuità all’indirizzo interpretativo secondo il quale (tra le altre, Sez. 6, n. 29626 del 11/03/2010, Capriati, Rv. 248194 01) la circostanza attenuante speciale prevista per i collaboratori di giustizia dall’art. 8 d. I. n. 152 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, si applica solo ai delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. e a quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste da detta norma per agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso (sicché, per la pronuncia citata, non concorre con l’attenuante di cui all’art. 74, comma settimo, d.P.R. n. 309 del 1990, che si applica solo a colui che si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato previsto dall’art. 74 stesso d.P.R., o per sottrarre al traffico illecito di sostan stupefacenti risorse decisive per la commissione dei delitti), in quanto la circostanza speciale costituisce previsione premiale, diretta ad evitare, attraverso una sorta di ravvedimento post delictum, che il reato associativo, cui si riferisce sia portato ad ulteriori conseguenze (conf. Sez. 6, n. 31874 del 9/05/2017, Rv. 270589 – 01; Sez. 6, n. 27784 del 05/04/2017, Abbinante, Rv. 270399 – 01).
Di tale fattispecie non può ravvisarsi la richiesta applicazione, tenuto conto che, comunque, nel caso al vaglio risulta esclusa, formalmente, la circostanza aggravante speciale, ratione temporis, di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991 e non risulta contestata la fattispecie di reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.
La circostanza attenuante speciale prevede che il soggetto presti un contributo decisivo per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione e la cattura dei colpevoli “dissociandosi dagli altri”, il che non può non presupporre, quale necessario antecedente logico, che siano stati ritenuti provati l’adesione del dissociato alla consorteria o, quantomeno, la metodologia e/o le finalità che connotano tale forma di criminalità organizzata, non essendo ipotizzabile una presa di distanza da una struttura organizzata o da una circostanza modale o finalistica che non siano state accertate come realmente sussistenti dai giudici di merito.
A tale conclusione conduce anche la ratio dell’elemento circostanziale in parola che, essendo finalizzato ad introdurre nel sistema un ulteriore strumento per la repressione del fenomeno mafioso – incentivando quelle condotte che possano scardinare il vincolo associativo e/o assicurare un concreto e significativo contributo alle indagini sull’organizzazione criminale – si giustifica e dunque, non può che presupporre che di criminalità mafiosa (anche con riguardo al modus operandi o alle finalità agevolatrici della consorteria) effettivamente si tratti.
Tale stretta connessione, anche di tipo formale, si trae proprio dalla formulazione del secondo comma dell’art. 8 cit. che, nell’escludere de iure l’applicabilità della circostanza aggravante dell’art. 7 in caso di concessione della citata attenuante, ne convalida per tabulas la stretta interdipendenza da essa.
L’applicazione della circostanza attenuante in oggetto, nel presupporre il positivo accertamento giurisdizionale che si tratta effettivamente di un delitto stricto o lato sensu “di mafia”, non può non postulare, secondo il principio cardine di necessaria correlazione fra contestazione e sentenza codificato all’art. 521 cod. proc. pen., che l’elemento circostanziale di cui al citato art. 7 sia stato oggetto di una formale contestazione. Del resto, si rileva che nel caso al vaglio, essendo stata esclusa la circostanza aggravante speciale, non si ravvisa alcuna esigenza di bilanciare, con il contrappeso derivante dalla dissociazione attuosa l’aumento di pena derivante da quest’ultimo elemento circostanziale, nella sostanza non riconosciuto.
D’altronde, il codice penale riconosce al giudice la possibilità di valorizzare alla luce del proprio prudente apprezzamento – facendo ricorso ai criteri di determinazione della pena ed all’istituto delle circostanze attenuanti generiche l’apporto fornito agli inquirenti dall’imputato che abbia collaborato con la giustizia, sia pure in assenza di un positivo riconoscimento della citata circostanza aggravante ex art. 7 cit., e, dunque, di dare il giusto riconoscimento all’apprezzabile contributo da egli dato al contrasto del fenomeno criminale.
Ciò è avvenuto nel caso al vaglio in cui agli imputati sono state riconosciute, in grado di appello, le circostanze attenuanti generiche anche tenendo conto
della proficua collaborazione con la giustizia, attuata da COGNOME e Acri i qua hanno confessato spontaneamente l’omicidio e hanno rescisso qualsiasi legame di tipo delinquenziale (cfr. p. 42 e 43 della sentenza di appello).
3.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Le sentenze di merito, come osservato dal Sostituto Procuratore generale nella requisitoria scritta fatta pervenire a questa Corte, hanno fatto corretta applicazione dei principi sanciti da Sez. U, ricorrente COGNOME (Sez. U, n. 19756 del 24/09/2015, dep. 2016, COGNOME Rv. 266329) la quale, sulla quaestio iuris della possibile operatività della prescrizione per delitti sanzionabili, in astratt con l’ergastolo, commessi anteriormente all’8 dicembre 2005 (data della entrata in vigore della norma che ha sostituito l’art. 157 cod. pen.), nell’ipotesi che i concorso di circostanze attenuanti comporti l’applicazione della pena detentiva temporanea ovvero – in relazione alla disposizione di diritto intertemporale di cui all’art. 226, comma 1, del d.igs. 19 febbraio 1998, n. 51 – la previsione in concreto della potenziale irrogazione della reclusione, hanno ritenuto di riaffermare il tradizionale orientamento consolidatosi sul punto.
Detto indirizzo si è espresso nel senso dell’assoluta imprescrittibilità dei delitti, commessi anteriormente all’8 dicembre 2005 – come quello sub iudice -punibili con la pena dell’ergastolo, pur nel caso in cui il riconoscimento di circostanze attenuanti comporti l’irrogazione della pena detentiva temporanea.
In definitiva, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che vi è applicazione dell’art. 157 cod. pen., ai soli reati contravvenzionali o ai delit puniti solo con pene temporanee.
Questo principio – la cui recente riaffermazione è d’altronde maturata in fattispecie relativa a delitti di omicidio aggravato commessi prima della riforma dell’art. 157 cod. pen., giudicati previo riconoscimento della circostanza attenuante speciale prevista per i collaboratori di giustizia dall’art. 8 d.l. maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 – è stato condivisibilmente esposto facendo leva, in primo luogo, sulla formulazione dell’art. 157 cod. pen. nel testo previgente, atteso che la norma, disciplinando la prescrizione esclusivamente in relazione ai reati punibili con pena pecuniaria e/o con pena detentiva temporanea, ha, per converso, escluso dal relativo ambito di applicazione tutti i delitti per i quali la legge commina la pena perpetua.
È del pari rilevante, fra le altre, la notazione secondo cui, prima dell’intervento legislativo modificatore della disposizione dell’art. 157 cod. pen., mediante la sostituzione dell’intero testo e l’introduzione della norma, contenuta nell’ultimo comma, secondo cui “la prescrizione non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche per effetto della applicazione di circostanze aggravanti”, era acquisizione pacifica e incontestata, sia nella giurisprudenza di legittimità, sia in dottrina, che i delitti punibili con l’ergast
fossero assolutamente imprescrittibili, essendo del tutto ininfluente l’eventuale riconoscimento di circostanze attenuanti che comportasse, in concreto, l’applicazione di pena diversa da quella perpetua.
Soltanto dopo le novità introdotte dalla legge n. 251 del 2005, al tradizionale orientamento succitato, in precedenza assolutamente pacifico e riaffermato, pur dopo la novella, da altre pronunzie si è affiancato quello, di segno diverso, citato dai ricorrenti, comunque analizzato specificamente dalle Sezioni Unite che lo hanno conclusivamente disatteso.
Per il resto, il richiamo all’autorevole precedente ora indicato va ancora operato per ribadire che nel sistema positivamente definito dall’art. 157 cod. pen. (testo originario) la comminazione normativa dell’ergastolo (in virtù della pura norma incriminatrice o del concorso di aggravante che preveda la pena perpetua) costituisce il discrimen che segna i confini dell’istituto della prescrizione: in esso include, a guisa di ideale spartiacque, la classe dei reati costituita dalle contravvenzioni e dai delitti punibili colla multa o con l reclusione; mentre, nel contempo, esclude a priori la classe dei delitti astrattamente punibili con l’ergastolo. L’esclusione implica l’ineluttabile corollario che alla succitata classe dei delitti imprescrittibili (sulla base della condizione necessaria e sufficiente – giova ribadirlo – della astratta comminatoria della pena perpetua) non sono ovviamente riferibili le disposizioni dell’art. 157, secondo e terzo comma, cod. pen., dettate (alla luce della evidente connessione col primo comma) con esclusivo riguardo ai reati astrattamente punibili con le pene dell’ammenda, dell’arresto, della multa e della reclusione.
La convinta adesione da parte di questo Collegio, al ragionamento esposto dall’arresto regolatore suindicato (all’esame della cui motivazione si rinvia per ogni altro dettaglio) preclude di accogliere l’eccezione sollevata dai ricorrenti, con riferimento all’individuazione della portata della disciplina applicabile.
Invero, il tradizionale assetto interpretativo dell’art. 157 cod. pen. ante legge n. 251 del 2005 era nel senso dell’esclusione dalla sfera della prescrittibilità dei delitti puniti (anche per l’effetto delle contestate circostan aggravanti) con l’ergastolo, delitti fra cui è ricompreso quello ritenuto a carico di Vitelli ed Acri.
L’omicidio oggetto di esame, d’altro canto, risale all’anno 1981, ossia ad epoca in cui esulava, in ogni caso, dalla sfera di prevedibilità la possibilità di prescrizione del reato, in virtù della sanzione penale con cui era punito l’omicidio del tipo di quello a cui hanno concorso, a diverso titolo, i ricorrenti.
L’interpretazione relativa all’imprescrittibilità dei delitti puniti con l’ergasto pur se commessi in tempo antecedente alla modifica normativa di cui alla legge n. 251 del 2005, per un verso, non integra un caso di overruling, avendo sancito la conferma del tradizionale orientamento giurisprudenziale. Per altro verso, la
stessa interpretazione di segno difforme poi disattesa dall’arresto delle Sezioni unite è emersa in tempo (dopo il 2005) rispetto al quale alcuna ragionevole prevedibilità può annettersi alla posizione di COGNOME e COGNOME i quali hanno commesso il reato di cui si tratta nell’anno 1981.
In conclusione, deve essere ribadito il principio di diritto secondo il quale il delitto punibile in astratto con la pena dell’ergastolo, commesso prima della modifica dell’art. 157 cod. pen., per effetto della legge 5 dicembre 2005, n. 251, è imprescrittibile, pur in presenza del riconoscimento di circostanza attenuante dalla quale derivi l’applicazione di pena detentiva temporanea.
4.Gli atti di impugnazione proposti nell’interesse di NOME sono fondati limitatamente alle censure relative alla ritenuta circostanza aggravante della premeditazione e, conseguentemente, al trattamento sanzionatorio, con le precisazioni di seguito illustrate.
4.1. Il primo motivo del ricorso dell’avv. R. M. COGNOME e quello proposto dall’avv. P. COGNOME sono infondati.
Si richiamano, per quanto riguarda i requisiti della credibilità e attendibilità dei collaboratori, chiamanti in correità e reità, tutte le osservazioni svolte da Collegio, in via generale, al § 1., nonché al § 2. del presente provvedimento.
Il motivo di ricorso dell’avv. P. COGNOME in parte, è perplesso, in parte, inammissibile perché devolve censure non consentite in sede di legittimità.
La critica, nel complesso, per certi aspetti, è versata in fatto e tende a rivalutare l’attendibilità e credibilità dei dichiaranti, requisiti attentame vagliati dai giudici di merito, secondo i canoni ermeneutici fissati da questa Corte di legittimità.
Per altro aspetto, si censura l’efficacia dimostrativa dei riscontri esterni, riportando stralci delle dichiarazioni dei collaboratori, sollecitando la rilettura fonti di prova e la formulazione del giudizio di attendibilità e credibilità d chiamanti in correità e reità, operazione non consentita in sede di legittimità (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, COGNOME, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, COGNOME, Rv. 214794; Sez. 6, n. 456 del 21/09/2012, dep. 2013, Cena, Rv. 254226; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, Rv. 235507).
In sostanza, entrambi i motivi di ricorso (primo motivo dell’avv. COGNOME e motivo unico dell’avv. COGNOME) si dolgono della discordanza tra il narrato di Acri e Tedesco e sul fatto che la Corte territoriale non prenderebbe in considerazione, adeguatamente, la prospettazione difensiva circa la configurabilità di un mero mandato a ledere e non ad uccidere imposto da Pranno, secondo la stessa dichiarazione dell’imputato che, invece, viene reputata convergente con la chiamata in correità, travisandone i contenuti.
La motivazione della Corte territoriale, sul punto, effettivamente scarna (cfr. p. 44 della sentenza di secondo grado) va, però, integrata con le complete considerazioni, immuni da vizi, che svolge il primo giudice (cfr. p. 25 e ss.).
La sentenza di primo grado, in particolare, osserva che la fonte di riferimento originaria, oggetto di specifica indicazione da parte dei chiamanti, è costituita, nel caso dei collaboratori Tedesco, Acri e Pranno, da soggetti che hanno avuto direttamente un ruolo attivo nella vicenda delittuosa. Essi, ognuno con un ruolo diverso, infatti, hanno preso parte all’omicidio con ciò riferendo circostanze apprese direttamente.
Si tratta, dunque, di chiamate legittimamente valutate come autonome e indipendenti, proprio perché provenienti da diverse fonti, oltre che reciprocamente convergenti sul nucleo essenziale, decisivo, del narrato.
Tutti i dichiaranti, secondo il primo giudice, risultano concordi nel ritenere che fu COGNOME, su incarico di Pranno, a condurre sul posto gli esecutori materiali con una vettura tipo Golf di colore nero, nonché ad indicare in NOME COGNOME colui che aveva sparato, usando una pistola calibro 38.
COGNOME viene indicato, secondo la ricostruzione del primo giudice, come soggetto che, materialmente, ha concorso all’omicidio, fornendo un contributo causale apprezzabile, stante la sua presenza sul luogo del delitto, dove si era portato, armato di pistola, insieme ad Acri, pur restando sulla soglia dell’esercizio commerciale mentre quest’ultimo esplodeva i colpi d’arma da fuoco all’indirizzo della vittima.
Egli, dunque, faceva parte del gruppo di fuoco che si era occupato, materialmente, di dare esecuzione al mandato omicidiario.
Tale dato si trae dalle dichiarazioni reputate convergenti di NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME (cfr. p. 26 e ss.)
Si descrive, infine, la presenza di COGNOME e COGNOME in attesa per recuperare gli autori dell’esecuzione, in un’auto ferma nei pressi della questura di Cosenza.
I dichiaranti, da ultimo, narrano in maniera considerata convergente, anche dell’epilogo della vicenda, ricordando che, il giorno dopo l’omicidio, la moglie di COGNOME si era recata da Pranno, onde discutere del pagamento di una somma di denaro a titolo di protezione, concordando il pagamento mensile della somma di circa 500.000 lire.
Per contro, le osservazioni del ricorrente, in entrambi gli atti di impugnazione, sono di puro merito, sollecitano la rilettura delle deposizioni, si richiamano a una carenza di motivazione che non si riscontra, almeno attraverso la lettura congiunta, sul punto devoluto, dei provvedimenti di merito.
La sentenza di appello, peraltro, afferma, con ragionamento immune da vizi, che le dichiarazioni di Acri e Pranno si riscontrano reciprocamente, quanto al ruolo quale esecutore materiale del delitto di Cicero. Si indicano tali fonti
dichiarative come provenienti da soggetti che avevano preso parte, come correi, al delitto, in particolare Acri quale esecutore materiale.
Entrambi hanno riferito del concorso di NOME nei rispettivi interrogatori resi nell’immediatezza della collaborazione e, poi, successivamente in epoca più recente.
Il primo giudice, a fronte della descritta motivazione della sentenza di appello, come si è detto, è più preciso (cfr. p 25 e ss.), valorizza anche altre fonti a carico, quali la chiamata di COGNOME e COGNOME, tutti aventi ruolo attivo nell’omicidio, ciascuno con condotta diversa, ritenendo le chiamate del tutto prive di circolarità, oltre che riscontrate reciprocamente.
La Corte territoriale, poi, con ragionamento immune da illogicità manifesta, reputa le imprecisioni delle dichiarazioni, dovute alla distanza temporale tra le dichiarazioni e il fatto risalente al 1981.
Non sono condivisibili le critiche relative alla riscontrata discrasia tra i narrato di Acri e il contenuto del referto medico, tenuto conto che, comunque, le difese, a fronte del robusto quadro delle prove a carico, non illustra il carattere decisivo dell’asserita, erronea valutazione da parte della sentenza di appello del dato evidenziato con i motivi di appello.
In ogni caso, la censura risulta reiterativa del corrispondente motivo di gravame, cui la Corte ha risposto con ragionamento immune da illogicità manifesta.
Appare del tutto irrilevante, poi, l’osservazione relativa alla circostanza della convergenza della deduzione difensiva, rispetto al contenuto della richiesta di misura cautelare (cfr. all. 4 al ricorso a firma dell’avv. P. COGNOME), tenuto conto che, comunque, il Giudice non è vincolato dal contenuto della richiesta di misura cautelare, trattandosi di atto attinente a fase diversa, anzi, risultando la pronuncia di condanna di primo grado, esito del più completo giudizio di merito, cui il Giudice per le indagini preliminari è pervenuto all’esito della celebrazione del rito abbreviato.
Inoltre, si osserva, quanto alla deduzione relativa alle dichiarazioni dei testi oculari e all’ipotizzata carenza di motivazione della sentenza di secondo grado, che la censura non è specifica, posto che questa si riferisce a tutte le dichiarazioni che allega (cfr. all. 1 al ricorso avv. NOME COGNOME) e, comunque, è reiterativa dei motivi di appello riportati a p. 11 della sentenza di secondo grado. Tanto, senza tenere conto della motivazione resa dai provvedimenti di merito e, comunque, risultando la censura versata in fatto, tendente a sollecitare questa Corte a un nuovo esame delle dichiarazioni dei testi, rispetto a quello svolto dai giudici della cognizione.
Infine, appare non supportata da elementi circostanziali la deduzione secondo la quale COGNOME avrebbe optato, per scelte utilitaristiche, di modificare
la persona di NOMECOGNOME senz’altro presente all’omicidio, ma ormai deceduto al momento delle dichiarazioni accusatorie, con quella di NOME; sicché la prospettazione non ha consistenza diversa dalla mera supposizione. Peraltro, non spiega la difesa, le ragioni della specifica indicazione della presenza di NOME al momento dell’omicidio, anche da parte di dichiaranti diversi da COGNOME e, dunque, non illustra la decisività della deduzione.
4.2.11 secondo motivo del ricorso dell’avv. R.NOME COGNOME è fondato.
La motivazione offerta dalla Corte di assise di appello, con riferimento alla circostanza aggravante della premeditazione è carente.
La Corte territoriale (cfr. p. 44 e 45) si sofferma soltanto a spiegare e illustrare il momento in cui Acri viene a conoscenza del mandato e dell’esigenza di farsi accompagnare da NOME NOME.
Non spiegano, i giudici di merito, pur a fronte di espressa censura in tal senso, il momento in cui il proposito è sorto per NOME.
Anche la sentenza di primo grado non si sofferma su questo aspetto (cfr. p. 29 e ss.) ma la motivazione si concentra solo sul momento in cui si colloca il mandato conferito ad Acri, facendo discendere da detta collocazione temporale (tre giorni prima dell’esecuzione) la premeditazione anche per Cicero.
Del resto (cfr. p. 11 e ss.), la questione sulle circostanze aggravanti erano state devolute con l’atto di gravame, con deduzioni specifiche alle quali non risponde adeguatamente la sentenza di appello.
Invero, osserva il Collegio che, secondo gli insegnamenti di questa Corte (Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, dep. 2009, COGNOME, Rv. 241575 – 01; conf. n. 27307 del 2003, Rv. 225261 – 01, N. 7970 del 2007, Rv. 236243 – 01), elementi costitutivi della circostanza aggravante della premeditazione sono un apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa l’opportunità del recesso (elemento di natura cronologica) e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzione di continuità nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine (elemento di natura ideologica).
Ancora si deve rilevare che pacificamente (cfr. tra le altre, Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275415 – 01) la circostanza aggravante della premeditazione, oggetto di prova, ex art. 187 cod. proc. pen. e, pertanto, assoggettata alle regole di valutazione stabilite nell’art. 192, comma 2, del codice di rito, può essere dimostrata anche con il ricorso alla prova logica, sulla scorta degli indizi ricavabili dalle modalità del fatto, dalle circostanze tempo e luogo, dal concorso di più persone con ripartizione dei ruoli e dalla natura del movente; non è, invece, necessario stabilire con assoluta precisione il momento in cui è sorto il proposito criminoso o quello in cui l’accordo è stato raggiunto, essendo sufficiente che gli elementi indiziari suddetti siano gravi,
precisi e concordanti e che, globalmente valutati, consentano di risalire, in termini di certezza processuale, al requisito di natura cronologica e a quello di natura ideologica, in cui si sostanzia la premeditazione (conf. n. 26406 del 2014, Rv. 260219 – 01; n. 27307 del 2003, Rv. 225261 – 01).
Detta circostanza aggravante, infine, può essere estesa al concorrente nel reato che non abbia partecipato all’originaria deliberazione volitiva, qualora, però, questi ne abbia acquisito piena consapevolezza precedentemente al suo contributo all’evento e a tale distanza di tempo da consentire che la maturazione del proposito criminoso prevalga sui motivi inibitori (Sez. 6, n. 56956 del 21/09/2017, COGNOME, Rv. 271952 – 01).
Più specificamente, si è di recente precisato in giurisprudenza, secondo un indirizzo che il Collegio condivide, che, comunque (Sez. 1, n. 37621 del 14/07/2023, Rv. 285761 – 02) la circostanza aggravante si applica anche al concorrente che non abbia direttamente premeditato il reato, nel caso in cui lo stesso abbia acquisito, prima che si sia esaurito il proprio apporto volontario all’evento criminoso, l’effettiva conoscenza della altrui premeditazione.
A fronte di tale necessaria valutazione e alle scansioni fissate dall’indirizzo di questa Corte, operazione rimessa al giudice di merito, si osserva che la Corte territoriale non si sofferma sulla posizione di COGNOME, in alcuna parte della motivazione e mutua dal riconoscimento della circostanza a carico di Acri, la qualificazione del delitto come premeditato.
Sicché, si impone l’annullamento con rinvio della sentenza, su tale punto, ravvisandosi il vizio di motivazione denunciato, con la conseguente necessità, ove questa circostanza sia esclusa in sede di merito, di rivedere il trattamento sanzionatorio sotto il profilo dell’operato bilanciamento di circostanze.
Infine, è appena il caso di osservare che la circostanza aggravante dei motivi abietti, secondo la giurisprudenza di legittimità, può concorrere con il fine di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, se quella comune, nei termini fattuali della contestazione e dell’accertamento giudiziale, risulta autonomamente caratterizzata da un quid pluris rispetto alla finalità di consolidamento del prestigio e del predominio sul territorio del gruppo malavitoso (Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, dep. 2009, Rv. 241577, in una fattispecie in cui la circostanza del motivo abietto era consistita nell’intento punitivo dell’autore di un omicidio, dettato da spirito di mera sopraffazione, e quella dell’agevolazione mafiosa nella volontà di riaffermare, attraverso il delitto così connotato, la persistente supremazia del sodalizio criminale. conf., Sez. 1, n. 28594 del 27/04/2021, Rv. 281640 – 01).
Nel caso al vaglio le sentenze di merito evidenziano che non può riconoscersi, a fini sanzionatori, la circostanza aggravante di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991, ratione temporis, in ragione della data in cui si collocano i fatti,
quanto al metodo mafioso e alla volontà di agevolare la cosca COGNOME
-Pranno.
Sicché si osserva, con ragionamento che può essere condiviso, che al movente collegato all
‘ esigenza di dare una lezione al commerciante che non aveva pagato il pizzo e, dunque, di rafforzare il prestigio criminale del sodalizio di cui fa
parte i mandanti dell’esecuzione, può riconoscersi la connotazione di moti abietto.
5.Segue l’annullamento della sentenza impugnata, nei confronti di NOME
COGNOME limitatamente alla circostanza aggravante della premeditazione, p nuovo esame, con piena libertà di valutazione da parte del giudice del rinv
purché in adesione ai principi di cui al § 4.2. Provvedendo, conseguentement alla rivisitazione del trattamento sanzionatorio e, in particolare, dell’
giudizio di bilanciamento delle circostanze, in caso di esclusione in sede di ri della circostanza aggravante della premeditazione.
Segue il rigetto, nel resto, delle argomentazioni contenute negli at impugnazione depositati nell’interesse di NOME.
I ricorsi di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME vann dichiarati inammissibili, declaratoria cui segue la condanna di ciascun ricorre al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 cod. p pen., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissi emergenti dal ricorso (Corte Cost., n. 186 del 13/06/2000), al versamento del somma, che si ritiene equa, di euro tremila in favore della Cassa delle ammende
Tutti i ricorrenti vanno condannati alla rifusione delle spes rappresentanza e difesa della parte civile che si liquidano, tenuto conto conclusioni depositate, nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOME NOMECOGNOME limitatamente al punto concernente l’aggravante della premeditazione, con rinvi per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Catanz Rigetta nel resto il ricorso di NOME NOME.
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Dichiara inammissibili i ricorsi di Pranno Mario, COGNOME NOME COGNOME COGNOME Aldo e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e del O somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, 173) GLYPH píZc o 7) GLYPH gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenut C’3 GLYPH 141’j cb GLYPH presente giudizio dalla parte civile, COGNOME NOME*, che liquida in compless ° GLYPH 7 4uro 3000 oltre accessori di legge.
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Così deciso, il 12 aprile 2024