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Permesso premio: negato se persiste il legame mafioso

La Corte di Cassazione ha confermato il diniego di un permesso premio a un detenuto per reati di associazione mafiosa. Nonostante la lunga detenzione e la buona condotta, la Corte ha ritenuto prevalente il concreto e attuale rischio di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata, basandosi sul forte radicamento del soggetto nel clan di appartenenza e sull’assenza di una reale revisione critica del proprio passato criminale.

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Pubblicato il 19 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Permesso Premio e Mafia: Rischio di Legami Residui Prevale sulla Buona Condotta

La concessione di un permesso premio a un detenuto rappresenta un momento fondamentale nel percorso di rieducazione e reinserimento sociale. Tuttavia, quando si tratta di reati di criminalità organizzata, la valutazione diventa estremamente complessa. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 1235/2024) ha ribadito un principio cruciale: la buona condotta e la lunga detenzione non bastano se permane un concreto rischio di riattivazione dei legami con l’ambiente mafioso.

I Fatti del Caso

Il caso riguarda un individuo detenuto dal 1996 per reati gravissimi, tra cui omicidio e associazione mafiosa. Dopo decenni di carcerazione, l’uomo ha richiesto un permesso premio. La sua istanza è stata respinta sia dal Magistrato di sorveglianza sia, in sede di reclamo, dal Tribunale di sorveglianza. Quest’ultimo, pur riconoscendo la buona condotta intramuraria e l’età avanzata del richiedente, ha ravvisato un perdurante e concreto pericolo di ripristino dei collegamenti con il clan di appartenenza, una delle più potenti e pericolose cosche a livello nazionale e internazionale.

La Decisione della Corte di Cassazione sul permesso premio

L’uomo ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che il diniego fosse basato su una sorta di ‘mancata abiura morale’ del fenomeno mafioso, in contrasto con i principi stabiliti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 253 del 2019. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo la decisione del Tribunale di sorveglianza immune da censure e correttamente motivata.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha chiarito che il Tribunale si è attenuto scrupolosamente ai criteri di valutazione imposti dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità. La famosa sentenza della Consulta del 2019 ha rimosso la presunzione assoluta di pericolosità per i condannati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia, ma non ha eliminato la necessità di una rigorosa verifica.

Il rigetto del permesso premio non si è fondato su una richiesta di ‘pentimento morale’, ma su una pluralità di elementi concreti e specifici:

1. Radicamento Criminale: Il profondo e storico legame del detenuto con l’ambiente criminale di origine e la sua intraneità a una cosca di altissimo profilo.
2. Rapporti Personali: I contatti diretti avuti in passato con i vertici del clan, circostanza che rende il rischio di riallacciare i rapporti particolarmente elevato, a prescindere dal ruolo formalmente ricoperto.
3. Assenza di Revisione Critica: La relazione criminologica evidenziava una totale mancanza di riesame critico del proprio passato, un atteggiamento reticente e una sostanziale indifferenza verso le vittime dei reati commessi.
4. Irrilevanza del Luogo: La difesa aveva sottolineato che il permesso si sarebbe svolto in una struttura comunitaria lontana dai luoghi di origine. La Corte ha ritenuto questo aspetto ininfluente, data la pervasività e il carattere anche internazionale del clan di appartenenza, che rende possibile ristabilire contatti a prescindere dalla distanza geografica.

In sostanza, grava sul detenuto l’onere di allegare elementi specifici che dimostrino non solo la cessazione attuale dei legami, ma anche l’inesistenza del pericolo di una loro futura riattivazione.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio fondamentale nell’ambito dell’ordinamento penitenziario per i reati di mafia. Per ottenere un permesso premio, la sola buona condotta carceraria è insufficiente. È indispensabile un’analisi approfondita e individualizzata che escluda, sulla base di elementi concreti, ogni rischio di collegamento con la criminalità organizzata. La decisione finale deve basarsi su una prognosi di non riattivazione futura di tali legami, una valutazione che va ben oltre il comportamento tenuto all’interno delle mura del carcere e che investe la reale e dimostrata rescissione dei vincoli con il passato criminale.

Un detenuto per reati di mafia che non collabora con la giustizia può ottenere un permesso premio?
Sì, ma solo a condizione che fornisca elementi specifici e concreti che dimostrino in modo inequivocabile sia l’assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, sia l’inesistenza di un pericolo che tali legami possano essere ripristinati in futuro.

La buona condotta in carcere e l’età avanzata sono sufficienti per ottenere il beneficio?
No. Secondo questa sentenza, tali elementi, seppur positivi, non sono sufficienti a superare una valutazione negativa fondata sul concreto rischio di ripristino dei legami mafiosi, desunto da fattori come il radicamento storico nel clan e la mancata revisione critica del proprio passato criminale.

Scegliere un luogo lontano dalla zona di origine criminale per il permesso premio aiuta a ottenerlo?
Non necessariamente. Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto questo fattore irrilevante a causa della pericolosità e della portata anche internazionale dell’organizzazione criminale di appartenenza, che rendeva il pericolo di ristabilire contatti concreto a prescindere dalla località.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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