Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 22247 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 22247 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 17/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a REGGIO CALABRIA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 03/10/2023 del TRIB. SORVEGLIANZA di L’AQUILA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto l’annullamento con rinvio;
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 3 ottobre 2023 il Tribunale di sorveglianza di L’Aquila ha rigettato il reclamo proposto avverso il decreto del 1° giugno 2023 del Magistrato di sorveglianza della stessa città con il quale era stata respinta l’istanza avanzata da NOME COGNOME, detenuto presso la Casa circondariale di Sulmona, avente ad oggetto la concessione di un permesso premio.
Il Tribunale ha dato atto della circostanza che il detenuto è in espiazione della pena dell’ergastolo ed ha riportato condanna per i delitti di associazione mafiosa, omicidi commessi in contesto mafioso, ricettazione e furto.
Tali reati sono stati commessi tra il 1982 e il 1983.
Dato atto del parere negativo della RAGIONE_SOCIALE e dell’aggiornamento al 2023 della relazione di sintesi, passando ad esaminare i motivi di impugnazione, il Tribunale ha, in primo luogo, affermato l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 4bis ord. pen. anche ai reati commessi prima dell’entrata in vigore dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991.
A tale proposito ha richiamato quanto deciso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 2020 precisando l’applicabilità del principio di irretroattivit della norma penale sfavorevole al solo caso di disposizioni che disciplinano l’accesso alle misure alternative o determinano la conclusione anticipata della pena.
Non incidendo il permesso premio sulla quantità e qualità della pena, ma solo sui contenuti del trattamento, deve escludersi l’operatività del predetto divieto.
Ha ritenuto fondati i rilievi della DNA circa la mancata dimostrazione dell’adempimento, o dell’assoluta impossibilità di adempimento, delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria richiesti dall’art. 4bis, comma lbis, ord. pen. secondo la formulazione applicabile alla fattispecie in esame.
Tale profilo è stato ritenuto sufficiente ai fini del rigetto del reclamo.
In secondo luogo, ha evidenziato, sulla scorta di quanto deciso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 253 del 2019 e dal legislatore in sede di riforma dell’art. 4bis ord. pen., l’inapplicabilità dello standard probatorio del superamento della soglia del ragionevole dubbio in punto di rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata essendo onere del detenuto, in virtù della presunzione relativa operante in materia, dimostrare, mediante specifiche allegazioni, che i collegamenti con la criminalità organizzata non sono più attuali.
Con riferimento alla relazione di sintesi aggiornata (acquisita su richiesta
della difesa), è stata evidenziata la mancanza di progressi in punto di revisione critica e la carenza di elementi informativi certi a disposizione dell’esperto psicologo.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME, per mezzo del proprio difensore AVV_NOTAIO, articolando due motivi.
2.1. Con il primo ha eccepito violazione di legge con riferimento all’art. 30 ter ord. pen. in relazione agli artt. 27, comma terzo, 25, comma secondo e 117 Cost., nonché con riguardo all’art. 7 CEDU in riferimento alla violazione del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole.
Alla fattispecie, relativa a detenzione per reati commessi prima dell’introduzione delle disposizioni ostative di cui all’art. 4bis ord. pen., non sarebbe applicabile la normativa citata.
A tale proposito, ha segnalato quanto deciso dalla giurisprudenza sovranazionale e dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2020 pure richiamata nel provvedimento impugnato, oltre a riportare alcuni passaggi di altre sentenze della Corte costituzionale (nn. 349 del 1993, 137 del 1999, 445 del 1997 e 257 del 2006).
2.2. Con il secondo motivo ha eccepito i vizi di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Il Tribunale ha valorizzato la mancata assunzione di responsabilità da parte del detenuto senza confrontarsi con le deduzioni e le allegazioni difensive.
In particolare, si fa riferimento alla rescissione del legame associativo accertata prima della sentenza di primo grado; peraltro, la contestazione della partecipazione al sodalizio mafioso si ferma al 1988, né risultano coinvolgimenti in epoca successiva.
Il permesso richiesto, peraltro, riguardava un breve periodo da trascorrere a Sulmona, ossia a distanza notevole dai luoghi di operatività della cosca alla quale COGNOME ha parecipato.
Inoltre, non sarebbe stato considerato il positivo percorso intramurario del ricorrente.
Il Procuratore generale ha chiesto l’accoglimento del ricorso e l’annullamento del provvedimento impugnato con rinvio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
2. E’ infondato il primo motivo con il quale il ricorrente ha sostanzialmente invocato il principio di irretroattività della norma penale alla disciplina in materi di permessi per i reati di cui all’art. 4bis ord. pen., nel caso in cui l’esecuzione riguardi reati che siano stati commessi prima dell’entrata in vigore della disciplina, più rigorosa, in materia di ordinamento penitenziario di cui alla norma citata che ha individuato una serie di delitti per i quali la disciplina della fruizi dei benefici penitenziari è maggiormente gravosa che per gli altri.
L’assunto è infondato, proprio sulla scorta della medesima giurisprudenza costituzionale richiamata dal ricorrente.
In particolare, s’intende fare riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2020 che ha affermato la portata sostanziale non di ogni modifica peggiorativa delle norme in terna di esecuzione della pena e trattamento penitenziario, ma soltanto di quelle che ne mutano radicalmente (con il divieto di accesso a misure alternative, ad esempio) la prospettiva esecutiva.
L’attribuzione della natura processuale alla normativa relativa al trattamento penitenziario e la sua applicabilità alle esecuzioni in corso, ha sostenuto la Corte costituzionale, soffre «un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato. In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni effetto pratico, l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto: con conseguente piena operatività delle rationes, poc anzi rammentate, che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il reato. Ciò si verifica, paradigmaticamente, allorché al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere, la quale – per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto – divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris’ va eseguita di norma “dentro” il carcere. Tra il “fuori” e il “dentro’ la differenza è radicale: qualitativa, pr ancora che quantitativa. La pena da scontare diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto; con conseguente inammissibilità di un’applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell’art. 25, secondo comma, Cost. E ciò vale anche laddove la differenza tra il “fuori” e il “dentro” si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative, rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del
fatto, sulla base della legislazione allora vigente, e quella che è invece ragionevole attendersi sulla base del mutato quadro normativo».
La citazione è riportata anche in Sez. 1, n. 6969 del 08/11/2023, dep. 2024, Rullo, n.m..
Nella predetta sentenza della Corte costituzionale è stato anche precisato che le «modifiche normative che si limitino a rendere più gravose le condizioni di accesso ai benefici medesimi determinino una trasformazione della natura della pena da eseguire, rispetto a quella comminata al momento del fatto e inflitta, sì da chiamare in causa la garanzia costituzionale in parola. [l condannato che fruisca di un permesso premio, o che sia ammesso al lavoro all’esterno del carcere, continua in effetti a scontare una pena che resta connotata da una fondamentale dimensione “intramuraria”. Egli resta in linea di principio “dentro” il carcere, continuando a soggiacere alla dettagliata disciplina che caratterizza l’istituzione penitenziaria, e che coinvolge pressoché ogni aspetto della vita del detenuto. D’altra parte, proprio perché i condannati ammessi periodicamente a godere di permessi premio e/o a svolgere lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21 Ord. pen. restano detenuti che scontano la pena detentiva loro inflitta dal giudice della cognizione, non può non valere nei loro confronti l’esigenza, già segnalata, di evitare disparità di trattamento, all’interno del medesimo istituto penitenziario, dipendenti soltanto dal tempo del commesso reato: disparità che sarebbero di assai problematica gestione da parte dell’amministrazione penitenziaria, e che verrebbero come tali difficilmente accettate dalla generalità dei detenuti».
Detti benefici penitenziari, pertanto, (come segnalato testualmente nello stesso senso qui recepito da Sez. 1, n. 38278 del 20/04/2023, Perrone, Rv. 285203) continuano a essere regolati dal principio del tempus regit actum, con l’ulteriore rilevante precisazione che «non è tuttavia consentito al legislatore disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal condannato che abbia già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio».
Ciò secondo la Corte si porrebbe in contrasto, ove non con l’art. 25, secondo comma, Cost., con il principio di eguaglianza e di finalismo rieducativo della pena (artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.), poiché «negare, a chi si trovi nella posizione di quel condannato, la concessione del beneficio equivarrebbe a disconoscere la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio (sentenza n. 253 del 2019), quale strumento idoneo a consentirne un suo iniziale reinserimento nella società, in vista dell’eventuale concessione di misure alternative alla detenzione, in assenza di gravi comportamenti che dimostrino la non meritevolezza del
beneficio nel caso concreto (sentenza n. 504 del 1995; nello stesso senso, sentenze n. 137 del 1999 e n. 445 del 1997)» (sentenza n. 32 del 2020, citata) Da quanto esposto discende l’infondatezza del primo motivo di ricorso.
3. Il secondo motivo è, parimenti, infondato.
Secondo la formulazione dell’art. 4bis, comma lbis, ord. pen. risultante dopo le modifiche di cui al d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalle legge 30 dicembre 2022′ n. 199, i benefici penitenziari per reati ostativi di prima fascia possono essere concessi ai detenuti anche in assenza di collaborazione con la giustizia, a condizione che: a) dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di adempimento; b) alleghino elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condott carceraria, alla partecipazione al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite ter tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di altra informazione disponibile; c) il giudice accerti la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nel forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa.
Accertate le predette condizioni, il Tribunale deve svolgere l’attività istruttoria mediante l’acquisizione di dettagliate informazioni, anche a conferma degli elementi offerti dal richiedente, in ordine: a) al perdurare dell’operativit del sodalizio criminale di appartenenza o del contesto criminale in cui il delitto fu commesso; b) al profilo criminale del detenuto; iii) alla sua posizione all’interno dell’associazione; c) alle eventuali nuove imputazioni o misure cautelari o di prevenzione sopravvenute e, ove significative, d) alle inf-azioni disciplinari commesse in corso di detenzione.
Il Tribunale, ancora, deve richiedere il parere del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado o, se si tratta di condanne per i delitti di cui agli artt. 51 commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., del pubblico ministero presso il Tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di primo grado, e del Procuratore nazionale RAGIONE_SOCIALE e antiterrorismo; deve, quindi, acquisire informazioni dalla RAGIONE_SOCIALE dell’Istituto di detenzione e deve disporre accertamenti sulle condizioni reddituali e patrimoniali, sul tenore di vita, sulle attività economiche e sulla pendenza o
definitività di misure di prevenzione personali o patrimoniali del detenuto, degli appartenenti al suo nucleo familiare o delle persone comunque a lui collegate.
Il ricorrente deduce il vizio motivazionale del provvedimento oggetto di impugnazione, essenzialmente, lamentando l’assegnazione di rilievo decisivo alla circostanza della mancata assunzione di responsabilità da parte di COGNOME e, dune, l’attribuzione di rilievo pressoché esclusivo alla mancata revisione critica, pur a fronte di un coinvolgimento nelle vicende associative che si arresta al 1988.
La circostanza, poi, che il permesso avrebbe dovuto essere fruito a Sulmona e che i prossimi congiunti del detenuto sono esenti da pendenze giudiziarie avrebbero certamente giustificato la concessione del permesso, così come l’ineccepibile percorso intramurario.
Ebbene, sul punto, si osserva che alcuna eccezione è stata sollevata con riguardo al profilo, di rilievo decisivo secondo la nuova formulazione dell’art. 4bis, comma lbis, ord. pen. sopra citato, all’adempimento o all’impossibilità di adempimento delle obbligazioni civili.
Tale aspetto non è stato preso in considerazione nel ricorso.
Per quanto riguarda, COGNOME inoltre, COGNOME l’aspetto della COGNOME mancata COGNOME presa di consapevolezza delle azioni compiute e la mancata effettuazione di una qualsiasi operazione di introspezione idonea a consentire la formulazione di un giudizio positivo sull’evoluzione della personalità e sui profili più strettamente attinenti alla pericolosità sociale, si osserva quanto segue.
Si tratta di profilo, anch’esso, solo fugacemente affrontato nel ricorso che si è soffermato su aspetti motivazionali sostanzialmente estranei al percorso seguito dal Tribunale di sorveglianza che, piuttosto, ha espressamente disatteso la tesi secondo cui sarebbe necessaria un’ammissione di colpevolezza da parte del condannato.
E’ stato, infatti, anche di recente, ribadito il principio qui condiviso per cu «in tema di permessi premio ex art. 30-ter ord. pen., oltre al requisito della regolare condotta, è necessaria l’assenza di pericolosità sociale del detenuto, sicché rileva, in senso negativo, la mancata rivisitazione critica del pregresso comportamento deviante» (Sez. 1, n. 435 del 29/11/2023, dep. 2024, Barcella, Rv. 285567).
In termini, fra gli altri, anche l’arresto secondo cui «ai fini della concessione del permesso premio, ai sensi dell’art. 30 ter ord. pen., oltre al requisito della regolare condotta è necessaria l’assenza di pericolosità sociale del detenuto, da valutarsi con maggiore rigore nei casi di soggetti condannati per reati di particolare gravità e con fine pena lontana nel tempo, in relazione ai quali rileva, in senso negativo, anche la mancanza di elementi indicativi di una rivisitazione
critica del pregresso comportamento deviante» (Sez. 1, n. 5505 del 11/10/2016, dep. 2017, Patacchiola, Rv. 269195).
Avendo fatto applicazione di tali principi, il provvedimento impugnato è esente dalle censure sollevate anche con il secondo motivo.
Da quanto esposto discende il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 17/04/2024