Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 27378 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 27378 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 30/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a Jesi (AN) il DATA_NASCITA avverso il decreto della Corte di Appello di Catania 22/11/2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del AVV_NOTAIOCOGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con provvedimento del 22/11/2023, la Corte di appello di Catania ha confermato il decreto del Tribunale di Catania del 5/4/2023 che aveva disposto darsi applicazione nei confronti di NOME alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di Pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno disposta, in origine, con decreto del Tribunale di Catania del 12/2/2018.
Avverso tale provvedimento ricorre per cassazione NOME per
mezzo del difensore il quale deduce il vizio di violazione di legge ( art. 14 co. 2 ter D.Lgs. 159/2011 ) avendo il Tribunale, trascorso un congruo termine di detenzione, rivalutato la pericolosità sociale del ricorrente valorizzando episodi verificatisi in un periodo anteriore ai due anni di osservazione detentiva atteso che il ricorrente è stato rimesso in libertà in data 6/1/2023 per cui il permanere della pericolosità andava verificato a decorrere dal 6/1/2021 e poiché gli episodi valorizzati in negativo dal Tribunale si erano verificati nel 2020, di questi non si sarebbe dovuto tener conto.
Aggiunge che tali fatti, posti a fondamento del giudizio di persistente pericolosità sociale, non denotavano allarme sociale dovendo essere valutati insieme ad altri comportamenti tenuti dal ricorrente e riportati nelle relazioni carcerarie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso è inammissibile per essere il motivo proposto manifestamente infondato.
1.1. La Corte costituzionale, con sentenza n. 291 del 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 1 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, nonché, in via consequenziale, del subentrato art. 15 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nella parte in cui tali disposizioni non prevedono che – nel caso di sospensione dell’esecuzione di una misura di prevenzione personale a causa dello stato di detenzione, per espiazione di pena, del sottoposto – l’organo giudiziario che ha adottato la misura valuti, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato, al momento della cessata espiazione della pena ed ai fini dell’eventuale nuova applicazione della misura di prevenzione.
Dopo avere ricordato che costituisce “diritto vivente”, da una parte, l’applicabilità delle misure di prevenzione personali a soggetti in stato di detenzione per titolo definitivo “giacché la sola condizione richiesta a tal fine è la pericolosità sociale, da accertare con riferimento al momento in cui viene emessa la decisione che la afferma”, e, dall’altra, l’incompatibilità tra misura di prevenzione personale e stato di detenzione in rapporto alla fase esecutiva, che andrà, dunque, necessariamente differita al momento in cui detto stato sia venuto a cessare, la Consulta ha considerato tale sistema non rispondente ai canoni dell’eguaglianza e della ragionevolezza nel raffronto con quello relativo alle misure di sicurezza, anche esse fondate sulla
pericolosità sociale.
Al riguardo, ha rilevato che tra il modello delle misure di sicurezza, che esige la reiterazione della verifica della pericolosità sociale anche al momento dell’esecuzione, e quello delle misure di prevenzione, che considera sufficiente la verifica operata in fase applicativa, salva l’eventuale iniziativa dell’interessato intesa a contrastarla, è preferibile il primo che tiene conto del dato pacifico che “il decorso di un lungo lasso di tempo incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell’atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile” specie se l’interessato è persona, come il detenuto in espiazione pena definitiva, che, durante tale lasso temporale, è sottoposta ad un trattamento specificamente volto alla sua risocializzazione. Non può trovare ingresso una presunzione, pure solo iuris tantum, di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, insita in un assetto che attribuisca alla verifica della pericolosità operata in fase applicativa una efficacia sine die, salvo che non intervenga una sua vittoriosa contestazione da parte dell’interessato. Ciò che rileva, infatti, anche nel settore delle misure di prevenzione è che la pericolosità sociale sia comunque attuale anche nel momento in cui la misura viene eseguita, “giacché, in caso contrario, le limitazioni della libertà personale nelle quali la misura stessa si sostanzia rimarrebbero carenti di ogni giustificazione”.
Ciò non toglie, conclude, il Giudice delle leggi che resti rimessa all’applicazione giudiziale l’individuazione delle ipotesi nelle quali la reiterata verifica della pericolosità sociale possa essere ragionevolmente omessa, a fronte della brevità del periodo di differimento dell’esecuzione della misura di prevenzione.
Successivamente è intervenuto il legislatore, che ha dettato apposita disciplina di recepimento, novellando, per effetto dell’art. 4, comma 1, legge ottobre 2017, n. 161, l’art. 14 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nel quale sono stati inseriti i commi 2-bis e 2-ter.
Secondo le nuove disposizioni, l’esecuzione della sorveglianza speciale rimane sospesa durante il tempo in cui l’interessato è sottoposto alla misura della custodia cautelare (comma 2-bis) o a detenzione per espiazione di pena (comma 2-ter).
Nel caso di detenzione per espiazione pena ultra-biennale, è necessaria la verifica della attuale pericolosità del proposto ad opera del tribunale, anche d’ufficio. Il tribunale competente deve, ai fini del decidere, assumere le necessarie informazioni presso l’amministrazione penitenziaria e l’autorità di
pubblica sicurezza. Se la pericolosità sociale è cessata, il tribunale emette decreto con cui revoca il provvedimento di applicazione della misura di prevenzione; se, invece, persiste, il tribunale ordina l’esecuzione della misura di prevenzione, il cui termine di durata continua a decorrere dal giorno in cui il decreto stesso è comunicato all’interessato.
Nel sistema delineato dai citati commi 2-bis e 2-ter dell’art. 14 d.lgs. n. 159de1 2011, in attuazione della sentenza della Corte costituzionale n. 291 del 2013, la detenzione di lunga durata determina la sospensione dell’esecuzione della misura di prevenzione. Tale sospensione non cessa automaticamente con la fine della detenzione, ma permane fino a quando il tribunale competente non accerti la persistenza delle pericolosità dell’interessato.
Tenuto conto della ratio della riforma, che è quella di attualizzare periodicamente la valutazione di pericolosità sociale già effettuata in sede di applicazione della misura, in stretta correlazione all’immutata possibilità di disporla, in presenza presupposti, anche nei confronti dei proposti detenuti, il comma 2-ter deve essere interpretato nel senso di imporre la rivalutazione della pericolosità, ai fini dell’efficacia della misura, ogni qual volta il periodo di sospensione dell’esecuzione della sorveglianza speciale, a causa dello stato di detenzione per espiazione pena, abbia superato i due anni.
Come osservato nel provvedimento impugnato, la disposizione ricollega la durata biennale solo alla detenzione patita, come presupposto per la rivalutazione della persistenza della pericolosità, ma non esclude che possano essere valutati ai fini del giudizio prognostico, episodi verificatisi oltre i due anni, come avvenuto nel caso specie.
Ciò che viene in rilievo, infatti, è nuova valutazione tesa a verificare la condizione del soggetto rispetto alla precedente valutazione, trasfusa nella pronuncia del provvedimento applicativo della misura di prevenzione. I poli del confronto sono costituiti, dunque, da due momenti valutativi il primo quello culminato nella pronuncia del provvedimento applicativo della misura, il secondo quello che, decorso un biennio tra la data in cui è stato emesso tale provvedimento e la sua concreta esecuzione, impone al giudice una nuova valutazione.
L’art. 15 del d.lgs. 159 del 2011, nel disciplinare il rapporto tra stato di detenzione (per espiazione pena) ed esecuzione di una misura di prevenzione personale, alla luce dell’intervento additivo della Corte costituzionale n. 291 del 2013, prevede che in caso di detenzione di lunga
durata, lo stato di sospensione della misura non cessi all’atto della fine dell’esecuzione della pena, ma permanga fino a quando il giudice competente non verifichi nuovamente la pericolosità sociale della persona sottoposta alla misura e quest’ultima non gli sia stata notificata.
Pertanto, in tali ipotesi, la nuova verifica da parte del giudice competente, attestante la pericolosità della persona, costituisce una condizione di efficacia della misura di prevenzione (Sez. U, n. 51407 del 21/06/2018, Rv. 273952).
Tale valutazione va fatta – come è stato sottolineato nelle più recenti pronunce – tenendo conto della natura dei reati contestati senza trascurare il concreto atteggiamento del proposto in epoca successiva alla condanna e al periodo di detenzione (Sez. 5, n. 30130 del 15/03/2018, Rv. 273500).
4. A tali criteri si è attenuta la Corte d’appello che ha effettuato una indagine retrospettiva basata sui precedenti penali tenendo doverosamente conto dell’evoluzione della personalità del proposto nel periodo successivo alla carcerazione e durante l’espiazione della pena.
Nella specie, è stato dedotto che gli episodi riferiti ( una lite tra detenuti di cui il ricorrente era l’autore e il danneggiamento del televisore della propria camera), erano da considerarsi espressione di persistente pericolosità sociale poiché evidenziavano una particolare aggressività e incapacità di NOME a controllare gli impulsi anti sociali.
Il giudizio di persistente pericolosità, non è risultato inficiato dal tenore delle relazioni carcerarie del 7/6/2020 e del 17/11/2022, che affermavano che il ricorrente teneva un comportamento corretto poiché comunque si evidenziavano gli episodi sopra riferiti da cui si evinceva la attuale pericolosità sociale ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione.
Nel caso in esame, dunque, la Corte di Appello ha mostrato di valutare attentamente la questione relativa alla attuale pericolosità sociale del ricorrente dopo il periodo di carcerazione sofferto, ritenendo che, comunque, la sua condotta carceraria, non avesse eliso la sua pericolosità sociale.
Ne consegue che la motivazione resa non può definirsi meramente apparente tanto da sconfinare in una violazione di legge, la censura del ricorrente, attenendo, semmai e astrattamente, ad un vizio ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., non deducibile in questa sede posto che per giurisprudenza di questa Corte, qui condivisa, nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell’art. 4 legge 27 dicembre 1956 n. 1423,
richiamato dall’art.3 ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965 n. 575; ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta di cu all’art. 606, comma 1, lette) cod. proc. pen., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dal nono comma del predetto art. 4 legge 1423 del 56, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (Sez.0 n. 33451 del 2014, Repaci; Sez. 6, n. 50946 del 18/09/2014, COGNOME).
Per quanto complessivamente esposto deve dichiararsi inammissibilità del ricorso cui consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 30/4/2024