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Pericolosità sociale: motivazione apparente annulla

La Corte di Cassazione ha annullato una decisione della Corte d’Appello che revocava una misura di sorveglianza speciale. Il motivo è la ‘motivazione apparente’, in quanto i giudici non hanno analizzato concretamente le nuove prove sulla pericolosità sociale del soggetto, limitandosi a elencarle. Il caso è stato rinviato per un nuovo esame che valuti se l’individuo viva abitualmente con i proventi di attività illecite.

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Pubblicato il 16 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Pericolosità Sociale: la Cassazione esige una Motivazione Reale, non Apparente

La valutazione della pericolosità sociale è un pilastro fondamentale nel sistema delle misure di prevenzione. Questa valutazione deve basarsi su un’analisi concreta e approfondita degli elementi a disposizione del giudice. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 33689/2024) ha ribadito con forza questo principio, annullando un decreto della Corte d’Appello per ‘motivazione apparente’. La pronuncia sottolinea come non sia sufficiente elencare le prove, ma sia necessario spiegarne la rilevanza nel decidere della libertà di una persona.

Il Caso: Dalla Sorveglianza Speciale all’Annullamento

La vicenda processuale riguarda un individuo a cui era stata applicata la misura della sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno, per una durata di un anno e sei mesi. Il presupposto era la sua ritenuta pericolosità sociale, basata sulla convinzione che vivesse, almeno in parte, con i proventi di attività delittuose, come previsto dal d.lgs. 159/2011.

In un primo momento, la Corte di Cassazione aveva già annullato il provvedimento, ravvisando una carenza probatoria sulla generazione di profitti dai reati contestati. Il caso era stato quindi rinviato alla Corte d’Appello per una nuova valutazione. Nel corso del giudizio di rinvio, la Procura aveva prodotto nuovi elementi volti a dimostrare un’intensa attività criminale del soggetto in un arco temporale definito (2019-2020), con una chiara natura lucrativa.

Nonostante queste nuove produzioni, la Corte d’Appello ha nuovamente annullato la misura di prevenzione. Questa decisione è stata impugnata dal Procuratore Generale, che ha lamentato l’omessa analisi dei nuovi elementi e, di conseguenza, una motivazione assente o meramente apparente.

Il Ruolo dei Nuovi Elementi e la pericolosità sociale

La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso del Procuratore Generale, ha innanzitutto chiarito un punto cruciale dei procedimenti di prevenzione. A differenza del processo penale ordinario, qui vige il principio ‘rebus sic stantibus’: la valutazione sulla pericolosità sociale è sempre aggiornata allo stato dei fatti. Ciò significa che è sempre possibile, anche in appello o in sede di rinvio, utilizzare nuovi elementi probatori, sia preesistenti che sopravvenuti, per rivalutare la pericolosità del soggetto.

Il problema, secondo la Suprema Corte, non era la possibilità di usare le nuove prove, ma il modo in cui la Corte d’Appello le ha ignorate. Il provvedimento impugnato si è limitato a menzionare le nuove produzioni documentali senza però analizzarle nel merito e senza spiegare perché queste non fossero sufficienti a dimostrare che il soggetto vivesse dei proventi di attività illecite.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha definito la struttura argomentativa della Corte d’Appello come ‘soltanto apparente’. Questo vizio, equiparabile alla totale assenza di motivazione, si verifica quando il giudice non si confronta con il contenuto delle prove, lasciando ‘sostanzialmente oscura’ la ragione della sua decisione. Non basta dire che le prove sono insufficienti; bisogna spiegare il perché, analizzando gli elementi a disposizione.

Nel caso specifico, la Corte d’Appello avrebbe dovuto valutare se i reati commessi tra il 2019 e il 2020 (coltivazione di stupefacenti ed estorsione), per loro natura lucrativi, fossero sintomatici di un’abitualità a delinquere finalizzata al profitto. Invece, la decisione è rimasta silente su questo punto cruciale, creando un ‘grave deficit motivazionale’. La Cassazione ha quindi affermato la necessità di un esame concreto del materiale probatorio per superare tale lacuna.

Le conclusioni

La sentenza rappresenta un importante monito per i giudici di merito. L’applicazione o la revoca di una misura di prevenzione, che incide profondamente sulla libertà personale, deve fondarsi su un giudizio di pericolosità sociale supportato da una motivazione effettiva, logica e completa. Non è ammissibile una decisione che eluda il confronto con gli elementi probatori, specialmente quando questi sono stati specificamente introdotti per colmare precedenti lacune istruttorie.

La Corte ha quindi annullato con rinvio la decisione, ordinando alla Corte d’Appello di procedere a un ‘nuovo esame’ che, questa volta, dovrà entrare nel merito degli elementi forniti dalla Procura e spiegare in modo chiaro e argomentato se questi dimostrino o meno che il proposto trae sostentamento abituale da attività criminali.

Quando la motivazione di un provvedimento è considerata ‘apparente’?
Una motivazione è ‘apparente’ quando, pur essendo formalmente presente, è talmente generica, illogica o slegata dagli elementi processuali da non permettere di comprendere il ragionamento seguito dal giudice. Si limita a enunciare le prove senza analizzarle, risultando quindi equiparabile a una totale assenza di motivazione.

Nei procedimenti di prevenzione si possono usare prove nuove in appello?
Sì. La sentenza conferma che, in materia di misure di prevenzione, è possibile utilizzare nuovi elementi probatori, sia preesistenti che sopravvenuti, anche nel giudizio di appello o di rinvio. Questo perché la valutazione della pericolosità è soggetta al principio ‘rebus sic stantibus’, ovvero è sempre aggiornata alla situazione attuale del soggetto.

Cosa si deve dimostrare per applicare la sorveglianza speciale a chi vive di reati?
Per applicare la misura di prevenzione della sorveglianza speciale a chi si presume viva con i proventi di attività delittuose, è necessario dimostrare che i delitti sono commessi abitualmente e che generano effettivamente profitti. Tali profitti devono costituire l’unica fonte di reddito del soggetto o, quantomeno, una sua componente significativa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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