Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 17696 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 17696 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 28/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE TRIBUNALE DI PALERMO nel procedimento a carico di:
NOME.
nato a LICATA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 13/12/2023 del TRIB. LIBERTA di PALERMO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME, che ha chiesto il rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 13 dicembre 2023, il Tribunale di Palermo, investito ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., ha accolto l’appello proposto nell’interesse C. M. e ha annullato il provvedimento del 13 novembre 2023 col quale il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo aveva negato al C . M. , sottoposto a custodia cautelare in carcere per violazione degli artt. 73 e 74 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, di avere colloqui col figlio di tre anni. Avendo annullato il provvedimento impugnato, il Tribunale ha autorizzato il bambino ad avere colloqui col padre, nei limiti consentiti dall’ordinamento penitenziario accompagnato da NOME (persona che – si legge nel provvedimento – era già stata autorizzata ad avere colloqui col detenuto).
Contro l’ordinanza del Tribunale ha proposto tempestivo ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.
2.1. Con un primo motivo, il ricorrente deduce inosservanza ed erronea applicazione di legge. Sostiene che il provvedimento col quale il G.u.p. aveva negato il permesso di colloquio non poteva essere oggetto di appello ai sensi dell’art. 310 cod. proc. peri. Il ricorrente si duole che l’ordinanza impugnat abbia fatto applicazione analogica del principio che consente di proporre appello ex art. 310 cod. proc. pen. contro i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 284 comma 2, cod. proc. pen. Sottolinea che, in quel caso, è il giudice a imporre «limiti o divieti» e la procedura è interamente giurisdizionalizzata, ma non lo è invece per quanto riguarda i permessi di colloquio. Secondo il ricorrente, i provvedimenti con i quali vengono autorizzati o negati i colloqui alle persone sottoposte a misura cautelare, ancorché adottati dall’autorità giudiziaria fino all pronuncia della sentenza di primo grado, non hanno natura giurisdizionale, ma amministrativa. Pertanto, il Tribunale non avrebbe potuto annullare la decisione adottata dal G.u.p.
2.2. Col secondo motivo, il ricorrente lamenta illogicità e contraddittoriet della motivazione, fondata sul «particolare favore» accordato ai colloqui con i familiari dall’art. 18 legge 26 luglio 1975 n. 354. Osserva che, nel caso di specie, il permesso di colloquio è stato negato perché dinanzi al Tribunale per i minorenni di Palermo è stato aperto un procedimento volto ad ottenere la dichiarazione di adottabilità del minore e tale procedimento è stato instaurato perché, nelle indagini che hanno condotto all’applicazione della misura cautelare a carico di NOME è emerso che egli svolgeva attività di spaccio nella propria abitazione in concorso con la compagna, COGNOME NOME.A. RAGIONE_SOCIALE , facendosi
assistere in tali operazioni dai figli minorenni. Secondo il ricorrente, annullando
provvedimento che ha negato il permesso di colloquio, l’ordinanza impugnata avrebbe compiuto valutazioni relative all’interesse del minore sulle quali ha esclusiva competenza il Tribunale per i minorenni.
Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Per migliore comprensione della vicenda è necessario riferire che il 9 novembre 2023, NOME (sottoposto a custodia cautelare in carcere per i reati di cui agli artt. 73 e 74 d.P.R. n. 309/90), chiese al Giudice per l’udie preliminare del Tribunale di Palermo (di fronte al quale il procedimento a suo carico era pendente), di essere autorizzato ad incontrarsi col figlio NOME. Trattandosi di un bambino di tre anni, l’istante chiese che NOME fosse autorizzata ad accompagnare in carcere il bambino. Precisò a tal fine: che una precedente istanza con la quale si chiedeva che il minore fosse accompagnato in carcere dalla madre, NOME , era stata respinta perché la C.A. è imputata nel medesimo procedimento; che, pertanto, era stata individuata come accompagnatrice del minore COGNOME NOME COGNOME (figlia della NOME. ).
Con provvedimento del 13 novembre 2023, il G.u.p. ha respinto l’istanza affermando di condividere le ragioni espresse nel motivato parere contrario del Pubblico ministero e richiamandole per relationem. In questo parere il Pubblico ministero osserva: che la Ml. è «già stata autorizzata a svolgere colloqui con C.M. il detenuto COGNOME.COGNOME. »; che, in data 25 luglio 2023, il G.u.p. ha negato a l’autorizzazione a incontrare il figlio, essendo pendente un procedimento «dinanzi al Tribunale per i minorenni per la dichiarazione di adottabilità»; che, con riferimento ai colloqui col minore, «nessun altro elemento di novità» è stato allegato.
Dall’ordinanza impugnata risulta che, il 24 luglio 2023, il Tribunale per i minorenni (appositamente interpellato dal Pubblico ministero) aveva ritenuto ostative allo svolgimento di colloqui tra il padre e il bambino: da un lato, pendenza di un procedimento per la dichiarazione di adottabilità; dall’altro, le particolari condizioni del minore, che ha appena tre anni, è «affetto da sindrome di Down» e «potrebbe avere pregiudizio per la visita in un carcere».
Contro il provvedimento di diniego del permesso di colloquio emesso dal G.u.p. il 13 novembre 2023, il difensore di NOME ha proposto appello ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen. Il Tribunale adito ha ritenuto l’appe ammissibile facendo «applicazione analogica del consolidato principio secondo
cui è ammissibile l’appello avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca del divieto per l’imputato sottoposto alla misura degli arresti domiciliari comunicare con terze persone, imposto ai sensi dell’art. 284, comma 2, cod. proc. pen.» (così,testualnnente, pag. 2 dell’ordinanza impugnata).
Il ricorrente si duole di tale applicazione analogica e, per questa parte, ricorso è fondato nei termini che saranno di seguito specificati.
Ai sensi dell’art. 37 d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, i colloqui degli imputati sono autorizzati dal direttore dell’istituto. Nel corso delle indagini, e fino alla pronuncia della senten di primo grado, sono autorizzati dall’autorità giudiziaria che procede.
Ai sensi dell’art. 18, legge 26 luglio 1975 n. 354, «fino alla pronuncia dell sentenza di primo grado, i permessi di colloquio, le autorizzazioni alla corrispondenza telefonica e agli altri tipi di comunicazione sono di competenza dell’autorità giudiziaria che procede, individuata ai sensi dell’articolo 11, comma 4». Dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 123, questa norma individua l’autorità giudiziaria che procede nei seguenti termini: «Se il giudice in composizione collegiale, il provvedimento è adottato dal presidente. Prima dell’esercizio dell’azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari provvede il pubblico ministero in caso di giudizio direttissimo e fino all presentazione dell’imputato in udienza per la contestuale convalida dell’arresto in flagranza. Se è proposto ricorso per cassazione, provvede il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato».
Secondo la giurisprudenza di legittimità, la competenza a decidere appartiene, nel corso delle indagini, al giudice per le indagini preliminari in for di una competenza funzionale e inderogabile, la cui violazione è rilevabile anche d’ufficio (Sez. 1, n. 37834 del 07/05/2015, COGNOME, Rv. 265010; Sez. 1, n. 38048 del 06/07/2017, COGNOME, Rv. 270976). Il Giudice che decide su una richiesta di autorizzazione a colloquio, inoltre, è tenuto ad acquisire il parere del pubblic ministero: è stata ritenuta affetta da nullità assoluta, ai sensi dell’art. comma 1, lett. b), cod. proc. pen., «per l’inosservanza delle disposizioni concernenti la partecipazione del pubblico ministero al procedimento, l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che, durante la fase delle indagi preliminari, decide sull’istanza di autorizzazione allo svolgimento di colloquio avanzata dall’indagato sottoposto alla misura cautelare in carcere senza acquisire il parere del pubblico ministero» (Sez. 3, n. 9987 del 19/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278533).
Per quanto riguarda la natura giuridica dei permessi di colloquio e il conseguente regime di impugnabilità, si contrappongono due indirizzi
giurisprudenziali. Secondo un primo orientamento, quesl:i provvedimenti non hanno natura giurisdizionale ma amministrativa, perché non incidono sulla libertà personale, ma attengono alle modalità esecutive della custodia e al trattamento del detenuto; pertanto, per il principio di tassatività del impugnazioni, non sono impugnabili con i mezzi previsti dal sistema processuale penale, ma con quelli dell’ordinamento amministrativo (Sez. 4, n. 2222 del 07/04/2000, Bresciani, Rv. 216486; Sez. 1, n. 24107 del 26/05/2009, COGNOME, Rv. 244651). A questa impostazione se ne contrappone un’altra, che si è progressivamente consolidata, secondo la quale «i provvedimenti che decidono sulle istanze di colloquio dei detenuti, potendosi risolvere in un inasprimento del grado di afflittività delle misure cautelari, sono ricorribili in Cassazione, ex art. 111 Cost., comma 7». (Sez. 6, n. 3729 del 24/11/2015, dep. 2016, Avola, Rv. 265927; Sez. 2, n. 23760 del 06/05/2015, COGNOME, Rv. 264388; Sez. 5, n. 8798 del 04/07/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258823).
Il Collegio condivide questo secondo orientamento. Come è stato opportunamente sottolineato, infatti, risponde ad un principio di civiltà giuridic che «a colui che subisce una restrizione carceraria – preventiva o definitiva – sia comunque riconosciuta la titolarità di situazioni soggettive attive e sia garantit quella parte di diritti della personalità che neppure la pena detentiva può intaccare». Tra questi è certamente annoverabile il diritto al mantenimento di relazioni familiari e sociali, che può essere compresso «solo ove ricorrano specifiche e motivate esigenze di sicurezza pubblica o intramuraria o, per i detenuti in attesa di giudizio, d’ordine processuale» (Sez. 5, n. 8798 del 04/07/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258823 pagg. 4 e 5 della motivazione).
In sintesi, il diniego di un permesso di colloquio incide sul livello di afflit della privazione della libertà personale e «richiede il rispetto delle garanzi espressamente previste dall’art. 13 Cost., comma 2», ma «un rispetto non meramente formale di dette garanzie richiede che sia riconosciuta la giustiziabilità, quantomeno ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, di quei provvedimenti che, non esprimendosi mediante “atto motivato” e non essendo in altro modo censurabili, hanno rispetto ad esse portata sostanzialmente elusiva. In analogia a quanto osservato da Sez. U, sent. n. 24 del 03/12/1996, ric. COGNOME, anche con riguardo ai provvedimenti del giudice della cognizione che inibiscono al detenuto di tenere colloqui e che, in quanto non strettamente delimitati nel tempo né direttamente finalizzati ad una contingente attività da compiere, possono risolversi in un generalizzato inasprirnento del grado di afflittività della misura cautelare, deve dunque trovare applicazione il princip che provvedimenti di tal fatta vanno ricompresi nella categoria di quelli sull libertà personale, avverso cui è sempre ammesso ricorso per cassazione per
violazione di legge» (Sez. 5, n. 8798/2013, COGNOME, cit. pag. 5 della motivazione).
Per quanto esposto, ai provvedimenti con i quali il giudice che procede autorizza i colloqui con una persona sottoposta a custodia cautelare in carcere o nega tale autorizzazione deve essere riconosciuta natura giurisdizionale. Ciò comporta che tali provvedimenti siano ricorribili in Cassazione per violazione di legge ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., ma non comporta necessariamente che quei provvedimenti siano appellabili ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen. Questa norma, infatti, fa espresso riferimento soltanto alle «ordinanze in materia di misure cautelari personali» e per ritenerla operante nel caso di specie il Tribunale ha applicato analogicamente l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale sono appellabili ex art. 310 cod. proc. pen. le ordinanze che vietano all’indagato sottoposto agli arresti domiciliari di comunicare con persone diverse da quelle che gli prestano assistenza o convivono con lui.
Come noto, con la sentenza n. 24 del 03/12/1996 (dep. 1997, COGNOME, Rv. 206465) le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato che «i provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 284, terzo comma, cod. proc. pen., che regolano le modalità di attuazione degli arresti domiciliari relativamente alla facoltà dell’indagato di allontanarsi dal luogo di custodia, contribuiscono ad inasprire o ad attenuare il grado di afflittività della misura cautelare e devon pertanto essere ricompresi nella categoria dei provvedimenti sulla libertà personale; ne consegue che ad essi si applicano le regole sull’impugnazione dettate dall’art. 310 cod. proc. pen., che prevede, in proposito, un sindacato di secondo grado esteso anche nel merito. (Nell’affermare detto principio la Corte ha altresì precisato che la predetta disciplina non trova tuttavia applicazione con riferimento a quei provvedimenti i quali, per il loro carat:tere temporaneo e meramente contingente, non sono idonei a determinare apprezzabili e durature modificazioni dello “status libertatis”)».
Il principio affermato dal supremo Collegio è stato ritenuto applicabile anche ai provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 284, comma 2, cod. proc. pen. Si è sottolineato a tal fine che non si tratta di una «mera modalità accessoria» degli arresti domiciliari, ma di una prescrizione «che incide gravemente sulla afflittivit della misura cautelare principale» (Sez. 6, n. 21296 del 12/05/2009, Pozzi, Rv. 243678).
4.1. Sotto il profilo logico, l’affermazione secondo la quale i provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 284, comma 2, cod. proc. pen. incidono gravemente sulla afflittività degli arresti domiciliari e sono pertanto appellabili ai
dell’art. 310 cod. proc. pen. muove dalla constatazione che gli arresti domiciliari comportano restrizioni alla possibilità di comunicare con persone diverse da quelle che coabitano con l’indagato o lo assistono solo se il giudice dispone in tal senso perché ritiene tale limitazione necessaria a fini cautelari. Per gli stes motivi, un condivisibile orientamento giurisprudenziale ha ritenuto che i limiti divieti disposti dal giudice ai sensi dell’art. 284, comma 2, cod. proc. pen., p accedendo alla misura coercitiva, costituiscano autonome prescrizioni dotate «di specifica ed aggiuntiva efficacia afflittiva» e, pertanto, il giudice che riteng adottarle o modificarle sia «tenuto ad una espressa e motivata statuizione» (Sez. 4, n. 20380 del 07/03/2017, Affinito, Rv. 270026; Sez. 1, n. 6934 del 08/09/2020, dep. 2021, Scarabeo, Rv. 280530). Muovendo dalle medesime premesse si è ritenuto che sia «affetto da nullità assoluta a norma degli artt. 178, lett. b), e 179 cod. proc. pen. il provvedimento del giudice che, disponendo l’applicazione della misura degli arresti domiciliari, impone limiti divieti alla facoltà dell’imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono, in difetto di una previa corrispondente richiesta del pubblico ministero» (Sez. 6, n. 17950 del 04/04/2013, COGNOME, Rv. 255136; Sez. 2, n. 53671 del 27/11/2014, COGNOME, Rv. 261617; Sez. 3, n. 51573 del 06/12/2023, COGNOME, Rv. 285629).
4.2. Se si esamina la questione oggetto del presente ricorso muovendo dalle premesse sopra indicate, la differenza ontologica tra i provvedimenti adottati ai sensi del citato art. 284, comma 2, e i provvedimenti con i quali a un detenuto viene negato o concesso un permesso di colloquio appare evidente: la persona sottoposta agli arresti domiciliari può incontrare limiti nella propria capacità comunicare con terzi solo se quei limiti sono espressamente imposti dal giudice; chi è sottoposto alla custodia cautelare in carcere, invece, non può comunicare con le persone che si trovano all’esterno del carcere se non è espressamente autorizzato a farlo.
In altri termini: le prescrizioni di cui all’art. 284, comma 2, cod. proc. p introducono, con provvedimento giurisdizionale, un limite alla libertà personale che si aggiunge al divieto di allontanarsi dall’abitazione e riguarda la libertà comunicazione; i permessi di colloquio, invece, se concessi, rimuovono un limite che esiste perché discende dall’applicazione della misura cautelare detentiva.
Alla luce delle considerazioni svolte si deve concludere che i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 284, commi 2 e 3, cod. proc. pen. sono «ordinanze in materia di misure cautelari», ma non possono essere considerati tali i provvedimenti che concedono o negano un permesso di colloquio.
Questi provvedimenti, infatti, non introducono divieti di comunicazione, ma
decidono se tali divieti, conseguenti all’applicazione della custodia in carcere, possano in concreto essere rimossi. Si tratta di provvedimenti idonei ad incidere sulla afflittività della custodia in carcere (e, per questo, ricorribili in Cassaz per violazione di legge ai sensi dell’art. 111, comma Cost), ma non di ordinanze che applicano misure cautelari introducendo limitazioni alla libertà personale. Non si tratta, dunque, di provvedimenti appellabili ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen.
In sintesi, e conclusivamente: il legislatore ha espressamente previsto l’appellabilità delle ordinanze in materia di misure cautelari personali e reali, m non ha previsto la possibilità di appellare i provvedimenti in materia di permessi di colloquio. Ed infatti, per ritenere applicabile a questi provvedimenti l’art. 3 cod. proc. pen., l’ordinanza impugnata ha dovuto compiere una interpretazione analogica, inammissibile in questa materia alla luce del principio di tassatività de mezzi di impugnazione fissato dall’art. 568 cod. proc. pen.
Per quanto esposto, l’appello ex art. 310 cod. proc. pen. avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile. L’unico mezzo di impugnazione consentito contro il provvedimento col quale il Giudice procedente aveva negato il permesso di colloquio, infatti, sarebbe stato il ricorso per Cassazione per violazione legge. Ne consegue l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata ai sensi dell’art. 620, lett. d), cod. proc. pen.
In caso di diffusione del presente provvedimento dovranno essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi ai sensi dell’art. 52 d.11gs. 30 giugno n.196, in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato. Oscuramento dei dati sensibili perché imposto dalla legge. Così deciso il 28 marzo 2024
Il Consigliere estensore
COGNOME
Il Pre ‘d te