Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 14346 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 14346 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 08/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a REGGIO CALABRIA il 29/12/1996
avverso la sentenza del 28/05/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; impugnata;
udito il difensore avvocato COGNOME del foro di REGGIO CALABRIA in difesa di COGNOME NOMECOGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Reggio Calabria confermava la decisione del 13 luglio 2023, con la quale il Tribunale di Locri in composizione monocratica aveva condannato, con rito abbreviato, NOME COGNOME alla pena di un anno e otto mesi di reclusione, in quanto ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 per aver violato, in due occasioni, l’obbligo di soggiorno impostogli con decreto applicativo della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, emesso dal Tribunale di Reggio Calabria in data 22 gennaio 2020 e aggravato con successivo decreto del 9 febbraio 2022.
Nel confutare il primo motivo di appello, la Corte territoriale osservava che il decreto di aggravamento della misura di prevenzione, con la connessa e presupposta valutazione della persistente pericolosità sociale del proposto, risultava emesso in data 9 febbraio 2022, non eccedente il biennio dalla nuova sottoposizione dell’imputato alla misura, ripristinata solo con verbale del 14 giugno 2023, in quanto nel frattempo sospesa per lo stato di detenzione in cui si trovava l’imputato.
Doveva, quindi, disattendersi la prospettazione difensiva secondo cui non sarebbe stato possibile ripristinare de plano la misura di prevenzione in data 14 giugno 2023 senza effettuarsi alcuna rivalutazione della pericolosità sociale.
La Corte di appello confutava anche i residui motivi di gravame, escludendo la possibilità di ravvisare i presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. e per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche a causa della sussistenza di plurimi precedenti della stessa indole documentati a carico dell’imputato.
NOME COGNOME per il tramite del difensore, ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
3.1. Con il primo motivo, si deducono mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
Si rimprovera alla Corte di merito di non aver fornito adeguata risposta ai motivi di gravame, con riferimento,sia alla mancata rivalutazione della pericolosità sociale dopo i periodi di detenzione patiti, che avrebbe dovuto portare all’assoluzione dell’imputato, sia alla mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.; inoltre, il giudice di merito avreb trascurato di valutare la possibilità di inquadrare la condotta ascritta all’imputato nell’alveo dell’errore scusabile.
3.2. Con il secondo motivo, si denuncia la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. con riguardo alla mancata applicazione dell’art. 131-bis
cod. pen., non avendo la Corte territoriale tenuto in debito conto l’episodicità e le circostanze della condotta, sintomatiche di una scarsa offensività del fatto e di una tenue intensità del dolo.
3.3. Con il terzo motivo, si eccepisce la violazione degli artt. 62-bis e 133 cod. pen., avendo i giudici dell’appello negato il riconoscimento delle attenuanti generiche e confermato la sussistenza della recidiva con motivazione di stile.
Il ricorso, in prima battuta destinato alla trattazione davanti alla Settima sezione penale all’udienza del 14 novembre 2024, è stato restituito, in quella sede, per la discussione ordinaria davanti alla Prima sezione penale alla luce dell’intervenuto deposito, in data 17 ottobre 2024, della sentenza n. 162 del 24settembre 2024, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, limitatamente alle parole «se esso si è protratto per almeno due anni».
Il Procuratore generale di questa Corte ha fatto pervenire memoria scritta, richiamata nella discussione orale, disposta su istanza della difesa del ricorrente, con la quale ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Non è superfluo premettere che, in tema di ricorso per cassazione, la pubblicazione in epoca successiva alla presentazione del ricorso di una sentenza della Corte costituzionale di accoglimento, consente al ricorrente di giovarsene, purché con i motivi originari il giudice di legittimità sia stato investi del controllo della motivazione (per tutte, Sez. 6, n. 14995 del 26/03/2014, Lampugnano e altro, Rv. 259358 – 01; con riferimento alla dichiarazione di illegittimità costituzionale intervenuta nelle more del giudizio di rinvio, v. anche Sez. 6, n. 48832 del 25/10/2022, COGNOME, Rv. 284028 – 01).
Va aggiunto che, nel giudizio di cassazione, l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo (Sez. U, n. n. 33040 del 26/02/2015, COGNOME, Rv. 264207 – 01).
Il principio, a fortiori, trova applicazione nei casi, come quello di specie, in cui la declaratoria di incostituzionalità ha investito non il trattament sanzionatorio, ma, a monte, una condizione di efficacia della misura di prevenzione applicata con dirette conseguenze sulla rilevanza penale della sua violazione ai sensi dell’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011 e, quindi, sull’affermazione della responsabilità dell’imputato.
Non vi è dubbio, pertanto, che, nel caso al vaglio, in cui la decisione del Giudice delle leggi è intervenuta in data successiva al deposito del ricorso per cassazione, su un tema comunque dedotto in ricorso, di essa debba tenersi conto ai fini del decidere, previa ovvia verifica della sua rilevanza nella specifica situazione caratterizzante la posizione del ricorrente nel giudizio di merito.
Come accennato, con la sentenza n. 162 del 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, limitatamente alle parole «se esso si è protratto per almeno due anni».
2.1. La decisione si pone nel solco della precedente sentenza della Corte medesima n. 291 del 2013, con la quale l’art. 15 del suddetto decreto legislativo è stato dichiarato illegittimo «nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il próvvedimento di applicazione debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato nel momento dell’esecuzione della misura».
Nel motivare tale decisione, la sentenza n. 291 del 2013 ha osservato che «il decorso di un lungo lasso di tempo incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell’atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile: ma a maggior ragione ciò vale quando si discuta di persona che, durante tale lasso temporale, è sottoposta ad un trattamento specificamente volto alla sua risocializzazione. Se è vero, in effetti, che non può darsi per scontato a priori l’esito positivo di detto trattamento, per quanto lungo esso sia, meno ancora può giustificarsi, sul fronte opposto, una presunzione – sia pure solo iuris tantum di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivale alla negazione della sua stessa funzione: presunzione che risulta, per converso, sostanzialmente insita in un assetto che attribuisca alla verifica della pericolosità operata in fase applicativa una efficacia sine die, salvo che non intervenga una sua vittoriosa contestazione da parte dell’interessato. Ciò, quantunque la pericolosità sociale debba risultare attuale nel momento in cui la misura viene eseguita, giacché, in caso contrario, le limitazioni della libertà personale nelle quali la misura stessa si sostanzia rimarrebbero carenti di ogni giustificazione» (punto 6 del Considerato in diritto).
La pronuncia appena menzionata ha precisato, nella parte conclusiva della motivazione, che sarebbe stata «rimessa all’applicazione giudiziale l’individuazione delle ipotesi nelle quali la reiterazione della verifica della pericolosità sociale potrà essere ragionevolmente omessa, a fronte della brevità del periodo di differimento dell’esecuzione della misura di prevenzione (si pensi al caso limite in cui la pe ona
alla quale la misura è stata applicata si trovi a dover scontare solo pochi giorni di pena detentiva)» (punto 7 del Considerato in diritto).
Nel dichiarato intento di contribuire alla «certezza del diritto», a fronte delle difficoltà emerse nella prassi applicativa riguardo alla più precisa individuazione del periodo di sospensione che impone una reiterazione dell’accertamento della pericolosità, la relazione finale della Commissione ministeriale incaricata di elaborare una proposta di interventi in materia di criminalità organizzata, istituita con decreto del Ministro della giustizia del 10 giugno 2013, propose di fissare con legge la durata di tale periodo, stabilendo la necessità della verifica d’ufficio sulla persistente pericolosità sociale solo qualora la detenzione si fosse protratta per almeno due anni.
2.2. Tale proposta confluì nella legge 17 ottobre 2017, n. 161 (Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate), al cui art. 4, comma 1, si deve l’introduzione nel codice antimafia del comma 2ter dell’art. 14.
2.3. Nella sentenza n. 162 del 2024 la Corte costituzionale ha osservato che la disposizione in parola reintroduce, di fatto, una presunzione di persistente pericolosità laddove la sospensione connessa allo stato di detenzione dell’interessato sia inferiore a due anni e che siffatta soluzione normativa non appare in sintonia con la ratio della sentenza n. 291 del 2013 e con la giurisprudenza formatasi in materia di misure di sicurezza.
2.3.1. La presunzione in parola, secondo il Giudice delle leggi, viola, anzitutto, l’art. 3 Cost., risultando per un verso intrinsecamente irragionevole, e per altro verso foriera di un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla parallela disciplina oggi applicabile alle misure di sicurezza in forza dell’art. 679, comma 1, cod. proc. pen.
Sotto il primo profilo, rileva la sentenza in commento, non vi è, in linea generale, alcuna ragione per ritenere che nell’arco di un intero biennio la personalità di un individuo, e in particolare il suo atteggiamento nei confronti dei valori fondamentali della convivenza civile, non possa subire significative modificazioni, quando si tratti di un individuo detenuto in esecuzione di una pena, e dunque sottoposto a un trattamento che per vincolo costituzionale è finalizzato alla sua rieducazione.
D’altra parte, non v’è alcuna ragione plausibile per giustificare la differente disciplina, sotto questo specifico profilo, delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione essendo le une e le altre «accomunate dalla finalità di controllare la
pericolosità sociale del soggetto che vi è sottoposto (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.6. del Considerato in diritto): pericolosità sociale che, rispetto alle misure di sicurezza, è indiziata da un reato già accertato nel processo penale, ma che pure rispetto alle misure di prevenzione deve essere desunta da indizi relativi a precedenti condotte criminose, riconducibili al novero di quelle elencate nell’art. 4 cod. antimafia.
Esattamente come le misure di sicurezza, inoltre, anche «Me misure di prevenzione personale, sia se applicate dall’autorità amministrativa, sia se adottate dall’autorità giudiziaria, presuppongono l’attualità della pericolosit sociale del destinatario della misura» (sentenza n. 211 del 2022, punto 7.3. del Considerato in diritto), ed anzi sono imperniate su di «un giudizio di persistente pericolosità del soggetto» (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.7.1. del Considerato in diritto). Persistente pericolosità che deve essere puntualmente accertata, anche d’ufficio, nel tempo in cui la misura inizia (o riprende) ad avere esecuzione, dopo essere rimasta sospesa per effetto dello stato detentivo cui era sottoposto l’interessato».
2.3.2. La disposizione censurata, prosegue la sentenza, contrasta anche con l’art. 13 Cost.
Stigmatizza il Giudice delle leggi che la disciplina censurata, diversamente da quanto previsto dalla norma costituzionale, preveda «un meccanismo di tutela giurisdizionale successivo e soltanto eventuale (perché attivabile soltanto su istanza di parte) su un requisito centrale – quello della pericolosità dell’interessato – la cui effettiva e persistente sussistenza al momento dell’esecuzione della misura deve essere considerata, a sua volta, condizione della sua proporzionalità rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati, che la misura di prevenzione persegue. Proporzionalità che costituisce «requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo» (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.7.3. del Considerato in diritto; sulla necessaria proporzionalità di ogni misura dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona, di recente, anche sentenza n. 46 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto).
D’altra parte, la subordinazione della rivalutazione della pericolosità alla richiesta dell’interessato fa ricadere su quest’ultimo gli eventuali ritardi nella decisione del tribunale, restando nel frattempo eseguibile la misura nei suoi confronti, con conseguente indebita limitazione della sua libertà personale al metro dell’art. 13 Cost.».
2.3.3. Infine, conclude la sentenza, la disciplina impugnata contrasta anche con il principio della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 terzo comma, Cost.
Osserva, a tal proposito, la Corte costituzionale:
«Se è vero, infatti, che il successo di un trattamento rieducativo non è mai scontato, la presunzione legislativa in esame muove – come correttamente rileva il rimettente – dal non condivisibile presupposto che un trattamento penitenziario in ipotesi protrattosi fino a due anni sia radicalmente inidoneo a modificare l’attitudine antisociale di chi vi è sottoposto. Se ritenuto corretto, un simil presupposto varrebbe a determinare di per sé l’incompatibilità con l’art. 27, terzo comma, Cost. di tutte le pene detentive di breve durata (sulla non sacrificabilità della funzione rieducativa della pena in favore di ogni altra, pur legittima, funzione della pena, sentenza n. 149 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).
Pur nella consapevolezza dei molti ostacoli di ordine fattuale che si frappongono alla realizzazione dell’obiettivo costituzionalmente imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost., l’ordinamento non può invece che muovere dalla premessa della idoneità anche delle pene detentive di durata non superiore ai due anni a svolgere una funzione rieducativa nei confronti del condannato. Il che impone, per ovvie ragioni di coerenza rispetto a quella premessa, di lasciare aperta la porta a una verifica caso per caso se questo risultato sia stato raggiunto, o se invece persista, nonostante l’avvenuta espiazione della pena, una situazione di pericolosità sociale dell’interessato, che deve ancora essere contrastata mediante l’effettiva esecuzione della misura precedentemente disposta».
2.4. In definitiva, in conseguenza della rimozione, dalla disposizione censurata, dell’inciso «se esso si è protratto per almeno due anni», riferito allo stato di detenzione, il tribunale, per quanto affermato dalla Corte costituzionale, dopo la cessazione dello stato di detenzione «sarà tenuto a verificare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato, con le modalità prescritte dalla disposizione in esame. Sino a tale rivalutazione, la misura di prevenzione in precedenza disposta dovrà considerarsi ancora sospesa, e le prescrizioni con essa imposte non potranno avere effetto nei confronti dell’interessato.
Restando ferma per il tribunale «la possibilità, già prefigurata nella sentenza n. 291 del 2013, di procedere alla rivalutazione della pericolosità dell’interessato in un momento immediatamente antecedente la scarcerazione del destinatario della misura di prevenzione, ovvero di omettere la rivalutazione quando la misura sia stata adottata per la prima volta nell’imminenza di tale
scarcerazione, tenendo conto dell’evoluzione della personalità dell’interessato durante l’esecuzione della pena».
Illustrato l’intervento della Corte costituzionale, va ricordato che, nella vigenza dell’art. 14, comma 2-ter, oggi dichiarato incostituzionale nei limiti di cui si è detto, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che non è configurabile il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, previsto dall’art. 75 del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nei confronti del destinatario di una tale misura, la cui esecuzione sia stata sospesa per effetto di una detenzione di lunga durata, in assenza della rivalutazione dell’attualità e della persistenza della pericolosità sociale, da parte del giudice della prevenzione, al momento della nuova sottoposizione alla misura (Sez. U, n. 51407 del 21/06/2018, M., Rv. 273952 – 01).
Si tratta di principio che, seppure da armonizzare con la decisione della Corte costituzionale n. 162 del 2024, conserva tuttora la sua validità, in quanto resta fermo che «la nuova verifica da parte del giudice competente, attestante la pericolosità della persona, costituisce una condizione di efficacia della misura di prevenzione. In difetto di tale accertamento, non sussiste il reato di cui all’art. 75, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, in quanto non avendo efficacia il provvedimento genetico della misura di prevenzione, non può configurarsi il fatto penalmente rilevante della sua violazione» (Sez. U, n. 51407 del 2018, cit., in motivazione).
In applicazione dei parametri di costituzionalità e di legittimità richiamati, deve affermarsi che, nel caso di specie, non può ritenersi integrata la fattispecie delittuosa ascritta all’imputato.
Risulta, infatti, pacificamente dalla sentenza impugnata:
che COGNOME era stato originariamente sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale per la durata di due anni e sei mesi in forza di decreto emesso dal Tribunale di Reggio Calabria in data 22 gennaio 2020;
che la sottoposizione alla misura era avvenuta in data 27 novembre 2021;
che con successivo decreto del 9 febbraio 2022, il Tribunale di Reggio Calabria aveva esteso la durata della misura di un ulteriore anno;
che, in ragione dello stato di detenzione del COGNOME, la misura veniva sospesa;
che la misura veniva ripristinata con verbale del 14 giugno 2023.
La Corte di merito ha ritenuto, nella sentenza impugnata, che, non essendo decorsi due anni dal momento di emissione del decreto estensivo della durata della misura – coincidente con la sospensione della medesima per lo stato di detenzione del proposto – sino alla data del suo ripristino (14 giugno 2023), non fosse necessaria un’aggiornata valutazione della pericolosità sociale del prop sto.
Tale affermazione, tuttavia, ha perso la sua giuridica validità a seguito dell’intervento del Giudice delle leggi, che ha giudicato, per le ragioni dette,
incostituzionale l’inciso “se esso si è protratto per almeno due anni”, contenuto nell’art. 14, comma
2-ter, d.lgs. n. 159 del 2011.
In tale situazione, essendo mancante la condizione di efficacia della misura di prevenzione (la valutazione aggiornata della pericolosità sociale dell’imputato),
non può configurarsi il fatto penalmente rilevante della sua violazione (art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011).
5.
Da tanto discende l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Così deciso in Roma, 1’8 gennaio 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente