Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 45800 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 45800 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOMECOGNOME nato a Termini Imerese il 28/02/1940 avverso la sentenza del 05/10/2023 della Corte di appello di Palermo visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso udito il difensore avvocato COGNOME Enrico Luigi del foro di Sciacca che chiede l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. E’ impugnata la sentenza emessa il 5 ottobre 2023 dalla Corte di appello di Palermo che ha parzialmente riformato, solo in punto di riqualificazione dell’originaria imputazione di cui all’art. 176 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, nel delitto di cui all’art. 518-bis cod. pen, la sentenza pronunciata il 7 dicembre 2021 dal Tribunale di Sciacca nei confronti di NOME COGNOME ritenuto responsabile del reato, continuato, di impossessamento e detenzione presso la propria abitazione di beni culturali di valore archeologico, quali anfore, sculture ed altro confermandone la condanna alla pena di mesi sei di reclusione ed euro 200 di multa, oltre spese processuali, con concessione della sospensione condizionale della pena, dissequestro e restituzione dei beni allo Stato mediante consegna alla Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Agrigento.
Avverso l’indicata sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, articolando cinque motivi.
2.1 Con il primo motivo, lamenta vizio di violazione di legge ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione all’art. 2, comma quarto, cod. pen. Si contesta che la Corte di appello abbia ritenuto la continuità normativa tra il delitto di cui all’art. 176 d.lgs. n. 42 del 2004, abrogato dall’art. 5, comma lett. b), legge 9 marzo 2022, n. 22, e l’art. 518-bis cod. pen., contestualmente inserito dall’art. 1, lett. b), della citata legge n. 22 del 2022, con una valutazio effettuata in astratto e non in concreto. Si afferma che l’abrogazione dell’art. 176 d.lgs. n. 42 del 2004 non può consentire automaticamente, ed in corso di giudizio, una modifica di fatto del capo di imputazione, tenuto conto della evidente maggiore ampiezza della condotta, estesa a tutti i beni “culturali” e della maggiore gravità sanzionatoria prevista dalla nuova disciplina introdotta nel 2022, anche in punto di estensione a tali nuovi delitti della confisca, diretta e per equivalente della confisca allargata e della responsabilità della persona giuridica per i reati commessi nel suo interesse. Si contesta quindi che la Corte di appello possa aver ritenuto più contenuta e favorevole la fattispecie di reato prevista dall’art. 518-bis cod. pen.
2.2 Con il secondo motivo, deduce violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., in relazione all’art. 429 cod. proc. pen. Si premette che all’udienza del 22 febbraio 2019 svoltasi innanzi al Tribunale in composizione monocratica veniva rigettata, con motivazione succinta che rinviava al sequestro e che, senza alcuna spiegazione o logica deduzione, veniva fatta propria anche dalla Corte di appello, l’eccezione di genericità del capo di imputazione per non essere state specificate né con quali modalità fosse stata effettuata la catalogazione dei beni di cui all’imputazione, detenuti presso l’abitazione dell’imputato come arredi, né quale fosse il numero dei reperti trovati né il luogo del loro ritrovamento. Si ripotano pronunce di questa Corte che ritengono nulla la contestazione formulata con il mero richiamo ad atti processuali e si evidenzia che, nel caso di specie, il verbale di sequestro rinvia a sua volta agli accertamenti, a farsi, sulla provenienza e sulle caratteristiche dei beni, verifica che non è stata effettuata, stante la mancanza di una consulenza in corso di indagini. Dunque, in nessun modo il verbale di sequestro sarebbe stato idoneo ad integrare il capo di imputazione e comunque l’indicazione, contenuta nella imputazione, alla catalogazione appare riferita all’attività di selezione, analisi e successiva custodia effettuata dalla polizia giudiziaria e non al modo in cui l’imputato detenesse i beni.
2.3 Con il terzo motivo, lamenta vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., in relazione all’art. 507 cod. proc. pen., non avendo il giudice di primo grado chiarito l’assoluta necessità di procedere
all’escussione del consulente del pubblico ministero, dottoressa COGNOME così come richiesto dal pubblico ministero, nonostante l’opposizione ferma della difesa, posto che non risultava da alcun atto di indagine l’intervento sui reperti da parte della stessa, né avendo poi accolto la richiesta di revoca della escussione del teste, che si è dimostrato trattarsi della prova unica e principale della pubblica accusa. Anche la Corte di appello, senza colmare la lacuna sul punto del giudice di prime cure, è incorsa in violazione di legge, affermando che la teste sarebbe stata sentita in qualità di ausiliario di polizia giudiziaria e non di consulente. Si contesta inoltre circostanza che la teste avesse visionato, nel corso del suo esame, atti a sua firma, definiti “consulenza” dalla stessa redatta, non presenti nel fascicolo del pubblico ministero e non acquisiti dal Tribunale, nonostante la richiesta del pubblico ministero, in evidente contraddizione con l’ordinanza di ammissione ex art. 507 cod. proc. pen. In conclusione, il Tribunale ha esaminato un teste, ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen., sulla base di una consulenza non conosciuta dalle parti e non presente nel fascicolo del pubblico ministero e dunque non utilizzabile, con lesione del diritto di difesa e dei principi ispiratori dell’art. 507 cod. proc. pen.
2.4 Con il quarto motivo si lamenta vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 518-bis cod. pen. e 176 d.lgs. n. 42 del 2004, Si afferma che nessun elemento tra quelli acquisiti consente di catalogare e geolocalizzare i reperti, tenuto conto che nessun accertamento è stato effettuato, e si afferma, pertanto, che non risulta provata la “culturalità” dei beni. Né può darsi rilievo a quanto dichiarato dalla moglie dell’imputato che ha affermato che il COGNOME fosse un collezionista di anfore, come soprammobili, posto che collezionare non indica necessariamente l’illiceità della condotta e dunque la “culturalità” del bene. Né la “culturalità” del bene può essere desunta dal fatto che l’imputato sia stato visto disfarsi di un fossile nella spazzatura, in quanto nessun accertamento è stato compiuto sull’oggetto. In ogni caso, anche alla luce delle modalità di custodia (rinvenuti all’interno di sacchetti della spesa) è da escludere la consapevolezza e l’elemento oggettivo della condotta, provenendo i beni dalla successione ereditaria della moglie. Infine, nessun rilievo è stato dato alla consulenza del tecnico della difesa, dottoressa COGNOME che ha escluso il requisito della “culturalità”.
2.5 Con il quinto motivo si deduce vizio di carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. Si afferma che l’impugnata sentenza non fornisce alcuna critica ed autonoma valutazione sulle risultanze probatorie e sulle relative deduzioni, aderendo alle conclusioni del primo giudice sia per quanto concerne la genericità della imputazione, che per riguarda l’audizione ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen. della dottoressa COGNOME laddove si è affermato che la difesa avrebbe potuto
/
contro
esaminare la teste, nonostante mancasse, agli atti del fascicolo del pubblico ministero, un testo da poter esaminare e su cui effettuare un controesame.
Il pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, ha chiesto il rigetto del ricorso.
4 n difensore del ricorrente, avvocato COGNOME COGNOME COGNOME ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOME è inammissibile per le ragioni di seguito esplicitate.
1.1. Con il primo motivo, la parte lamenta vizio di violazione di legge in relazione all’art. 2, comma quarto, cod. pen. per aver la Corte di appello ritenuto la continuità normativa tra il delitto di cui all’art. 176 d.lgs. n. 42 del 200 l’attuale art. 518-bis cod. pen., con una valutazione operata in astratto e non in concreto.
1.2 La censura è manifestamente infondata. La Corte territoriale, a seguito dell’abrogazione, con l’art. 5, comma 2, lett. b), legge 9 marzo 2022, n. 22, del delitto di cui all’art. 176 d.lgs. n. 42 del 2004, per il quale era intervenu condanna pronunciata dal Tribunale di Sciacca, ha in via preliminare analizzato la questione relativa alla continuità normativa, o no, della disposizione con il nuovo art. 518-bis cod. pen., contestualmente inserito dall’art. 1, lett. b), della cita legge n. 22 del 2022 ed ha quindi valutato se la nuova fattispecie si ponga o no in rapporto di successione di legge con la precedente, contestualmente abrogata.
Con una valutazione corretta ed immune da censure la Corte territoriale ha ritenuto che per l’identità dell’atto normativo (la legge n. 22 del 2022) che ha introdotto il nuovo delitto, abrogando contestualmente il precedente, e per l’assoluta omogeneità del fatto tipizzato, l’incriminazione per la quale era intervenuta condanna fosse confluita nella disposizione di cui all’art. 518-bis cod. pen. e che la continuità normativa tra le due disposizioni imponesse di far riferimento all’art. 2, comma quarto, cod. pen. e dunque alla norma di diritto sostanziale in concreto applicabile all’imputato, che, nella fattispecie in esame, è stata correttamente ritenuta essere quella antecedente alla riserva di codice, in quanto sanzionata in termini meno gravosi.
1.3 Non si è dunque proceduto ad alcuna modifica di fatto del capo di imputazione, come sostenuto dalla difesa, ma si è opportunamente valutato se la condotta fosse ancora sanzionata, e, una volta ritenuta la continuità normativa e sussistente una ipotesi di successione di leggi nel tempo, disciplinata dall’art. 2, comma quarto, cod. pen., il fatto è stato riqualificato nella nuova fattispecie, così
applicando, in concreto ed in base al principio del favor rei, la normativa antecedente, il cui trattamento sanzionatorio è più favorevole.
Con il secondo motivo di doglianza, il ricorrente si lamenta della reiezione, da parte del Tribunale, prima, e della Corte di appello, poi, della eccezione di genericità del capo di imputazione, per non essere state specificate né con quali modalità fosse stata effettuata la catalogazione dei beni di cui all’imputazione, detenuti presso l’abitazione dell’imputato come arredi, né quale fosse il numero dei reperti trovati, né il luogo del loro ritrovamento.
2.1. Ritiene questa Corte che la doglianza sia inammissibile in quanto fondata su un motivo che si risolve nella pedissequa reiterazione di quello già dedotto in appello e puntualmente disatteso dalla Corte di merito, e deve quindi considerarsi aspecifico e meramente apparente, in quanto omette di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, COGNOME, Rv. 277710; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, COGNOME e altri, Rv. 260608; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, COGNOME e altri, Rv. 243838).
Il ricorrente reitera la doglianza sulla genericità dell’imputazione, in considerazione del fatto che essa non può essere integrata da un atto, il verbale di sequestro, che a sua volta non catalogava i reperti ma rinviava a futuri accertamenti a farsi, omettendo, tuttavia, di confrontarsi con le puntuali e logiche argomentazioni del giudice di appello, che ha fatto corretta applicazione del principio, assolutamente pacifico, secondo cui non vi è incertezza sui fatti descritti nella imputazione quando questa contenga, con adeguata specificità, i tratti essenziali del fatto di reato contestato, in modo da consentire all’imputato di difendersi (Sez. 5, n. 16993 del 02/03/2020, COGNOME, Rv. 279090-01; in termini conformi anche Sez. 3, n. 5469 del 05/12/2013, dep. 2014, Russo, Rv. 25892001; Sez. 5, n. 6335 del 18/10/2013, dep. 2014, COGNOME, Ikv. 258948-01; Sez. 2, n. 16817 del 27/03/2008, Muro, Rv. 239758-01).
2.2 Nel caso di specie l’imputazione contiene indicazioni precise e dettagliate sulla tipologia dei beni (“anfore, sculture ed altro”), sulla loro natura (“reperti valore archeologico”), sulle modalità di detenzione (“all’interno della propria abitazione”) e ciò consentiva all’imputato di comprendere appieno il contenuto dell’accusa mossagli e di articolare un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa, tenuto anche conto che l’imputato viene a conoscenza della contestazione non solo con l’imputazione ma anche attraverso gli atti che fanno parte del fascicolo processuale, come già in precedenza affermato condivisibilmente da questa Corte, Sez. 3, n. 9314 del 16/11/2023, dep. 2024, Rv. 286023-01, che ha espresso il principio così massimato: « In tema di citazione a giudizio, il fatto deve ritenersi enunciato in forma chiara e precisa quando i suoi
elementi strutturali e sostanziali sono descritti in modo tale da consentire un completo contraddittorio e il pieno esercizio del diritto di difesa da parte dell’imputato, che viene a conoscenza della contestazione non solo per il tramite del capo d’imputazione, ma anche attraverso gli atti che fanno parte del fascicolo processuale».
Inammissibile è il terzo motivo per più ragioni che riguardano sia il potere di integrazione probatoria previsto dall’art. 507 cod. proc. pen., sia il rilievo che parte può dedurre in sede di legittimità.
3.1 Nessuna censura può essere mossa al giudice di merito che – come più volte affermato da questa Corte, con orientamento costante – ha il dovere di ricorrere al proprio potere di disporre l’acquisizione, anche d’ufficio, di nuovi mezzi di prova qualora ciò sia indispensabile per la decisione, incombendo su di lui l’obbligo di motivare in ordine al mancato esercizio di tale potere-dovere (in questo senso, tra le tante, Sez. 6, n. 25157 del 11/06/2010, COGNOME, Rv. 24778501) ed ha il dovere di ricorrere a tale potere anche nell’ipotesi in cui vi sia assoluta mancanza di mezzi probatori di parte (in questo senso, Sez. 1, n. 29490 del 27/06/2013, Liu, Rv. 256116-01).
Il giudice di primo grado ha dunque correttamente esercitato il proprio potere discrezionale di integrazione probatoria procedendo all’escussione della dott.ssa COGNOME e la circostanza che la teste abbia consultato atti a sua firma – comunque essi siano definiti, se appunti o consulenza, come affermato nel ricorso – non iRficia il mezzo di prova esperito, rendendolo inutilizzabile, essendo consentito a chè le parti, previa autorizzazione del giudice, leggano atti a propria firma, in aiuto all memoria (e, anche nel caso in cui la consultazione di documenti in aiuto alla memoria fosse avvenuta in assenza dell’autorizzazione del giudice, ciò – come affermato da Sez. 3, n. 5234 del 03/03/2022, dep. 2023, S, Rv. 28427702 – non dà luogo né ad inutilizzabilità della prova, in quanto essa risulta assunta non in violazione di divieti di legge, ma con modalità diverse da quelle prescritte, né a nullità, vigendo in materia il principio di tassatività e non essendo riconducibile ad alcuna delle previsioni di cui all’art. 178 cod. proc. pen. l’inosservanza delle norme che disciplinano l’esame testimoniale).
3.3 Né il mezzo di prova è inutilizzabile in ragione di quanto affermato nel ricorso, laddove si sottolinea che la dottoressa COGNOME era l’unico mezzo di prova dell’accusa; che fosse il consulente del pubblico ministero e che gli atti da lei consultati erano proprio la consulenza dalla stessa redatta, inutilizzabile in quanto di essa non era stato dato avviso e non era comunque contenuta nel fascicolo del pubblico ministero e dunque non era stata visionata dalla parte prima dell’escussione della teste.
Anche sotto questo profilo il motivo di doglianza è, da un lato, inammissibile per genericità, in quanto la teste, come chiarito dai giudici di merito, è stata sentita, non come consulente, ma in qualità di ausiliaria di polizia giudiziaria e l’integrazione probatoria ex art. 507 cod. proc. pen. si è risolta esclusivamente nella prova dichiarativa resa dalla dott.ssa COGNOME posto che gli atti visionati dal teste – che la parte indica come la relazione di consulenza – non sono stati acquisiti dal giudice e non sono quindi transitati nel fascicolo del dibattimento; da un altro, è in ogni caso inammissibile perché, pur predicando l’inutilizzabilità di un dato probatorio, non opina circa la decisività di esso, non indicando le ragioni per cui il materiale residuo all’esito della ideale eliminazione del dato inutilizzabile non superi la cosiddetta “prova di resistenza” (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, COGNOME, Rv. 243416; Sez. 6, n. 1219 del 12/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278123; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, COGNOME e altro, Rv. 269218; Sez. 3, n. 3207 del 02/10/2014, dep. 2015, Calabrese, Rv. 262011).
Inammissibile è il quarto motivo di censura. A parte il rilievo che la “culturalità” di anfore, sculture e reperti archeologici – quali quelli trovati com arredi nell’abitazione del ricorrente, sequestrati dalla polizia giudiziaria, e per i quali è stato tratto a giudizio – è intrinseca, la doglianza si risolve nel chiedere al Corte di rivalutare il fatto e gli elementi di prova, sindacato, questo, non consentito nel giudizio di legittimità, non essendo possibile in questa sede invocare una valutazione o rivalutazione degli elementi probatori al fine di trarne proprie conclusioni in contrasto con quelle del giudice del merito, chiedendo alla Corte di legittimità un giudizio di fatto che non le compete. Esula, infatti, dai poteri dell Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, COGNOME, Rv. 249651, in motivazione; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, COGNOME, Rv. 216260, e più di recente, Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020 Ud., dep. 2021, F.; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482; pronunzie che trovano precedenti conformi in Sez. 5, n. 12634 del 22/03/2006, COGNOME, Rv. 233780; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, COGNOME, Rv. 235507).
L’ultima doglianza, con la quale si deduce vizio di carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1, lett. e), cod. proc. pen. riprende e si risolve nei precedenti quattro motivo di ricorso, con i quali si censura la violazione di legge, e che sono stati già tutti dichiarati inammissibili.
p
6. In conclusione tutti i motivi di censura sono inammissibili e alla declaratoria di inammissibilità consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere per il ricorrente del pagamento delle spese del procedimento nonché, tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
Il collegio intende in tal modo esercitare la facoltà, introdotta dall’art. comma 64, I. n. 103 del 2017, di aumentare, oltre il massimo edittale, la sanzione prevista all’art. 616 cod. proc. pen. in caso di inammissibilità del ricorso, considerate le ragioni della inammissibilità stessa come sopraindicate.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 11/09/2024.