Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 4304 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1   Num. 4304  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 15/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI REGGIO CALABRIA nel procedimento a carico di:
COGNOME NOME NOME NOME MELITO DI PORTO SALVO il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 13/07/2023 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG NOME COGNOME che ha concluso per l’annullamento del provvedimento impugNOME;
dato avviso al difensore;
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento impugNOME, emesso in data 13 luglio 2023, la Corte d’appello di Reggio Calabria, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha accolto l’istanza avanzata nell’interesse di NOME COGNOME con la quale il condanNOME aveva richiesto la rideterminazione del fine pena stabilito dal Procuratore generale con provvedimento di esecuzione di pene concorrenti in data 12 maggio 2023 n. 110/2010 SIEP, incaricando il pubblico ministero di provvedere in merito, attenendosi alle indicazioni fornite nella parte motivazionale.
Il giudice dell’esecuzione ha riconosciuto al condanNOME sia il periodo di presofferto cautelare ex art. 657 cod. proc. pen. (dal 16 marzo 2000 al 3 maggio 2001) subìto per una condanna revocata (sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria in data 4 maggio 2004, irrevocabile in data 8 marzo 2007 procedimento cd. RAGIONE_SOCIALE), sia la retrodatazione alla data di emissione del decreto di rinvio a giudizio “nel 2000” e, comunque, alla data dell’arresto del 22 aprile 1999 della cessazione della permanenza del reato associativo ex art. 416bis cod. pen. giudicato con la sentenza della Corte d’Assise di appello di Reggio Calabria in data 12 maggio 2004, irrevocabile in data 26 giugno 2004, che i precedenti giudici dell’esecuzione avevano collocato alla data della pronuncia della sentenza di primo grado (22 aprile 2002).
1.1. In adempimento del provvedimento impugNOME, il pubblico ministero dell’esecuzione ha emesso un nuovo provvedimento di esecuzione di pene concorrenti in data 14 luglio 2023 n. 110/2010 SIEP, con il quale la decorrenza della pena per tutti i reati in esecuzione è stata retrodatata al 22 aprile 1999 e la pena complessiva, determinata ex art. 78 cod. pen., è stata individuata in trenta anni di reclusione, con conseguente ordine di scarcerazione alla (decorsa) data del 30 maggio 2023, in considerazione della liberazione anticipata e dell’indulto già applicati.
Ricorre il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Reggio Calabria, che chiede l’annullamento dell’ordinanza impugnata, denunciando la violazione della legge processuale perché il giudice dell’esecuzione ha violato la preclusione derivante dai precedenti provvedimenti assunti dal giudice dell’esecuzione sul medesimo tema (ordinanze in data 8 maggio 2012, 12 dicembre 2012 e 14 aprile 2016) che avevano escluso la retrodatazione della data di cessazione della partecipazione associativa che era stata individuata, in ragione della natura “aperta” della contestazione, nel giorno 22 aprile 2002, data
di pronunzia della sentenza di primo grado, tanto che il provvedimento di cumulo, che recepiva quello già emesso nel 2010, si limitava ad applicare i benefici penitenziari nel frattempo maturati.
Il ricorso fa altresì notare l’erroneità delle determinazioni assunte dal giudice dell’esecuzione sotto il profilo dell’unificazione delle pene: il provvedimento di esecuzione di pene concorrenti in data 12 maggio 2023, che il giudice dell’esecuzione ha posto nel nulla, aveva proceduto alla correzione dell’errore materiale contenuto nel precedente provvedimento del 20 settembre 2017 che aveva erroneamente unificato tutte le pene, invece di procedere, come sempre in precedenza era avvenuto, al cumulo parziale; l’unificazione “frazionata” era doverosa, e in ciò si palesa un ulteriore vizio del provvedimento impugNOME, in considerazione del fatto che il reato associativo giudicato con la sentenza della Corte d’Assise di appello di Reggio Calabria in data 12 maggio 2004 era stato commesso in costanza di detenzione, sicché la decorrenza della relativa pena non poteva essere “anticipata” all’arresto del 1999, come già da tempo chiarito dal giudice dell’esecuzione (ordinanza in data 29 aprile 2005; ordinanza in data 18 maggio 2006).
 Il Procuratore generale di questa Corte ha depositato la requisitoria scritta con la quale ha chiesto l’accoglimento del ricorso perché l’esame della questione della datazione della cessazione della permanenza del reato associativo era precluso in quanto già esamiNOME dal giudice dell’esecuzione, né sono emersi nuovi elementi in grado di giustificare una nuova valutazione.
 AVV_NOTAIO, difensore di NOME COGNOME, ha depositato una memoria di replica alla requisitoria scritta del Procuratore generale con la quale sottolinea che il provvedimento impugNOME aveva correttamente rivalutato, alla luce di un compendio documentale più ampio e variegato, l’intera questione della durata della contestazione associativa.
L’ordinanza impugnata si fa carico, a differenza delle precedenti, di considerare adeguatamente il precipitato logico e giuridico dell’ordinanza pronunciata dalla Corte d’appello di Reggio Calabria in data 10   giugno 2017 n. 15 con la quale, nel disporre la revoca ex art. 669 cod. proc. pen. della sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria in data 4 maggio 2004, irrevocabile in
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data 8 marzo 2007 (procedimento cd. RAGIONE_SOCIALE), per bis in idem rispetto alla sentenza della Corte d’Assise di appello di Reggio Calabria in data 12 maggio 2004, irrevocabile in data 26 giugno 2004 (procedimento cd. faida di COGNOME), ha stabilito che la condotta tenuta dal condanNOME nel procedimento “RAGIONE_SOCIALE” in relazione alla quale il condanNOME aveva subito il periodo di custodia cautelare del quale si discute – era integralmente compresa, rappresentandone una sorta di sottoinsieme, in quella per la “faida di COGNOME“, in particolare ne costituiva l’appendice finale che riguardava gli “accordi di pacificazione”; la condotta giudicata si arrestava, in effetti, a data antecedente l’arresto del condanNOME (1999).
La disposta revoca della sentenza di condanna per il processo “RAGIONE_SOCIALE” (analoga statuizione veniva assunta nei confronti di NOME COGNOME con ordinanza in data 12 luglio 2019 n. 115/2017 della Corte d’appello di Messina) ha determiNOME una nuova situazione giuridica che comporta il superamento di tutte le antecedenti questioni esaminate dal giudice dell’esecuzione.
Del resto, il giudice dell’esecuzione ha acquisito la sentenza di primo grado per la “faida di COGNOME” dalla quale si evince l’esatta datazione delle condotte, come descritta nel provvedimento, infondatamente impugNOME dal pubblico ministero.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.  Il ricorso è fondato.
1.1. Va premesso che è stata respinta con provvedimento presidenziale dell’Il ottobre 2023 l’istanza di trattazione orale formulata dalla difesa poiché si tratta di procedimento camerale non partecipato ex art. 611 cod. proc. pen.
Come correttamente rileva il pubblico ministero ricorrente, nell’interesse di COGNOME NOME sono state avanzate, nel tempo, numerose istanze di analogo contenuto, tutte incentrate sulla datazione della data di cessazione della permanenza del reato associativo giudicato con la sentenza della Corte d’Assise di appello di Reggio Calabria in data 12 maggio 2004, irrevocabile in data 26 giugno 2004; le istanze sono state sempre rigettate e i ricorsi per cassazione
avverso tali pronunce sono stati tutti rigettati o dichiarati inammissibili, sicché risulta un dato acquisito e incontestabile che la contestazione si è chiusa alla data del 22 aprile 2002, come varie volte affermato dai giudici dell’esecuzione e da questa Corte di legittimità.
La questione della datazione è rilevante, come sottolineato dal pubblico ministero ricorrente, perché, ove risolta nel senso auspicato dal condanNOME, determina la unificazione “integrale” delle pene inflitte, con decorrenza dall’arresto del 22 aprile 1999, anziché la formazione di “cumuli parziali”, come in precedenza lo stesso giudice dell’esecuzione aveva stabilito proprio pronunciandosi in merito alla datazione della cessazione della permanenza del reato associativo giudicato con la sentenza della Corte d’Assise di appello di Reggio Calabria in data 12 maggio 2004.
2.1. L’ultima istanza, in ordine di tempo, è quella oggetto del ricorso del pubblico ministero; essa fa leva, secondo la prospettazione difensiva accolta dal giudice dell’esecuzione, su un presunto elemento di novità costituito dalla revoca della sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria in data 4 maggio 2004, irrevocabile in data 8 marzo 2007, nonché sulla fungibilità della custodia cautelare subìta per detta causa con la pena inflitta con la sentenza della Corte d’Assise di appello di Reggio Calabria in data 12 maggio 2004, irrevocabile in data 26 giugno 2004.
Prima di addentrarsi nella analisi delle due distinte questioni, è utile richiamare, per chiarire adeguatamente la questione della datazione della cessazione della permanenza, quanto si è reiteratamente affermato in questi anni proprio sulla questione posta da COGNOME.
3.1. Le prime pronunce del giudice dell’esecuzione sono di poco successive al passaggio in giudicato della sentenza della Corte d’Assise di appello di Reggio Calabria in data 12 maggio 2004.
La prima ordinanza in data 29 aprile 2005 ha respinto la richiesta di retrodatazione della condotta associativa (Sez. 1, n. 6944 del 8/02/2006 ha rigettato il ricorso).
La seconda ordinanza in data 18 maggio 2006 ha, anch’essa, respinto la richiesta, anche in riferimento al cumulo “parziale” (Sez. 1, n. 14639 del 22/03/2007 ha rigettato il ricorso).
3.2. In epoca più recente, la Corte di appello di Reggio Calabria, con ordinanza dell’8 maggio 2012, ha rigettato l’incidente di esecuzione proposto nell’interesse di COGNOME avverso il provvedimento di cumulo emesso dal Procuratore generale il 6 dicembre 2010.
Tale ordinanza era stata parzialmente annullata da questa Corte con la sentenza Sez. 1, n. 28472 del 23/4/2013; la Corte aveva ritenuto infondati i motivi di ricorso concernenti la detrazione della pena estinta per l’indulto, operata sul cumulo materiale delle pene (punto 1), il mancato computo del presofferto e della liberazione anticipata (punto 2) e l’erronea indicazione dell’aggravante di cui all’art. 7 legge 203 del 1991 per una delle sentenze comprese nel cumulo (punto 4); aveva, invece, annullato l’ordinanza impugnata sul punto del calcolo del presofferto subito dal ricorrente in relazione alla condanna per il delitto associativo indicato al numero 4 del cumulo (procedimento “RAGIONE_SOCIALE“: Corte d’appello di Reggio Calabria in data 4 maggio 2004, irrevocabile in data 8 marzo 2007), onerando il giudice del rinvio di verificare quale fosse il momento di cessazione della permanenza del delitto associativo individuato dal giudice della cognizione (punto 3).
3.3. Con la successiva ordinanza del 12 dicembre 2013, la Corte di appello di Reggio Calabria, quale giudice del rinvio, rigettava nuovamente l’incidente di esecuzione; dopo aver dato atto della irrevocabilità della precedente ordinanza quanto ai punti per i quali la Cassazione aveva ritenuto infondati i motivi di ricorso, la Corte territoriale ribadiva la correttezza dell’individuazione della data di cessazione della permanenza del reato associativo alla data della sentenza di condanna di primo grado, con conseguente applicazione del divieto posto dall’art. 657, comma 4, cod. proc. pen. nel calcolo del presofferto.
3.4. Avverso tale ordinanza, COGNOME NOME proponeva ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen., sostenendo che il giudice dell’esecuzione era venuto meno al dovere di mera esegesi delle sentenze di merito imposto dalla sentenza di annullamento.
Con sentenza Sez. 5, n. 34963 dell’8 luglio 2015, la Corte di cassazione rigettava il ricorso, ritenendo, la valutazione espressa nell’ordinanza, corretta e conforme al dettato della sentenza di rinvio.
La sentenza osservava, in particolare: «il ragionamento validabile del giudice dell’esecuzione risulta, dunque, essere stato completo in quanto si è limitato ad
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osservare che la piena partecipazione del ricorrente alla associazione oggetto del processo RAGIONE_SOCIALE era stata ritenuta tale anche a seguito della esecuzione dell’ordinanza cautelare e dell’inizio della custodia, per la ragione che le finalità accertate dell’associazione dimostravano che la stessa si era sicuramente protratta, nella persistenza del concorso necessario dei suoi affiliati, ben oltre l’emissione della sentenza di primo grado del processo medesimo e che, d’altro canto, l’adesione del singolo associato, per quanto ristretto temporaneamente in carcere, non risultasse, da alcun segnale, interrotta: e ciò in base alla costante giurisprudenza di legittimità che osserva come, nella specifica materia del reato di partecipazione ad associazione mafiosa, la continuità dell’appartenenza si presume in ragione della natura stessa del vincolo, come accertato delle plurime sentenze in materia e può ritenersi venuta meno soltanto in presenza di un segno positivo di volontario e dichiarato allontanamento».
È utile, infine, sottolineare, che 18/11/2016, con la sentenza Sez. 1, n. 41947/2017, la Corte dichiarava inammissibile il ricorso straordinario proposto ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. avverso la sentenza dell’8/7/2015.
3.5. È utile, infine, dare atto di quanto affermato da questa Corte di legittimità con la sentenza relativa al ricorso proposto da COGNOME NOME avverso l’ordinanza del 14 aprile 2016 della Corte d’appello di Reggio Calabria (Sez. 1, n. 56371 del 13/09/2017).
Con l’ordinanza in questione, la Corte di appello di Reggio Calabria ha (impropriamente) esamiNOME e rigettato l’opposizione proposta nell’interesse di COGNOME NOME avverso l’ordinanza pronunciata in data 12 dicembre 2013, già oggetto di ricorso per cassazione.
Le questioni introdotte con la (irrituale) opposizione di COGNOME erano quelle sopra descritte (non vi era stata protrazione della condotta associativa dopo il 1999; la custodia cautelare sofferta dal 18 marzo 2000 doveva essere dichiarata fungibile). La Corte di merito ha ribadito che il principio di diritt affermato nella sentenza di annullamento con rinvio era stato rispettato, poiché la prima ordinanza aveva tratto la data della cessazione della partecipazione esaminando in modo attento e critico le sentenze dì merito, senza sovrapporre la propria valutazione a quella del giudice della cognizione; ha confermato che l’operatività dell’associazione era cessata nel 2004 e che nessun segnale della rescissione del pactum sceleris da parte del partecipe, seppure detenuto, era
emerso, con conseguente necessità di applicazione del principio secondo il quale, in tema di partecipazione ad associazione mafiosa, la continuità dell’appartenenza si presume in ragione della natura stessa del vincolo e può ritenersi venuta meno soltanto in presenza di un segno positivo di volontario e dichiarato allontanamento; la circostanza che le prove della partecipazione di COGNOME al sodalizio, costituite dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, si riferissero all’anno 1998 non equivaleva alla attribuzione di una condotta puntiforme o comunque limitata nel tempo, ma erano soltanto l’indice di una affectio societatis.
La Corte di cassazione ha annullato senza rinvio l’ordinanza del giudice dell’esecuzione, precisando che: «… risulta evidente che l’opposizione era inammissibile: in effetti, l’incidente di esecuzione non aveva ad oggetto l’applicazione dell’indulto ai sensi dell’art. 672 cod. proc. pen., ma il computo dello stesso nell’ambito del provvedimento di cumulo emesso dal Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Reggio Calabria. Comunque, tale questione era stata definitivamente decisa con la sentenza di questa Corte del 23/4/2013, come si è già ricordato, tanto che l’annullamento con rinvio aveva ad oggetto esclusivamente il diverso tema del computo del presofferto per il reato associativo e del termine di cessazione della permanenza di detto reato. In definitiva, poiché il procedimento in sede di rinvio aveva ad oggetto solo quest’ultimo tema, era doverosa l’adozione del procedimento in camera di consiglio e non era ammessa opposizione».
Ciò premesso, deve ribadirsi l’inammissibilità dell’incidente di esecuzione che riproponga la medesima questione già esaminata, per l’esistenza di una preclusione processuale (Sez. 1, n. 36005 del 14/6/2011, COGNOME, Rv. 250785; Sez. 1, n. 29983 del 31/5/2013, PG in proced. Bellin, Rv. 256406); la causa di inammissibilità originaria deve essere rilevata d’ufficio da questa Corte (Sez. U, n. 40151 del 19/04/2018, Avignone, Rv. 273650).
4.1. Nel procedimento di esecuzione opera il principio della preclusione processuale derivante dal divieto del bis in idem, nel quale, secondo la giurisprudenza di legittimità, s’inquadra la regola dettata dal comma 2 dell’art. 666 cod. proc. pen., che impone al giudice dell’esecuzione di dichiarare inammissibile la richiesta che sia mera riproposizione, in quanto basata sui
«medesimi elementi», di altra già rigettata (ex multis Sez. 1, n. 3736 del 15/1/2009, Anello, Rv. 242533).
Con tale limite si è inteso creare, per arginare richieste meramente dilatorie, un filtro processuale, ritenuto dal legislatore delegato necessario in un’ottica di economia e di efficienza processuale.
In questa prospettiva emerge la nozione di «giudicato esecutivo», impiegata in senso a-tecnico, per rappresentare l’effetto «auto conservativo» di un accertamento rebus sic stantibus: più correttamente la stabilizzazione giuridica di siffatto accertamento deve essere designata con il termine «preclusione», proprio al fine di rimarcarne le differenze con il concetto tradizionale di giudicato.
Appare, quindi, un dato acquisito, nella giurisprudenza di legittimità, quello secondo il quale è ammissibile la proposizione di un nuovo incidente di esecuzione che si fondi su nuovi elementi, allorquando la precedente richiesta sia stata respinta.
4.2. In relazione agli elementi nuovi che giustificano la proposizione di un nuovo incidente di esecuzione, vanno rammentate alcune decisioni di questa Corte di legittimità che ammettono la modificabilità in ogni tempo delle ordinanze assunte in sede di incidente di esecuzione (Sez. 3, n. 50005 del 01/07/2014, COGNOME, Rv. 261394; Sez. 3, n. 5195 del 05/12/2003 – dep. 2004, COGNOME, Rv. 227329; Sez. 3, n. 44415 del 30/09/2004, COGNOME, Rv. 230943).
Le decisioni sopra richiamate concernono però situazioni particolari: la prima concerne una nuova istanza di sospensione dell’ordine di demolizione, presentata da soggetti diversi dal destinatario della precedente decisione di rigetto e sulla base di elementi già esaminati dal primo giudice; la seconda concerne la deduzione dell’impossibilità tecnica o, comunque, l’estrema difficoltà, attestata dalla perizia giurata prodotta, di procedere alla rimozione delle opere illegittime senza il pericolo di compromettere, fra l’altro, il mantenimento in sicurezza e la stabilità di quelle da conservare; la terza concerne lavori urgenti di impermeabilizzazione.
D’altra parte, è esclusa in sede esecutiva la rilevanza del mutamento di giurisprudenza (ex multis, Sez. 7, n. 10458 del 25/01/2019, Petullà, Rv. 276294), ad eccezione di quello assunto dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 18288 del 21/01/2010, P.G. in proc. Beschi, Rv. 246651, mutamento di giurisprudenza
delle SU in materia di indulto; Sez. 1, n. 30569 del 07/03/2019, COGNOME, Rv. 276604, a seguito del mutamento di giurisprudenza delle SU in materia di rimedio ex art. 35 -ter legge 26 luglio 1975, n. 354; Sez. 1, n. 12955 del 12/02/2016, COGNOME, Rv. 267287, a seguito del mutamento di giurisprudenza delle SU in materia di rimodulazione della pena per le droghe leggere; Sez. 5, n. 4679 del 02/10/2017 – dep. 2018, COGNOME, Rv. 272436, a seguito del mutamento di giurisprudenza delle SU in materia di revoca della sospensione condizionale).
Si tratta, dunque, di provvedimenti assunti sotto la clausola rebus sic sta ntibus.
Ciò premesso, è necessario chiarire il punto decisivo: se, quello assunto dal giudice dell’esecuzione nel caso oggetto del giudizio, sia un provvedimento adottato rebus sic stantibus.
5.1. Si è da tempo chiarito, infatti, che «allorché il provvedimento del giudice, emesso in forma di ordinanza, non decide su questioni contingenti o temporanee, sia di rito, sia di merito, ma statuisce su determinate situazioni giuridiche con carattere di definitività ed è soggetto a impugnazione, il provvedimento stesso deve ritenersi, al pari delle sentenze, irrevocabile, con la conseguenza che, essendosi esaurita con la sua emanazione la potestà decisoria, è sottratta, immediatamente o successivamente, all’organo della giurisdizione la possibilità di tornare sulla decisione assunta, salva la possibilità che la questione venga riproposta sulla base di elementi nuovi» (Sez. 1, n. 5099 del 22/09/1999, Papurelo, Rv. 214695).
Recentemente, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito il principio, affermando che «il provvedimento, emesso in forma di ordinanza, che decide su situazioni giuridiche con carattere di definitività e che è soggetto a impugnazione è suscettibile di divenire irrevocabile, al pari delle sentenze, sicché non può essere revocato o modificato dallo stesso giudice che lo ha emesso, salva l’emersione di elementi di novità» (Sez. 1, n. 425 del 23/11/2023 – dep. 2024, Pm COGNOME NOME, Rv. 285554, fattispecie relativa a un provvedimento, emesso in sede di esecuzione, con cui era stata revocata la precedente ordinanza di riconoscimento della continuazione tra diverse sentenze).
La possibilità di “tornare sulla decisione assunta”, infatti, riguarda unicamente l’eventualità che la questione sia “riproposta” dalla stessa parte processuale che deduca elementi nuovi, non certo dalla parte che intenda sindacare la decisione che ritiene errata.
5.2. Non si tratta, in effetti, di un provvedimento assunto sotto la clausola rebus sic stantibus poiché esso è destiNOME, nel caso dell’accoglimento, a modificare la configurazione dei reati e delle pene, ovvero, nel caso di rigetto, a costituire una preclusione processuale alla riproposizione della medesima istanza.
È, quindi, necessario verificare se, come ritiene il giudice dell’esecuzione, l’istanza del condanNOME introduceva elementi nuovi: unico elemento idoneo a vincere la preclusione processuale che si era determinata a seguito dei provvedimenti sullo stesso tema assunti dai precedenti giudici dell’esecuzione.
6.1. L’istanza in data 17 maggio 2023, vergata a mano dal condanNOME, si limitava a denunciare, in relazione al provvedimento di cumulo del 12 maggio 2023, «la rettifica in peius vi è un errore in mio danno, per questo motivo allego il cumulo emesso in precedenza per un raffronto e dirimere l’errore».
È evidente che, alla luce dell’istanza, non era ravvisabile alcun elemento di novità in merito alla questione della retrodatazione, poiché il condanNOME denunciava un presunto errore nella determinazione della pena da espiare rispetto al precedente provvedimento di cumulo in data 20 settembre 2017; l’istanza, del resto, tace che il provvedimento di cumulo in data 14 settembre 2017 riportava, invece, una pena determinata tenendo conto della circostanza, già ampiamente esaminata dai giudici dell’esecuzione, che la condanna inflitta con la sentenza della Corte d’Assise di appello di Reggio Calabria in data 12 maggio 2004, irrevocabile in data 26 giugno 2004, era relativa a fatti commessi fino al 22 aprile 2002, cioè durante l’espiazione della pena decorrente dal 22 aprile 1999 e, perciò, sottoposta a cumulo “parziale”.
6.2. Nel corso del procedimento di esecuzione, invece, la difesa depositava una memoria con la quale deduceva le questioni della retrodatazione e della fungibilità, sostenendo che la istanza traeva fondamento dall’ordinanza pronunciata dalla Corte d’appello di Reggio Calabria in data 1° giugno 2017 con la quale era stata disposta la revoca ex art. 669 cod. proc. pen. della sentenza
della Corte d’appello di Reggio Calabria in data 4 maggio 2004, irrevocabile in data 8 marzo 2007 (procedimento cd. RAGIONE_SOCIALE), chiedendo al giudice dell’esecuzione di accertare la data di cessazione della permanenza del reato giudicato con la sentenza della Corte d’Assise di appello dì Reggio Calabria in data 12 maggio 2004.
6.3. Il giudice dell’esecuzione, acquisiti i provvedimenti giudiziari di cognizione, anticipava a prima della data dell’arresto (22 aprile 1999) la condotta di partecipazione; l’ordinanza si discosta espressamente, dichiarando di non condividerle, le precedenti valutazioni dei giudici dell’esecuzione che hanno esamiNOME la medesima questione.
Orbene, va messa in disparte la questione della fungibilità perché manifestamente infondata ed erronea: il periodo di custodia cautelare (dal 16 marzo 2000 al 3 maggio 2001) subìto per la condanna poi revocata non rileva sulla pena da espiare, non tanto perché sofferto prima della commissione del reato associativo giudicato con la sentenza della Corte d’Assise di appello di Reggio Calabria in data 12 maggio 2004, ma perché, nel medesimo frangente, il condanNOME si trovava in custodia cautelare per la sentenza indicata al n. 1 del provvedimento di cumulo (sentenza Corte d’appello di Reggio Calabria in data 19 luglio 2000, relativa all’arresto del 22 aprile 1999 per reati di armi).
La custodia cautelare subìta per l’ultimo titolo citato, che comprende quella oggetto della domanda di fungibílità, è stata integralmente computata sulla pena complessiva da espiare per detta sentenza, sicché non poteva essere conteggiata due volte in relazione a qualsivoglia altro titolo detentivo.
È soltanto il caso di notare che il giudice dell’esecuzione si è affidato alle asserzioni difensive, senza esaminare la posizione giuridica, contenuta nel provvedimento di cumulo impugNOME, dalla quale risulta documentalmente quanto sopra riportato.
Venendo alla questione della datazione del reato associativo, il giudice dell’esecuzione non spiega quale modifica alla situazione di fatto, già esaminata da molti giudici dell’esecuzione che hanno puntualmente analizzato i fatti giudicati dalla sentenza della Corte d’Assise di appello di Reggio Calabria in data
12 maggio 2004, sia ravvisabile a causa della intervenuta revoca della sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria in data 4 maggio 2004.
La motivazione è, in effetti, apodittica e, comunque, improntata a una diversa valutazione di elementi già analizzati e giudicati in diverse occasioni, anche con il vaglio di questa Corte di legittimità.
Tale modo di procedere non è consentito al giudice dell’esecuzione.
8.1. L’apoditticità della decisione si coglie appieno (pag. 6) allorquando il giudice dell’esecuzione afferma candidamente che «non possano condividersi le valutazioni (non preclusive) precedentemente espresse».
Nel fare ciò, il giudice dell’esecuzione ha erroneamente affermato che le precedenti valutazioni non sono preclusive di una diversa valutazione, così discostandosi dai richiamati principi di diritto.
8.2. Inoltre, il giudice dell’esecuzione si è limitato a sciorinare una inammissibile critica delle precedenti ordinanze, così addivenendo a una integrale rivisitazione delle precedenti decisioni sulla base della sola non condivisione dei precedenti approdi.
Si noti, del resto, che le critiche fatte proprie dal giudice dell’esecuzione erano proprie quelle che la difesa, nei precedenti incidenti di esecuzione, aveva sottoposto, di volta in volta, ai giudici, anche di legittimità, che le avevano giudicate infondate.
8.3. Quanto alla presunta esistenza di un elemento di novità derivante dalla revoca della sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria in data 4 maggio 2004, il provvedimento impugNOME è meramente assertivo e manifestamente erroneo là dove afferma che «la Corte d’Assise d’appello ha riconosciuto il bis in idem fra le condanne subite da COGNOME nei processi “faida di COGNOME” e RAGIONE_SOCIALE“, specificando che lo COGNOME non risulta avere preso parte al sodalizio la cui sussistenza è stata espressamente presa in considerazione nel processo “RAGIONE_SOCIALE“».
La palese erroneità dell’affermazione secondo la quale COGNOME non avrebbe preso parte all’associazione – argomentazione che neppure la difesa propugna in quanto del tutto estranea dal dictum della citata decisione – balza agli occhi con tutta evidenza perché se, effettivamente, COGNOME non avesse “preso parte” al sodalizio giudicato nel processo “RAGIONE_SOCIALE“, più che alla revoca
ex art. 669 cod. proc. pen. per bis in idem, si sarebbe dovuto fare ricorso alla revisione ex art. 630 cod. proc. pen.
Invece, la pronuncia ex art. 669 cod. proc. pen. si fonda proprio sulla partecipazione all’associazione mafiosa con una condotta che, secondo i giudici dell’esecuzione che in varie occasioni si sono occupati di analizzare le sentenze di primo e secondo grado pronunciate sulla “faida di COGNOME“, si è protratta ben oltre l’arresto di COGNOME del 1999 e ha mantenuto e rafforzato il vincolo associativo, agevolando la latitanza del capo clan COGNOME.
La palese mancanza di elementi di novità nell’istanza del condanNOME, che si limitava a denunciare un errore di computo nel provvedimento di esecuzione, irritualmente arricchita dalla memoria difensiva che ha reiterato le diverse questioni della cessazione della permanenza del reato associativo e del presofferto cautelare senza dedurre alcun concreto elemento di novità, unitamente alla manifesta infondatezza delle dette questioni, impone l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugNOME che, superando la preclusione processuale, ha nuovamente (e diversamente) valutato gli stessi fatti già oggetto di numerosi precedenti provvedimenti del giudice dell’esecuzione, confermati in sede di legittimità.
La causa di inammissibilità originaria del provvedimento impugNOME determina l’annullamento senza rinvio.
9.1. Così rimossa l’ordinanza impugnata, il pubblico ministero, informato dal Procuratore generale in sede, dovrà procedere agli atti d’esecuzione necessari a ripristinare la legalità dell’esecuzione della pena nei confronti di NOME COGNOME COGNOME .
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.
Manda alla cancelleria per l’immediata comunicazione al Procuratore generale in sede per quanto di competenza ai sensi dell’art. 626 cod. proc. pen.
Così deciso il 15 dicembre 2023.