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Permessi di colloquio: no appello, sì ricorso Cassazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17696/2024, ha stabilito che il provvedimento con cui un giudice nega i permessi di colloquio a un detenuto in custodia cautelare non è appellabile davanti al Tribunale della Libertà. Sebbene tale decisione incida sui diritti della persona, non rientra tra le “ordinanze in materia di misure cautelari” per le quali è previsto l’appello. L’unico rimedio esperibile è il ricorso diretto in Cassazione per violazione di legge, in base al principio di tassatività dei mezzi di impugnazione.

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Pubblicato il 14 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Permessi di colloquio: la Cassazione chiarisce i rimedi contro il diniego

Il diritto di un detenuto a mantenere relazioni familiari, specialmente con i figli minori, è un principio di civiltà giuridica. Tuttavia, le modalità con cui questo diritto può essere tutelato seguono percorsi procedurali ben definiti. Con la sentenza n. 17696 del 2024, la Corte di Cassazione interviene su un punto cruciale: qual è lo strumento corretto per contestare il diniego dei permessi di colloquio? La Corte stabilisce che non è l’appello al Tribunale della Libertà, ma il ricorso diretto in Cassazione.

I Fatti del Caso: La Richiesta di un Padre Detenuto

Il caso riguarda un uomo sottoposto a custodia cautelare in carcere che aveva richiesto di poter incontrare il figlio di tre anni. Il Giudice per l’udienza preliminare (G.u.p.) aveva negato l’autorizzazione. Contro questa decisione, la difesa dell’uomo aveva proposto appello al Tribunale della Libertà ai sensi dell’art. 310 del codice di procedura penale, che disciplina le impugnazioni in materia di misure cautelari personali.

Il Tribunale, accogliendo l’appello, aveva annullato la decisione del G.u.p. e autorizzato i colloqui tra padre e figlio. A questo punto, è stato il Procuratore della Repubblica a contestare la decisione del Tribunale, presentando ricorso in Cassazione. Il punto centrale del ricorso era di natura squisitamente procedurale: il Tribunale non avrebbe dovuto nemmeno esaminare l’appello, perché il diniego di un colloquio non rientra tra i provvedimenti appellabili secondo l’art. 310 c.p.p.

La Natura Giuridica dei Permessi di Colloquio

La Suprema Corte, per risolvere la questione, analizza la differenza ontologica tra i provvedimenti che impongono divieti e quelli che, al contrario, rimuovono limitazioni già esistenti. La chiave di volta sta nel distinguere i permessi di colloquio in carcere dai divieti di comunicazione imposti a chi si trova agli arresti domiciliari.

Arresti domiciliari (art. 284 c.p.p.): La persona è libera di comunicare con chiunque, a meno che il giudice non imponga specifici divieti. Questi divieti sono prescrizioni aggiuntive che aggravano l’afflittività della misura. Pertanto, un’ordinanza che li impone è considerata “in materia di misure cautelari” e può essere appellata.
Custodia in carcere: Lo stato di detenzione comporta di per sé il divieto di comunicare con l’esterno. Il permesso di colloquio, quindi, non aggiunge una restrizione, ma rimuove temporaneamente un divieto che è connaturato alla misura stessa.

Questa distinzione è fondamentale. Un provvedimento sui colloqui non applica una misura cautelare né la modifica, ma ne regola le modalità esecutive. Sebbene incida in modo significativo sulla condizione del detenuto, la sua natura giuridica è diversa da quella di un’ordinanza che, ad esempio, applica o sostituisce una misura coercitiva.

Le Motivazioni della Cassazione

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del Procuratore, annullando senza rinvio l’ordinanza del Tribunale. Il ragionamento si fonda sul principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, sancito dall’art. 568 c.p.p.: un provvedimento può essere impugnato solo con i mezzi e nei casi espressamente previsti dalla legge.

L’art. 310 c.p.p. consente l’appello esclusivamente per le “ordinanze in materia di misure cautelari personali”. Secondo la Corte, i provvedimenti sui permessi di colloquio non rientrano in questa categoria. Essi sono certamente atti di natura giurisdizionale, idonei a incidere sulla libertà personale e sulla sfera affettiva del detenuto, e come tali devono essere motivati e possono essere contestati. Tuttavia, lo strumento processuale non è l’appello.

Il rimedio corretto, secondo gli Ermellini, è il ricorso diretto per Cassazione per violazione di legge, ai sensi dell’art. 111, comma 7, della Costituzione. Questo perché, pur non essendo un’ordinanza cautelare in senso stretto, la decisione sui colloqui tocca diritti fondamentali e deve poter essere sottoposta a un controllo di legittimità. Il Tribunale della Libertà, decidendo l’appello, ha compiuto un’interpretazione analogica non consentita in una materia, come quella delle impugnazioni, governata da un rigido principio di legalità.

Le Conclusioni

La sentenza stabilisce un chiaro confine procedurale con importanti implicazioni pratiche. Il diritto di un detenuto a contestare il diniego di un colloquio è pienamente garantito, ma deve essere esercitato attraverso il canale corretto. La decisione chiarisce che il sistema delle impugnazioni non ammette scorciatoie o estensioni analogiche: per i permessi di colloquio, la via maestra è il ricorso diretto alla Suprema Corte. Questo assicura un controllo di legittimità sulla decisione, senza passare per un grado di merito (l’appello) che la legge non prevede per questa specifica materia.

È possibile fare appello al Tribunale della Libertà contro il diniego di un permesso di colloquio per un detenuto in custodia cautelare?
No. Secondo la Corte di Cassazione, questo tipo di provvedimento non rientra tra le “ordinanze in materia di misure cautelari personali” per le quali l’art. 310 c.p.p. prevede l’appello. La decisione è stata quindi considerata proceduralmente scorretta.

Qual è la differenza tra i divieti di comunicazione agli arresti domiciliari e i permessi di colloquio in carcere ai fini dell’impugnazione?
Per gli arresti domiciliari, i divieti di comunicazione sono prescrizioni aggiuntive che aggravano la misura e sono quindi appellabili. Per la custodia in carcere, il divieto di comunicazione è una conseguenza intrinseca della detenzione; il permesso di colloquio è un’autorizzazione che rimuove tale divieto, ma la sua negazione non costituisce un’ordinanza cautelare appellabile.

Qual è il rimedio corretto contro un provvedimento che nega i permessi di colloquio in carcere?
L’unico mezzo di impugnazione consentito è il ricorso diretto per Cassazione per violazione di legge, come previsto dall’art. 111, comma 7, della Costituzione. Questo garantisce un controllo sulla corretta applicazione della legge da parte del giudice, pur non essendo previsto un riesame nel merito tramite appello.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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