Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 9331 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 9331 Anno 2024
RAGIONE_SOCIALEe: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/11/2023
SENTENZA
sul ricorso di COGNOME NOME, nato a Ischia il DATA_NASCITA, avverso l’ordinanza in data 04/05/2023 del Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Ischia, visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; letta per il ricorrente la memoria dell’AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1.Con ordinanza in data 4 maggio 2023 il Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Ischia, ha rigettato l’incidente di esecuzione promosso nell’interesse di NOME COGNOME avverso l’ingiunzione a demolire le opere abusive, oggetto della sentenza di condanna pronunciata in data 24 giugno 1991 dalla Pretura di Ischia, per violazione dell’art. 20 lett. c), I. n. 47 del 1985. !,42-1
Il ricorrente deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione con riferimento all’applicabilità del limite volumetrico dei 750 mc anche alle superfici non residenziali – primo motivo – e con riferimento all’impossibilità per il giudice di disapplicare il permesso a costruire in sanatoria allorché sia scaduto il termine di annullamento in autotutela da parte della pubblica amministrazione – secondo motivo.
Il difensore ribadisce le sue ragioni con separata memoria e allega documenti sul collaudo statico nonché un parere della AVV_NOTAIO in merito al potere del giudice penale di sindacare la legittimità del provvedimento di condono edilizio e, per l’effetto, equiparare la sanatoria in tesi illegittima all’assenza del titolo abilitativo edilizio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è nel complesso infondato.
E’ pacifico in fatto che il ricorrente, legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE Ischia, proprietaria dell’immobile recante l’insegna omonima, negli anni ’80, ha realizzato un corpo di fabbrica aggiuntivo, consistente in 13 camere con servizi annessi e terrazze prospicienti per una superficie coperta di mq 450, e il 12 aprile 2021 ha ottenuto il permesso in sanatoria, in accoglimento della domanda del 28 febbraio 1995, in seguito alla legge n. 724 del 1994, nonostante la condanna del 1991 e l’ordine a demolire impartito dal PM nel 2014. E’ altresì pacifico che la domanda di condono ha avuto a oggetto mc 2210.
Secondo il Giudice dell’esecuzione, il permesso in sanatoria è illegittimo e va disapplicato perché è stato superato il limite volumetrico di mc 750 stabilito dall’art. 39, comma 1, I. n. 724 del 1994, limite che vale sia per le opere residenziali che per quelle non residenziali. Secondo il ricorrente, il limite vale solo per l’edilizia residenziale e non si giustifica per l’edilizia per la ricezi turistica.
La soluzione dell’ordinanza impugnata è corretta.
Il Collegio ritiene di dare continuità all’orientamento ribadito di recente da questa Sezione con sentenza n. 20889 del 10/06/2020, COGNOME, Rv. 27931301, che richiama la precedente n. 31955 del 01/07/2015, COGNOME, Rv. 264256-01, e che è stata ripresa dalle sentenze n. 6336 del 02/12/2020, dep. 2021, COGNOME, non mass. e n. 47300 del 30/11/2021, COGNOME, non mass., secondo cui il limite volumetrico di 750 metri cubi previsto dall’art. 39, comma 1, è applicabile a tutte le opere, senza distinzione tra residenziali e non residenziali. E’ rimasto così isolato l’orientamento espresso dalla sentenza n. 9598 del 09/02/2012, COGNOME, Rv. 252364-01, che aveva applicato il limite di
cubatura ai soli edifici residenziali. L’art. 39, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, prevede infatti la possibilità di ottenere la concessione edilizia in sanatoria per le opere abusive ultimate entro il 31 dicembre 1993 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto in misura superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria ovvero, indipendentemente dalla volumetria iniziale o assentita, un ampliamento superiore a 750 metri cubi, nonché per le opere abusive realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove costruzioni non superiori ai 750 metri cubi per singola richiesta di concessione edilizia. La norma non consente distinzioni in relazione alla tipologia degli edifici. E la giurisprudenza ha segnalato la necessità di interpretare la sanabilità in termini restrittivi, considerato che si tratta di una lesione inferta ai val espressi dalla normativa urbanistica a tutela di un interesse pubblico preminente, non rilevando in senso contrario le disposizioni di deroga (“ai limiti di cubatura di cui al comma 1”) dell’art. 39, comma 16, della stessa legge, che si riferiscono esclusivamente al pagamento (e alla misura) dell’oblazione (così, nella sentenza n. 20889 del 2020, cit.).
Nella giurisprudenza civile, si segnala il precedente conforme della Sez. 1, n. 4640 del 2009, Rv. 607037. Nella giurisprudenza amministrativa, si segnala il precedente conforme del TAR Campania, n. 5317 del 2018, con ampi riferimenti alla giurisprudenza civile, penale e amministrativa.
Alla stregua delle considerazioni svolte, il primo motivo va disatteso, senza necessità di rimettere la questione alle Sezioni Unite, come richiesto dal ricorrente, perché l’orientamento seguito dal Giudice di Ischia, che questo Collegio ritiene di dover ribadire, è ormai consolidato sia nella giurisprudenza ordinaria che in quella amministrativa.
5. Il ricorrente ha contestato altresì il sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo. Più precisamente con il secondo motivo ha posto una duplice questione: la prima, relativa all’esaurimento dei poteri di cognizione del giudice dopo la scadenza di diciotto mesi dal rilascio del titolo abilitativo che preclude l’autotutela della Pubblica amministrazione; la seconda, relativa al rispetto del principio di proporzionalità e quindi alla possibilità di conservare i manufatto nei limiti delle legittime misure.
Tempestivamente ha depositato una memoria con il parere della AVV_NOTAIO COGNOME in cui ha posto ulteriori questioni connesse che valgono quindi come motivi nuovi. Il ricorrente ha sostenuto, infatti, che il sindacato è possibile sol in mancanza di permesso a costruire, non in presenza di permesso a costruire illegittimo; ha richiamato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale che ha dato luogo alle sentenze a Sezioni Unite COGNOME e COGNOME, per contestare la giurisprudenza successiva che ha esteso il sindacato del giudice penale anche
agli abusi edilizi della lett. b) e della lett. c) dell’art. 20 I. n. 47 del dell’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001; ha evidenziato che tale sindacato integra un’interpretazione in malam part -em, è lesivo degli art. 3 e 27 Cost. e dell’art. 7 CEDU; ha censurato la tesi secondo cui il cittadino è onerato di controllare la Pubblica Amministrazione in una materia così complessa come quella urbanistica; ha infine affermato che, a prescindere dal reato, se è intervenuta la sanatoria con il pagamento degli oneri, il giudice dell’esecuzione ha l’obbligo di revocare l’ordine di demolizione: ogni diversa interpretazione sarebbe costituzionalmente illegittima per contrasto con gli art. 3, 25, 27, primo e terzo comma, 11, secondo comma, Cost., con il principio della separazione dei poteri, con l’art. 7 CEDU, con gli art. 10 e 117, primo comma, Cost., con l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali UE; ha conclusivamente osservato che, dovendo il giudice agire secondo i canoni di ragionevolezza e proporzionalità, è necessario ridurre l’ordine di demolizione nei limiti consentiti.
La tesi propugnata dal ricorrente è contraddetta da una giurisprudenza ordinaria e amministrativa almeno trentennale.
Sul tema dei poteri del giudice penale rispetto al titolo abilitativo edilizi illegittimo sono intervenute, in due diverse occasioni, le Sezioni Unite, con la sentenza COGNOME (Sez. U, n. 3 del 31/1/1987, COGNOME, Rv. 175115-01) e con la sentenza COGNOME (Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993, P.M. in proc. COGNOME ed altri, Rv. 195358-01). La prima escludeva che il giudice penale avesse, in base a quanto disposto dagli artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E, il potere di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi che non comportavano una lesione di diritti soggettivi, ma che rinnovavano un ostacolo al loro libero esercizio o addirittura lo costituivano, sempre che tale potere non trovasse fondamento e giustificazione in una esplicita previsione legislativa ovvero nell’ambito dell’interpretazione della norma penale, qualora l’illegittimità dell’att amministrativo si presentasse essa stessa come elemento essenziale della fattispecie criminosa. Si giungeva, così, alla conclusione che l’abuso edilizio fosse configurabile solo in ipotesi di assenza totale della concessione cui era equiparata l’ipotesi di concessione frutto di attività criminosa del soggetto pubblico. La seconda, pur occupandosi del caso disciplinato dall’art. 20, comma primo, lett. a) dell’allora vigente legge 28 febbraio 1985, n. 47, ha affermato una regola di carattere generale, e cioè che il giudice penale è chiamato a verificare la conformità tra l’opera eseguita o da eseguire e la fattispecie legale, quale risultante dagli elementi extra-penali, cioè dai dati prescrittivi, tecnici provvedimentali, di fonte extra-penale: nel precetto sono, quindi, ricomprese la violazione degli strumenti urbanistici e del regolamento edilizio, l’inosservanza delle prescrizioni della concessione edilizia e l’inosservanza delle modalità
esecutive dell’opera risultanti dai suddetti strumenti e dalla concessione edilizia stessa, oltre che dalla legge.
Secondo la ricostruzione giuridica della sentenza COGNOME, non rileva la disapplicazione dell’atto amministrativo, bensì la valutazione della sussistenza di un elemento normativo della fattispecie penale. Principio questo ribadito nella sentenza a Sezioni Unite Salvini, con riferimento alla lottizzazione abusiva (Sez. U, n. 5115 del 28/11/2001, dep. 2002, Rv. 220708-01).
E’ pacifico poi che il potere del giudice penale di accertare la conformità alla legge ed agli strumenti urbanistici di una costruzione edilizia trova un limite nei provvedimenti giurisdizionali del giudice amministrativo passati in giudicato che abbiano espressamente affermato la legittimità della concessione o della autorizzazione edilizia ed il conseguente diritto del cittadino alla realizzazione dell’opera (Sez. 3, n. 1894 del 14/12/2006, dep. 2007, Bruno, Rv. 235644-01, che a sua volta richiama Sez. 3, n. 39707 del 5/6/2003, COGNOME, Rv. 226592-01). Tale principio è stato ulteriormente puntualizzato nel senso che la preclusione non si estende ai profili di illegittimità, fatti valere in sede penal che non siano stati dedotti ed effettivamente decisi in sede amministrativa (Sez. 3, n. 44077 del 18/07/2014, COGNOME, Rv. 260612 – 01 e Sez. 6, n. 17991 del 20/03/2018, COGNOME, Rv. 272890-01); non si estende neanche al caso in cui il giudicato amministrativo si sia formato all’esito di una controversia instaurata sulla base di documentazione incompleta o comunque fondata su elementi di fatto rappresentati in modo parziale o addirittura non veritiero, sempre che tali criticità risultino da dati obiettivi preesistenti e sconosciuti a giudice amministrativo, ovvero sopravvenuti alla formazione del giudicato (Sez. 3, n. 31282 del 24/05/2017, Merelli, Rv. 270276 – 01).
Il ricorrente ha contestato l’equiparazione effettuata dalla giurisprudenza dopo la sentenza COGNOME tra l’ipotesi dell’assenza di titolo edilizio abilitativo, dell sua illiceità e della sua illegittimità, ribadendo, alla stregua della sentenza COGNOME, che l’illegittimità non è sindacabile, quanto meno nelle ipotesi della lett. b) e della lett. c).
Sennonché, premesso che nel caso in esame si controverte di un’ipotesi di violazione dell’art. 20, lett. c), in assenza di titolo edilizio, l’orientame giurisprudenziale consolidato è che non siano ammessi distinguo, siccome la norma penale in bianco è riempita da norme edilizie ed urbanistiche, al cui rispetto sovrintende anche il giudice penale. Già con la sentenza COGNOME (Sez. 3, n. 12389 del 21/02/2017, Rv. 271170-01), questa Corte aveva chiarito, dopo aver ripercorso i termini del dibattito, che la sentenza Cervino (Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, dep. 2015, Rv. 263916- 01), richiamata dalla successiva Sez. 3, n. 52861 del 14/07/2016, COGNOME, non massimata, non era in contrapposizione con la linea interpretativa tracciata dalle Sezioni Unite COGNOME, semplicemente
aveva escluso ogni automatismo tra la mera illegittimità del titolo abilitativo e la sussistenza del reato urbanistico, eliminando così il rischio, paventato nella prospettata questione di legittimità costituzionale, di una irragionevole equiparazione interpretativa in malam partem tra la mancanza originaria dell’atto concessorio e l’illegittimità dello stesso. Proprio la sentenza COGNOME ha opportunamente individuato nell’art. 12 del d.P.R. 380 del 2001 un argomento decisivo a sostegno dell’interpretazione giurisprudenziale: nel prevedere che “il permesso di costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente” attribuisce al giudice penale il sindacato del rispetto del precetto.
La coeva sentenza COGNOME (Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Rv. 27321801), richiamati le precedenti sentenze COGNOME (Sez. 3, 22/04/2008 n. 26144, Rv. 240728) e COGNOME (Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006, Rv. 234469) ha spiegato con maggiore nettezza che il giudice penale ha sempre il potere-dovere di verificare, in via incidentale, la legittimità del permesso in sanatoria e d accertare se l’opera sia conforme alla normativa urbanistica, trattandosi di un provvedimento che costituisce il presupposto dell’illecito penale. E’ chiaro che il giudice, accertando l’esistenza di profili di illegittimità sostanziale del tit abilitativo, non pone in essere la procedura di disapplicazione riconducibile all’art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E, ma verifica in concreto la conformità del fatto alle prescrizioni normative, avuto riguardo all’oggetto della tutela, da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali de territorio regolati dagli strumenti urbanistici. Pertanto, il conseguimento di un permesso in sanatoria non esclude il controllo del giudice penale, in vista dell’interesse sostanziale che il reato assume a tutela, cioè l’interesse alla tutela dei territorio, rispetto al quale gli elementi di natura extra-penale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo. E’ la stessa formulazione normativa del reato che impone al giudice un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa, ivi compreso l’atto amministrativo (Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993, COGNOME, in motiv., nonché Rv. 195358-01). Pertanto, il mancato effetto estintivo non è riconducibile ad una valutazione di illegittimità del provvedimento cui consegua la disapplicazione dello stesso, ma alla verifica della inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto dell’estinzione del reato in sede di esercizio del doveroso sindacato della legittimità del fatto estintivo, incidente sulla fattispecie tipica penale (Sez. 3, 23080 del 16/04/2008, COGNOME, non massimata; conf. Sez. 3, n. 26144 del 22/04/2008, COGNOME, Rv. 24072801; Sez. 3, n. 12869 del 5/2/2009, COGNOME, non massimata; Sez. 3, n. 27948 del 10/6/2009, COGNOME, non massimata; Sez. III n. 31479, 29 luglio 2008). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Lo stesso principio è stato affermato per i reati paesaggistici dalla sentenza Sez. 3, n. 38856 del 04/12/2017, dep. 2018, Schneider, Rv. 273703 01).
In questa prospettiva, la tesi propugnata dal ricorrente, ancorata ai principi della sentenza COGNOME, appare superata. Né vale a rinverdirla la considerazione che il cittadino sarebbe gravato di oneri di controllo inesigibili e anacronistici rispetto al cosiddetto “scudo erariale” introdotto dall’art. 21 d.l. n 70 del 2020. La limitazione di responsabilità erariale del pubblico dipendente al solo dolo non incide sulla responsabilità penale né sulla verifica dell’elemento psicologico degli imputati dei reati edilizi.
Su questa scia, occorre ancora una volta ribadire che, in siffatti casi, il sindacato del giudice penale deve investire l’accertamento incidentale allo stato degli atti perché la causa di estinzione del reato per violazioni edilizie (in conseguenza del rilascio del permesso di costruire in sanatoria), siccome si risolve in un accertamento dell’inesistenza del danno urbanistico in quanto si fonda sulla conformità delle opere abusive alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione sia al momento della richiesta, determina la mancanza ex tunc dell’antigiuridicità sostanziale del fatto reato ( v. Corte Cost. sent. 30 aprile 1999 n. 149). Ma proprio perché il provvedimento amministrativo va ad incidere su un reato già commesso, il giudice penale non può sottrarsi al compito di controllare, pieno iure, la sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio.
6. Il ricorrente ha invocato la tutela dell’affidamento perché l’esecuzione dell’ordine di demolizione è intervenuto dopo che era perento il termine per l’eventuale revoca del permesso in sanatoria da parte della Pubblica amministrazione. La tutela invocata è di tipo amministrativo e non vale rispetto all’esecuzione dell’ordine di demolizione conseguente al reato. La giurisprudenza ha affermato che, in caso di macroscopica illegittimità del permesso in sanatoria, non è possibile invocare la buona fede (tra le tante, Sez. 3, n. 3979 del 21/09/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275850-01; n. 56678 del 21/09/2018, COGNOME, Rv. 275565-01). Ma, più in generale, rispetto a un reato non è possibile mai invocare la buona fede, a meno di una scusabilità dell’ignoranza penale (tra le più recenti, Sez. 3, n. 32084 del 17/11/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 28503201; n. 41589 del 15/10/2021, COGNOME, Rv. 282691-01), neanche prospettata nel caso in esame. D’altra parte, per le ragioni esposte, neanche è sostenibile che una presunta limitazione della Pubblica amministrazione all’esercizio del suo potere discrezionale possa incidere e limitare a sua volta l’accertamento del
giudice penale. Non ricorrono quindi le condizioni per sollevare la questione di legittimità costituzionale invocata dal ricorrente.
Va disattesa anche la possibilità di ridurre l’abuso nei limiti consentiti dalla legge: l’istanza del ricorrente avrebbe potuto essere accolta solo se presentata entro il termine del condono del 1994 (da ultimo, Sez. 3, n. 43933 del 14/10/2021, Medusa, Rv. 282163-01), mentre non è ammissibile come reazione all’esecuzione dell’ordine di demolizione. Come spiegato nella sentenza Medusa, le uniche possibilità di intervento, non incompatibili con la sanatoria, sono quelle previste dall’art. 35, comma 14, legge n. 47 del 1985 (che disciplina modesti lavori di rifinitura delle opere abusive) e dall’art. 43, quinto comma, della stessa legge, che consente le opere strettamente necessarie a rendere gli edifici funzionali qualora i manufatti non siano stati completati per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali (Cons. St., sent. n. 665 del 01/02/2018). Ammettere lavori – sia pur di demolizione – che modifichino il manufatto abusivo, alterandone significativamente la struttura e riducendone la volumetria, al fine di rendere sanabile, dopo la scadenza del termine finale stabilito dalla legge per la condonabilità delle opere, ciò che certamente in allora non lo sarebbe stato costituisce indebito aggiramento della disciplina legale poiché sposta arbitrariamente in avanti nel tempo il termine finale previsto dalla legge per ottenere il condono edilizio, addirittura legittimando ulteriori interventi abusivi (così in motivazione).
D’altra parte, non ricorrono neanche le ventilate esigenze di proporzionalità per le quali la Corte EDU impone la tutela del proprietario di casa rispetto all’interesse dello Stato alla repressione dell’abuso edilizio commesso. Nelle sentenze COGNOME e COGNOME c. Bulgaria del 21/04/2016 e COGNOME c. Lituania del 04/08/2020 relative alla demolizione dell’unica casa abitata, la Corte EDU ha chiesto di valutare la disponibilità, da parte dell’interessato, di un tempo sufficiente per conseguire, se possibile, la sanatoria dell’immobile o per risolvere, con diligenza, le proprie esigenze abitative, la possibilità di far valere le proprie ragioni dinanzi a un tribunale indipendente, l’esigenza di evitare l’esecuzione in momenti in cui sarebbero compromessi altri diritti fondamentali, come quello dei minori a frequentare la scuola, nonché l’eventuale consapevolezza della natura abusiva dell’attività edificatoria. Nel caso in esame, non solo il ricorrente non ha allegato alcuna circostanza decisiva in suo favore, ma non si è confrontato neanche con la giurisprudenza di legittimità che pretende che il ricorrente non possa lucrare il tempo inutilmente trascorso dalla data di irrevocabilità della sentenza per paralizzare l’esecuzione dell’ingiunzione a demolire a cui avrebbe dovuto provvedere lui stesso (tra le più recenti, Sez. 3, n. 21198 del 15/02/2023, COGNOME, Rv. 284627-01) trova causa proprio dalla sua inerzia). (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione di rigett
dell’istanza di revoca dell’ingiunzione a demolire un immobile abusivo, rilevando che i ricorrenti avevano commesso numerose contravvenzioni urbanistiche e paesaggistiche e più delitti di violazione dei sigilli, avevano potuto avvalersi di plurimi rimedi per la tutela in giudizio delle proprie ragioni, avevano beneficiato di un congruo tempo per individuare altre situazioni abitative e non avevano indicate) specifiche esigenze che giustificassero il rinvio dell’esecuzione dell’ordine di demolizione onde evitare la compromissione di altri diritti fondamentali).
Alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso va pertanto rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali Così deciso, il 21 novembre 2023
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