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Permesso premio: negato senza confessione, è legittimo?

La Corte di Cassazione ha confermato il diniego di un permesso premio a un detenuto in ergastolo. La decisione non si basa sulla mancata confessione, ma sulla totale assenza di un percorso di revisione critica del proprio passato criminale e sulla mancanza di pentimento, elementi che indicano una persistente pericolosità sociale e inaffidabilità del condannato.

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Pubblicato il 29 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Permesso Premio Negato: Quando il Silenzio del Detenuto Pesa più di una Confessione

La concessione di un permesso premio rappresenta un momento cruciale nel percorso di rieducazione di un detenuto. Ma cosa succede quando, pur mantenendo una condotta carceraria impeccabile, il condannato si chiude in un silenzio impenetrabile riguardo al proprio passato criminale? Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 32879/2025, affronta proprio questo delicato tema, tracciando una linea netta tra la non esigibilità della confessione e la necessità di una sincera revisione critica del reato commesso.

I Fatti del Caso

Il caso riguarda un uomo condannato alla pena dell’ergastolo per un gravissimo delitto. Durante la detenzione, presenta un’istanza per ottenere un permesso premio, beneficio previsto dall’ordinamento penitenziario. Sia il Magistrato di Sorveglianza prima, sia il Tribunale di Sorveglianza poi, rigettano la sua richiesta. La ragione del diniego non risiede in una cattiva condotta carceraria, che anzi viene riconosciuta come regolare. Il problema, secondo i giudici, è un altro: il detenuto non ha mai avviato un reale processo di riesame del proprio passato deviante. Durante i colloqui psicologici, ha mantenuto un atteggiamento superficiale e sfuggente, non ha mai parlato dei fatti per cui è stato condannato, né mostrato alcun segno di rimorso o dispiacere per le vittime. Questo atteggiamento di chiusura è stato interpretato come un ostacolo insormontabile per ritenerlo affidabile all’esterno.

L’uomo, tramite il suo difensore, ricorre in Cassazione, sostenendo che la decisione dei giudici sia illegittima perché, di fatto, gli attribuisce un carattere ostativo alla mancata confessione, pretendendo un’ammissione di colpevolezza che per legge non può essere richiesta.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo infondata la censura del ricorrente e confermando la decisione del Tribunale di Sorveglianza. Gli Ermellini hanno chiarito un principio fondamentale: una cosa è pretendere la confessione, un’altra è valutare il percorso di rieducazione del condannato.

Le motivazioni: la distinzione tra confessione e revisione critica del passato

Il cuore della motivazione della sentenza risiede nella distinzione tra la confessione e la “revisione critica”. La giurisprudenza è concorde nel ritenere che non si possa mai obbligare un condannato a confessare per ottenere un beneficio. Il diritto a non ammettere le proprie responsabilità è tutelato. Tuttavia, per la concessione del permesso premio e di altre misure alternative, il giudice deve compiere un giudizio prognostico sulla pericolosità sociale del soggetto.

In questo giudizio, l’atteggiamento del detenuto rispetto al reato commesso assume un’importanza cruciale. La Corte spiega che, sebbene non sia richiesta una confessione, è necessario che il condannato dimostri di aver iniziato un percorso di riflessione critica sul proprio vissuto criminale. Nel caso specifico, i giudici di merito non hanno negato il beneficio per la mancata confessione, ma perché hanno riscontrato un atteggiamento di totale chiusura e negazione. Il detenuto non solo non ha mai parlato del delitto, ma ha completamente rimosso ogni riferimento alle vittime, non mostrando mai “un accenno di pietà o rimorso o dispiacere”.

Questo comportamento, secondo la Cassazione, non è neutro. Diventa un indicatore sintomatico di una “perdurante pericolosità sociale e di inaffidabilità”. In sostanza, un individuo che non ha nemmeno iniziato a fare i conti con la gravità delle proprie azioni non può essere considerato affidabile per essere ammesso, seppur temporaneamente, a fruire di spazi di libertà fuori dal carcere. La regolare condotta carceraria, pur essendo un presupposto necessario, diventa recessiva di fronte a un quadro di personalità che non mostra alcuna evoluzione positiva.

Le conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

La sentenza offre un’importante lezione pratica. Per accedere ai benefici penitenziari come il permesso premio, non basta comportarsi bene tra le mura del carcere. È indispensabile partecipare attivamente e sinceramente al trattamento rieducativo. Questo implica la disponibilità a mettersi in discussione, a riflettere sul danno causato e a mostrare segni, anche iniziali, di un cambiamento interiore. Il rifiuto ostinato di confrontarsi con il proprio passato non viene letto come l’esercizio di un diritto, ma come un campanello d’allarme che segnala l’assenza dei presupposti per un graduale reinserimento nella società.

È necessaria la confessione del reato per ottenere un permesso premio?
No, la confessione non può mai essere pretesa come condizione per la concessione del beneficio. Il condannato ha il diritto di non ammettere le proprie responsabilità.

Perché il permesso premio è stato negato se il detenuto aveva una buona condotta in carcere?
Perché la buona condotta, sebbene sia un requisito, non è sufficiente da sola. I giudici hanno ritenuto che l’assenza totale di un percorso di revisione critica del passato e la mancanza di qualsiasi segno di rimorso fossero indicatori di una persistente pericolosità sociale, che osta alla concessione del beneficio.

Cosa si intende per ‘revisione critica del passato’ ai fini della concessione dei benefici?
Si intende un processo, anche solo iniziale ma significativo, attraverso il quale il condannato dimostra di aver preso coscienza della gravità del reato commesso e di aver avviato una riflessione sul disvalore delle proprie azioni. Questo percorso è considerato fondamentale per valutare l’affidabilità del detenuto e la sua ridotta pericolosità sociale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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