Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 17683 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 17683 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 04/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Gela il 5/1/1967
avverso il decreto emesso il 10/12/2024 dalla Corte d’appello di Caltanissetta;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso,
RITENUTO IN FATTO
Con decreto del 10 dicembre 2024 la Corte d’appello di Caltanissetta ha rigettato l’appello proposto da NOME COGNOME avverso il provvedimento emesso il 3 aprile 2024 dal Tribunale della stessa città, che, riesaminando, ai sensi dell’art. 14 d.lgs. n. 159/2011, la pericolosità del prevenuto a seguito della detenzione subita, l’aveva ritenuta persistente, in considerazione della lunga militanza dell’associazione criminale di tipo mafioso (c.d. stidda gelese), del ruolo di spicco
ricoperto, della operatività attuale della consorteria, della totale mancanza di elementi dai quali desumere la recisione dei rapporti del medesimo con il contesto mafioso di appartenenza e dei rilievi disciplinari, subiti durante la lunga detenzione carceraria.
Avverso il decreto della Corte di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore del prevenuto, che ha dedotto i motivi di seguito indicati.
2.1. Violazione degli artt. 14 e 15 d.lgs. n. 159/2011 in relazione alle sentenze n. 291 del 6 dicembre 2013 della Corte costituzionale e n. 111 del 30 novembre 2017 delle Sezioni unite. Il Collegio territoriale avrebbe trascurato la funzione educativa e risocializzante del periodo di detenzione, subito dal ricorrente, e l’insegnamento di questa Corte, secondo cui la misura di prevenzione non può essere disposta se non si è acquisita la prova certa che il periodo di detenzione non ha esercitato alcun effetto sul condannato, né ha eliminato la sua pericolosità sociale. Il decreto impugnato non avrebbe considerato sia che, all’indomani della scarcerazione, il ricorrente si era dedicato a un onesto lavoro presso una società sia che gli era stata concessa la liberazione anticipata, dimostrativa della sua partecipazione all’opera di rieducazione e riabilitazione.
2.2. Mancata e/o inesatta valutazione della pericolosità sociale specifica in luogo di quella generica. La Corte di appello sarebbe incorsa in errore valutativo, avendo ritenuto il ricorrente soggetto portatore di pericolosità sociale specifica anziché generica ai sensi dell’art. 1, lett. b), d.lgs n. 159 del 2011, considerati recenti reati per cui vi era stata condanna. La menzionata Corte avrebbe omesso, quindi, di valutare se i reati, dei quali era stata provata la commissione, avessero effettivamente generato profitti in capo al ricorrente e se i presunti ricavi costituissero o avessero costituito in una determinata epoca l’unico reddito del soggetto o, quantomeno, una componente significativa di essi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo non rientra tra quelli deducibili.
La legge 17 ottobre 2017 n. 161 ha introdotto nel corpo dell’art. 14 del d.lgs. n. 159 del 2011 i commi 2-bis e 2-ter. Con il comma 2-ter viene previsto che l’esecuzione della sorveglianza speciale resta sospesa durante il tempo in cui l’interessato è sottoposto a detenzione per espiazione di pena; si aggiunge che la verifica della pericolosità avviene ad opera del tribunale, anche d’ufficio, dopo la
cessazione della detenzione protrattasi per almeno due anni. Il tribunale competente deve, ai fini del decidere, assumere le necessarie informazioni presso l’amministrazione penitenziaria e l’autorità di pubblica sicurezza. Se la pericolosità sociale è cessata, il tribunale emette decreto con cui revoca il provvedimento di applicazione della misura di prevenzione; se, invece, persiste, il tribunale ordina l’esecuzione della misura di prevenzione, il cui termine di durata continua a decorrere dal giorno in cui il decreto stesso è comunicato all’interessato.
La riforma, pertanto, nel recepire l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, secondo cui la sorveglianza speciale può essere deliberata anche nei confronti di soggetto ristretto in carcere, ha avallato l’interpretazione delle disposizioni in materia secondo cui la detenzione di lunga durata determina una sospensione dell’esecuzione della misura, che non cessa con la fine della detenzione, ma permane fino a quando il tribunale competente non accerti la persistenza della pericolosità dell’interessato.
Il comma 2-bis prevede, anche, che l’esecuzione della sorveglianza speciale resti sospesa durante il tempo in cui l’interessato è sottoposto alla misura della custodia cautelare. Ma in tale caso, il termine di durata della misura di prevenzione continua a decorrere dal giorno nel quale è cessata la misura cautelare, con redazione di verbale di sottoposizione agli obblighi.
Le nuove norme danno attuazione al contenuto della sentenza della Corte costituzionale n. 291 del 2013, che aveva rilevato che, nella materia delle misure di sicurezza, la verifica della persistenza della pericolosità sociale è imposta dall’art. 679 cod. proc. pen., secondo cui «quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata … ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti». In tale materia, pertanto, la valutazione della pericolosità sociale deve essere effettuata due volte: in un primo momento dal giudice della cognizione, che deve verificarne la sussistenza alla data della pronuncia della sentenza; successivamente, dal magistrato di sorveglianza, che deve verificarne l’attualità quando la misura, già disposta, deve avere inizio.
Valutata l’affinità tra gli istituti delle misure di sFThrezza e di quelle prevenzione, species di un unico genus di strumenti finalizzati a recuperare all’ordinato vivere civile soggetti che manifestano pericolosità sociale, il Giudice delle leggi, con la dichiarazione di incostituzionalità, ha inteso armonizzare le due discipline. Invero il decorso di un rilevante lasso di tempo, tra l’applicazione della misura e la sua esecuzione, sospesa per l’espiazione di una pena, «incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell’atteggiamento del soggetto nei
confronti dei valori della convivenza civile». Infatti, considerata la funzione rieducativa assegnata dalla nostra Costituzione alla pena, «se è vero, in effetti, che non può darsi per scontato a priori l’esito positivo di detto trattamento, per quanto lungo esso sia, meno ancora può giustificarsi, sul fronte opposto, una presunzione – sia pure solo iuris tantum di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivale alla negazione della sua stessa funzione». In sintesi, la Corte costituzionale ha inteso esprimere un monito: se presunzione vi deve essere, essa, dopo l’espiazione di una pena, deve essere intesa come avvenuta risocializzazione del condannato, dal che la necessità di una rinnovata valutazione della sua pericolosità sociale.
2.1. Nel caso in esame, tale rinnovata valutazione è stata correttamente effettuata dai Giudici del merito, che, riesaminando, a seguito della detenzione subita, la pericolosità ex art. 4, lett. a), d.lgs. n. 159/2011 del prevenuto, l’hanno ritenuta persistente, in considerazione della lunga militanza del ricorrente nell’associazione criminale di tipo mafioso (c.d. stidda gelese), del ruolo di spicco ricoperto, della operatività attuale della consorteria, della totale mancanza di elementi dai quali desumere la recisione dei rapporti del medesimo con il contesto mafioso di appartenenza e dei rilievi disciplinari, subiti durante la detenzione carceraria.
A fronte di siffatta motivazione, che non può definirsi apparente tanto da sconfinare in una violazione di legge, va ricordato che la consolidata giurisprudenza di questa Corte afferma che, nel procedimento di prevenzione, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, ai sensi dell’art. 4 L. n. 1423/1956, richiamato dall’art. 3-ter, comma secondo, L. n. 575/1956. Lo stesso prevede anche l’art. 10, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246 – 01; Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, COGNOME, Rv. 270080 – 01).
Ne consegue che sono esclusi dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità quelli di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., potendos esclusivamente denunciare con il ricorso la motivazione inesistente o meramente apparente, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato, imposto al giudice dall’art. 4, comma 9, cit. (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246 – 01; Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, Caliendo, Rv. 270080 – 01).
Nel caso in esame, le censure, formulate dal ricorrente con il primo motivo del ricorso, non sono consentite, atteso che, pur etichettate come violazione di legge, attengono al merito della valutazione operata dalla Corte di appello.
3. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Come già detto, la legge n. 161/2017 ha introdotto l’obbligo del giudice di rivalutare l’attuale pericolosità sociale del soggetto che è stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nell’ipotesi in cui, come nel caso in esame, la misura sia stata sospesa durante il tempo in cui l’interessato è stato sottoposto a detenzione per espiazione di pena.
Tale rivalutazione, alla quale il Tribunale deve procedere “anche di ufficio”, va effettuata “dopo la cessazione dello stato detentivo” e ad essa, per quanto compatibili, si applicano le disposizioni di cui all’art. 7 d.lgs. n. 159/2011, intese a regolare le modalità della procedura, in particolare attraverso la previsione di una udienza che assicuri il contraddittorio tra le parti. All’esito dell’accertamento, secondo quanto espressamente si prevede, il Tribunale può emettere solo due provvedimenti, aventi la forma del decreto: – quello con il quale “ordina l’esecuzione della misura” di prevenzione, nel caso in cui ritenga che persista la pericolosità sociale del soggetto; quello con il quale “revoca” la misura di prevenzione, qualora ritenga “cessata” la pericolosità sociale dell’interessato.
La norma, quindi, non prevede alcun intervento del Tribunale sul contenuto della misura originariamente stabilita nel decreto impositivo, rimasto sospeso a causa dell’intervenuta detenzione.
Ne discende che, contrariamente a quanto sollecitato nel ricorso, il Tribunale non aveva il potere di inquadrare il ricorrente in una categoria diversa da quella indicata nel decreto impositivo della misura.
Al riguardo va ricordato che questa Corte ha già avuto modo di affermare che, in tema di misura di prevenzione della sorveglianza speciale, il procedimento ex art. 14, comma 2-ter, d.lgs. n. 159 del 2011 attribuisce al tribunale il potere di dare esecuzione alla misura ovvero di revocarla, a seconda dell’esito dell’accertamento circa la persistenza della pericolosità sociale compiuto dopo un periodo di detenzione di almeno due anni, ma non consente di modificare parzialmente la misura, anche in relazione al termine di durata, potendo tale modifica essere adottata solo con il procedimento di cui all’art. 11, comma 2, dello stesso decreto durante l’esecuzione della misura e, dunque, anche eventualmente dopo che il procedimento ex art. 14 cit. si sia concluso con un provvedimento che a tale esecuzione abbia dato luogo
(Sez. 2, n. 20954 del 28/02/2020, Malugani, Rv. 279434 – 01).
Ciò, del resto, è in linea con l’intera disciplina dettata in tema di prevenzione.
Si è affermato, infatti, che, anche a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 159/2011, l’invito a comparire, indirizzato alla persona nei cui confronti viene chiesta l’applicazione di una misura di prevenzione, deve essere considerato, al pari del decreto di citazione a giudizio, come uno strumento di contestazione che
ha ad oggetto la forma di pericolosità che si intende porre a base della misura proposta e gli elementi di fatto da cui si pretende di evincerla, sicché deve
contenere, a pena di nullità, l’indicazione non solo della misura, di cui si chiede l’applicazione, ma anche del tipo di pericolosità posta a fondamento della
richiesta. Ne consegue che, una volta esplicitata nella contestazione la natura di pericolosità ravvisata, la stessa non può subire variazioni nel corso del
procedimento, ravvisando, come, invece, richiesto dal ricorrente, l’appartenenza del soggetto ad una categoria diversa da quella prospettata
(Sez. 2, n. 23000 del 20/05/2021, COGNOME Rv. 281457 – 01, in motiv.).
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e – non sussistendo ragioni di
esonero – della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 4 aprile 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente