Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 7424 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 7424 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 06/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME nato a PALERMO il 2/02/1970
avverso l’ordinanza del 18/06/2024 del TRIB. SORVEGLIANZA di TRIESTE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 8 gennaio 2019, il Magistrato di sorveglianza di Sassari aveva unificato le misure di sicurezza della libertà vigilata per la durata di 3 anni, disposta con sentenza della Corte di appello di Palermo del 23 aprile 2004, di condanna di COGNOME a 8 anni di reclusione per rapina aggravata e associazione di tipo mafioso e dell’assegnazione a una casa di lavoro per la durata di 2 anni, disposta con sentenza della Corte di appello di Palermo del 16 luglio 2011, di condanna alla pena di 15 anni e 4 mesi di reclusione per il delitto di associazione mafiosa, commesso dal luglio 2000 al 14 maggio 2009. Le due sentenze erano state riconnprese nel provvedimento di cumulo emesso il 5 dicembre 2014 dalla Procura generale presso la Corte di appello di Palermo dopo che, con l’ordinanza del 3 ottobre 2014, la Corte di appello di Palermo aveva applicato la disciplina del reato continuato in relazione sia ai fatti oggetto delle due condanne citate, sia a quelli oggetto della condanna inflitta dalla Corte di appello di Palermo in data 19 dicembre 2008 alla pena di 5 anni di reclusione per i delitti di associazione per delinquere, estorsione e rapina, questi ultimi aggravati ex art. 7, d.l. n. 152 del 1991. La misura dell’assegnazione ad una casa di lavoro aveva avuto inizio il 26 gennaio 2019, allorché si era conclusa l’esecuzione della pena detentiva.
1.1. Con ordinanza del 14 dicembre 2022 il Magistrato di sorveglianza aveva ritenuto che la pericolosità sociale di Militano fosse ancora attuale e che non fosse ancora fronteggiabile con le prescrizioni della libertà vigilata. Da un lato, infatti, era stato ritenuto che l’osservazione della personalità dovesse proseguire al fine di realizzare un approfondimento critico del vissuto deviante dell’internato; e, dall’altro lato, la richiesta di applicazione della libertà vigilata da eseguirsi in Loreo presso la nipote, necessitava approfondimenti istruttori, che non avrebbero potuto essere esperiti in tempo utile, stante la ravvicinata scadenza della misura.
1.2. Con ordinanza in data 16 maggio 2023, il Tribunale di sorveglianza di Trieste ha rigettato l’appello proposto nell’interesse di NOME COGNOME avverso l’ordinanza del Magistrato di sorveglianza di Udine del 14 dicembre 2022 che ha prorogato per 1 anno la misura di sicurezza della casa di lavoro, con termine al 26 gennaio 2024. Secondo il Collegio, l’incertezza dei tempi necessari a integrare l’incompleta istruttoria sulla richiesta di applicazione della libertà vigilata e l’esigenza di non lasciare scadere il termine della proroga precedente, giustificavano la proroga ulteriore, potendo l’interessato richiedere la revoca anticipata della misura una volta che gli accertamenti fossero stati conclusi. Fermo restando che la decisione su una questione nuova, dedotta per la prima volta in sede di appello, avrebbe violato le garanzie assicurate dal doppio grado di giudizio.
1.3. Con sentenza n. 21018/2024 in data 6 marzo 2024 la Prima Sezione della Corte di cassazione annullò il provvedimento impugnato, rilevando che il Tribunale
di sorveglianza, anziché confermare il provvedimento impugnato per la difficoltà di poter rapidamente integrare l’istruttoria, avrebbe dovuto valutare il contributo argomentativo e documentale offerto dall’interessato e le informazioni acquisibili, anche d’ufficio, ex art. 666, comma 5, cod. proc. pen. Inoltre, il principio del doppio grado di giudizio era stato evocato in modo non avveduto, garantendo esso una doppia valutazione giudiziale sul caso nel suo complesso e non già sulle singole questioni; né tantomeno lo stesso obbligando il giudice di appello a decidere sulla piattaforma probatoria della prima decisione.
1.4. Con ordinanza del 29 novembre 2023, il Magistrato di sorveglianza ritenne non ancora superato il giudizio di pericolosità sociale dell’internato e che la misura di sicurezza della libertà vigilata, da eseguirsi a Loreo presso la nipote, non fosse idonea a contenérla. Dopo avere riepilogato i gravi reati per cui COGNOME è stato condannato e il ruolo direttivo svolto all’interno del dan anche in costanza di detenzione, beneficiando dell’appoggio economico del sodalizio anche durante la restrizione in carcere e anche dopo il 2009, l’ordinanza in parola evidenziò che la dichiarata disaffezione al contesto mafioso appariva solo formale, mentre l’affermazione secondo cui in 22 anni di carcere egli aveva mantenuto contatti soltanto con i familiari era smentita dalla condanna per associazione di tipo mafioso commessa sino al 14 maggio 2009 e non era confermata da comportamenti indicativi di una reale e concreta resipiscenza verso i reati commessi, senza mai esprimere confrontarsi con la condanna anche a significativi risarcimenti dei danni in favore delle parti civili. Inoltre, la libertà vigilata richie non poteva considerarsi idonea, essendo stato indicato, quale domicilio di esecuzione, l’abitazione della nipote, NOME COGNOME, figlia di NOME COGNOME, ·coimputato di Militano, il quale gli aveva conferito il ruolo di esattore delle estorsioni del clan e presentava controindicazioni di carattere logistico, senza che COGNOME avesse mai riferito agli operatori tale circostanza. A ulteriore sostegno della richiesta, il Magistrato di sorveglianza sottolineò che il sodalizio di riferimento di Militano risultava ancora operativo e,a1 cui interno egli aveva, per anni, rivestito il ruolo di uomo di fiducia dei COGNOME, a capo del mandamento dello Zen. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
1.5. Con ordinanza n. 860/24 in data 18 giugno 2024, il Tribunale di sorveglianza di Trieste, in sede di rinvio, ha rigettato l’appello proposto nell’interesse di COGNOME attualmente internato in regime differenziato presso la Casa circondariale di Tolmezzo, avverso le due ordinanze del Magistrato di sorveglianza di Udine in data 16 marzo 2023 e 29 novembre 2023 che, nelle more del primo giudizio di cassazione, aveva prorogato, per un ulteriore anno, la misura di sicurezza della casa di lavoro, con termine 26 gennaio 2025. Nonostante le allegazioni di COGNOME (il quale aveva dedotto che: le condanne che lo riguardavano erano relative a fatti antecedenti al 2009; la sentenza della Corte di appello di Palermo del 16 luglio 2011 aveva riconosciuto il suo ruolo di semplice partecipe
all’associazione mafiosa e non più di vertice all’interno dell’articolazione dello Zen, come riconosciuto dal collaboratore COGNOME ed aveva assolto il figlio, NOME COGNOME, dal reato di associazione mafiosa; non era gravato da procedimenti pendenti e aveva tenuto, all’interno dell’istituto penitenziario, un comportamento corretto, mostrando impegno costante nel lavoro; non aveva subito trattenimenti di missive e i componenti del nucleo familiare non avevano precedenti per appartenenza al gruppo mafioso, né avevano carichi pendenti; non aveva rapporti dal 2008 con il cognato, NOME COGNOME il quale non aveva pendenze giudiziarie e si era reinserito nella società; i nipoti della moglie, NOME COGNOME e NOME COGNOME entrambi incensurati, erano disponibili a ospitarlo), il Tribunale ha ritenuto di confermare il giudizio di pericolosità sociale dell’internato, tale da non consentire la revoca della misura di sicurezza, né la sua sostituzione con la libertà vigilata.
2. NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione avverso il predetto provvedimento per mezzo del difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME deducendo, con un unico motivo di impugnazione, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 203, 208, 216 e 228 cod. pen. In particolare, il ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., che il provvedimento che non si sia adeguato alle indicazioni della sentenza rescindente e che abbia confermato il giudizio di pericolosità sociale di Militano nonostante la regolare condotta carceraria, lo svolgimento lavoro in istituto, l’assenza di pendenze giudiziarie. In particolare, il Tribunale non avrebbe tenuto conto delle positive relazioni del 24 settembre 2020, del 25 giugno 2021, del 20 dicembre 2021, del 25 novembre 2022 e del 16 novembre 2023, le quali avevano riportato che, in caso di revoca della misura, COGNOME intendeva recarsi lontano dal territorio in cui aveva compiuto i reati e che egli «esterna(va) frasi di disapprovazione nei confronti della mafia». Ad onta di ciò, infatti, il Collegio di merito non avrebbe ritenuto sussistente una seria revisione critica, nonostante le diverse attestazioni degli operatori penitenziari e l’affermazione del Magistrato di sorveglianza di Udine nell’ordinanza del 14 dicembre 2022 di una sua diminuita pericolosità sociale, valorizzando esclusivamente eventi precedenti all’applicazione della casa di lavoro, nonché il recente provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Roma che aveva confermato la proroga del regime differenziato, fondata su criteri differenti. Inoltre, l’ordinanza impugnata avrebbe richiamato circostanze non vere in relazione al tenore di vita del nucleo familiare dell’internato, mostrando di non aver approfondito le deduzioni difensive sul punto, secondo cui la sentenza del Tribunale di Palermo del 19 gennaio 2023 aveva assolto la moglie dall’accusa di false attestazioni per ottenere il reddito di cittadinanza e non erano state compiute segnalazioni sui contenuti di corrispondenza e sui colloqui con i Corte di Cassazione – copia non ufficiale
congiunti. Né sarebbe stata valorizzata la decisione di stabilirsi, in caso di applicazione della libertà vigilata, presso l’abitazione della nipote in provincia di Rovigo, luogo lontano da quello del suo passato criminale: proposito sminuito attraverso argomentazioni relative alla dimensione dell’abitazione della nipote e al fatto che la stessa, incensurata come il marito, fosse la figlia di un coimputato di Militano, il quale avrebbe callidamente taciuto tale informazione agli educatori.
In data 3 ottobre 2024 è pervenuta in Cancelleria la requisitoria scritta del Procuratore generale presso questa Corte, con la quale è stata chiesta la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Va premesso che l’art. 207, comma primo, cod. pen. stabilisce che «le misure di sicurezza non possono essere revocate se le persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere socialmente pericolose». A sua volta, la pericolosità sociale va intesa come l’accentuata possibilità di commettere, in futuro, altri reati, tenendo conto non solo della gravità dei fatti-reato commessi, ma anche dei fatti successivi e del comportamento tenuto dal condannato durante, e dopo, l’espiazione della pena. Dunque, il Magistrato di sorveglianza in sede di revisione periodica e il Tribunale, eventualmente adito in sede di appello, devono verificare se persistano le condizioni esistente al tempo dell’accertamento della pericolosità sociale del sottoposto attraverso un giudizio globale che tenga conto dei suoi precedenti penali, di eventuali pendenze giudiziarie, del percorso intramurario, dei risultati dell’osservazione della personalità e del contesto socio-ambientale esterno al carcere (Sez. 1, n. 1027 del 31/10/2018, dep. 2019, Argento, Rv. 274790 – 01).
Tanto premesso, giova rilevare che l’ordinanza emessa in sede di rinvio ha sottolineato come COGNOME sia stato condannato con sentenza della Corte di appello di Palermo del 23 aprile 2004 alla pena di 8 anni di reclusione per i reati di: a) associazione di tipo mafioso, con riconoscimento del ruolo direttivo, sino a luglio 2000, del mandamento di San Lorenzo/NOME COGNOME di Cosa Nostra, su delega dei latitanti NOME e NOME COGNOME; b) concorso in qualità di mandante nella rapina alla Banca NOME COGNOME di Santa Eufemia d’Aspromonte, aggravata dal metodo mafioso ex art. 7, legge n. 203 del 1991, commessa il 12 maggio 2000, finalizzata a procurare fondi da destinare anche ai detenuti. Inoltre, con sentenza della Corte di appello di Palermo del 19 dicembre 2008 egli è stato condannato per: a) associazione a delinquere finalizzata alla commissione di
rapine; b) plurime estorsioni in concorso aggravate ex art. 7, legge n. 203 del 1991, commesse nel 2000, nel 2001 e nel 2002; c) due episodi di rapina in concorso, aggravati ex 7, legge n. 203 del 1991. Con tale sentenza è stato condannato per tentata estorsione, aggravata dal metodo mafioso, anche il cognato, NOME COGNOME, padre di NOME, presso la cui abitazione in Loreo Militano vorrebbe stabilire il proprio domicilio in caso di applicazione alla libertà vigilata. Inoltre, in essa si è dato conto del suo ruolo di reggente del sodalizio dello Zen e che a lui gli affiliati, compreso il cognato, consegnavano il denaro provento delle estorsioni. Inoltre, con sentenza della Corte di appello di Palermo del 17 luglio 2011 COGNOME è stato condannato per associazione mafiosa commessa da luglio 2000 al 14 maggio 2009. Nonostante che all’epoca fosse detenuto, egli era perfettamente a conoscenza delle dinamiche associative, continuava a mantenere i legami con molti sodali e, dal carcere, impartiva direttiva ai familiari (la moglie, il figlio NOME, il cognato NOME COGNOME anch’egli condannato per mafia) sulla gestione degli affari delittuosi, come la destinazione dei proventi estorsivi alle famiglie degli associati, la detenzione di armi, il traffico di stupefacenti, l ideazione di omicidi in danno di mafiosi di gruppi avversi e di una politica delle alleanze con altre famiglie mafiose. Inoltre, la Direzione Antimafia di Roma e di Palermo, la Direzione Investigativa Antimafia e il Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo hanno riferito circa la perdurante operatività dei mandamenti mafiosi di San Lorenzo-NOME COGNOME e di Resuttana, emergente da numerose indagini susseguitesi sino al 2023 (anno dell’operazione cd. Roccaforte) che hanno consentito di ricostruire le attività estorsive in danno di imprenditori e l’attività di sostegno economico ai sodali, anche detenuti, attraverso la distribuzione di proventi delittuosi; e dalle quali è emersa, inoltre, la ricostituzione della Commissione provinciale di Cosa Nostra nel corso di una riunione alla quale aveva partecipato anche NOME COGNOME, figlio di NOME, già strettamente legato a Militano. Quanto al contesto familiare dell’internato, l’ordinanza ha evidenziato che il figlio NOME è stato condannato in via definitiva, nel 2018, per associazione mafiosa, commessa dal gennaio 2012 all’aprile 2015, in quanto partecipe dell’associazione mafiosa Pallavicino-Zen; pena espiata dal giugno 2014 al luglio 2021 e sottoposto, dal febbraio 2022, alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per anni 3 e mesi 6, con segnalazione di violazione delle prescrizioni del novembre 2023. Inoltre, sebbene i familiari risultino, dagli accertamenti del Magistrato di sorveglianza, percettori di redditi esigui e siano da tempo disoccupati o con attività lavorative precarie, l’internato sino al 2022 ha ricevuto soldi da essi, a riprova della circostanza che COGNOME e i suoi familiari hanno continuato a essere assistiti dal clan di riferimento, come avvenuto in passato ad opera della famiglia di Zen-Pallavicino del mandamento di San Lorenzo- Resuttana. Sotto altro profilo, il Tribunale ha Corte di Cassazione – copia non ufficiale
evidenziato che COGNOME risulta ancora sottoposto al regime differenziato ai sensi dell’art. 41-bis Ord. pen., prorogato con decreto del 26 aprile 2023, avverso il quale è stato proposto reclamo, respinto con ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma del 1° dicembre 2023, che ha ritenuto tuttora sussistente il pericolo che COGNOME eserciti il suo ruolo di rilievo nel sodalizio di appartenenza, nel quale è stato inserito stabilmente dagli anni ’90 fino almeno al 2009. Tale circostanza è stata valorizzata dal provvedimento qui impugnato ai fini del giudizio di attuale pericolosità sociale, tenuto conto del fatto che l’internato non ha mostrato, nel corso dell’osservazione, inequivoci segni di resipiscenza e di irreversibile volontà di allontanamento delle logiche criminali proprie dall’organizzazione di provenienza. Pertanto, l’assenza di procedimenti pendenti, la buona condotta e l’espletamento dell’attività lavorativa in carcere non sono stati ritenuti sufficienti ad affermare il venir meno del collegamento tra l’internato e l’organizzazione medesima. In particolare, quanto alle dichiarazioni rese dell’internato nel corso dell’osservazione intramuraria, dall’aggiornamento della relazione di sintesi del novembre 2023 è emerso che COGNOME ha riferito agli operatori: che, da quando è in carcere, ha avuto contatti solo con la famiglia acquisita, ignorando tutto il resto; che due dei coimputati sono morti e che NOME e NOME COGNOME, capi dell’omonimo clan, sono ergastolani; che, essendo da molti anni in carcere, non conosce gli altri; che la mafia gli «fa schifo» e che preferisce «stare lontano» e farsi «una vita nuova». Tuttavia, il Tribunale ha ritenuto che tali affermazioni non fossero indicative di una seria revisione critica e di un effettivo distacco dalla compagine mafiosa. Ciò in quanto l’affermazione secondo cui, in 22 anni di carcere, egli ha mantenuto contatti soltanto con i familiari è stata contradetta dalle risultanze processuali, da cui è emerso che COGNOME, anche in costanza di detenzione, anche grazie ai contatti con i familiari, ha continuato a far parte dell’associazione mafiosa con un ruolo qualificato anche nel corso degli otto anni successivi all’inizio dell’esecuzione della pena. Inoltre, tra i familiari vi è anche il figlio, NOME, condannato perché organico alla cosca Pallavicino-Zen, dal 2012 al 2015, in diretto contatto con il reggente, NOME COGNOME e agendo su sue direttive. Circostanze, queste, che hanno indotto il Collegio di merito a ritenere inattendibili le dichiarazioni rese dall’internato circa la sua reale volontà di distaccarsi dal contesto criminale di appartenenza, tenuto conto della perdurante vitalità dell’associazione di riferimento e del coinvolgimento in tale contesto dei familiari (figlio e cognati). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
A fronte di tale articolata motivazione, che appare .collocarsi entro il perimetro di una fisiologica opinabilità valutativa e non rivela alcun profilo di manifesta illogicità, le odierne censure riproducono, sostanzialmente, argomentazioni già dedotte con l’atto di appello e, dunque, già esaminate dal
Tribunale di sorveglianza, finendo per connotarsi in termini sostanzialmente rivalutativi e, dunque, aspecifici. In altri termini, le osservazioni difensive, lungi dal realizzare una critica puntuale delle cadenze logico-argomentative del provvedimento impugnato, finiscono per sollecitare, in maniera surrettizia, un differente apprezzamento valutativo, denunciando solo apparentemente un errore logico-giuridico della motivazione, in realtà non ravvisabile. E ciò, in particolare, per quanto concerne l’assenza di una prognosi rassicurante rispetto al processo di revisione critica, centrale per poter affermare il sensibile venir meno della pericolosità sociale dell’internato; profilo rispetto al quale la motivazione resa, in particolare alle pagg. 12 e ss., palesa una solida tenuta logica, non scalfita dalle considerazioni difensive svolte dall’odierno ricorso.
Sulla base delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce delta sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3.000,00 euro.
PER QUESTI MOTIVI
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
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Così deciso in data 6 dicembre 2024