Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 23974 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 23974 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 14/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME (CODICE_FISCALE nata a Taurianova il 13/06/1975 avverso il decreto del 04/02/2025 della Corte di appello di Reggio Calabria
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso; letta la memoria della difesa di NOME COGNOME, Avvocato NOME COGNOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME per mezzo del patrocinio del difensore, ricorre avverso il decreto della Corte di appello di Reggio Calabria che ha confermato la decisione del Tribunale di Reggio Calabria che aveva applicato la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di Pubblica Sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per la durata di anni due.
La Corte di merito ha confermato il provvedimento del Tribunale, desumendo la pericolosità sociale della Stella di cui alla categoria prevista dall’art. 4, comma 1, lett. c), in relazione all’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011, i
quanto stabilmente dedita alla commissione di reati contro il patrimonio posti in essere in maniera seriale ed ininterrotta a partire dal 2019.
La Corte di appello ha confermato il giudizio in ordine alla pericolosità generica con prognosi infausta di recidiva nei confronti della COGNOME ritenendola abitualmente dedita a reati geneticamente idonei a ricavare un profitto illecito, costituente fonte principale di sostentamento.
Avverso il decreto la ricorrente articola due motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo deduce il difetto di motivazione del provvedimento nella parte in cui omette di fornire risposte in ordine ai rilievi posti nei motivi d gravame, fondando la pericolosità sociale sul generico richiamo al contenuto del casellario giudiziario.
La mancanza di prove in ordine all’esistenza di mezzi di sostentamento in capo alla COGNOME – si assume – non costituisce, ex se, elemento sufficiente a fondare il giudizio di pericolosità sociale.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione dell’art. 606 lett. b) cod. proc. pen. in relazione all’art. 1, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011.
Le conclusioni cui è giunta la Corte di appello sono in contrasto con l’art. 1, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011, tenuto conto che la COGNOME risulta condannata o avere in corso procedimenti relativamente a reati che hanno ad oggetto somme esigue ed inidonee a costituire fonte di sostentamento.
La decisione si pone in contrasto – si deduce – con la sentenza n. 24 del 2019 della Corte Costituzionale che ha chiarito come i “proventi” di attività delittuose debbano essere interpretati nel senso di richiedere la “realizzazione di attività delittuose che siano produttive di reddito illecito” e dalle quali sia scaturita un’effettiva derivazione di profitti illeciti, elemento carente nel caso di specie /in cui non vi è stato alcun accertamento teso ad evidenziare “una sproporzione tra redditi e investimenti realizzati”.
Con memoria del 8 maggio 2025 la difesa della ricorrente ribadisce la fondatezza dei motivi di ricorso chiedendone l’accoglimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, in quanto generico e manifestamente infondato, deve essere dichiarato inammissibile.
Pur deducendo il ricorso vizi di motivazione e violazione di legge, là dove si nega la sussistenza del presupposto della pericolosità della Zito, lo stesso si risolve
in censure generiche rivolte alla motivazione del decreto che ha, invece, dato conto della sussistenza dei presuppostyprevisti dall’art. 4, comma 1, lett. c), in relazione all’art. 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011 rdell’attuale pericolosità sociale della COGNOME che si è ritenuta vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose.
Deve ribadirsi che nel procedimento di prevenzione, secondo quanto prevedeva il disposto dell’art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3-ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, nozione nella quale va ricompresa la motivazione inesistente o meramente apparente del provvedimento che ricorre quando il decreto omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo prospettato da una parte che, singolarmente considerato, sarebbe tale da poter determinare un esito opposto del giudizio (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246; Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, COGNOME, Rv. 270080; Sez. 1, n. 6636 del 07/01/2016, COGNOME, Rv. 266365).
In tal senso depone, altresì, l’attuale art. 10, comma 3, d.lgs. cit. che esplicitamente limita la possibilità di ricorrere per cassazione alla sola violazione di legge. Non è infatti consentito dedurre il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., consistendo il controllo del provvedimento nella verifica della rispondenza degli elementi esaminati ai parametri legali (Sez. 5, n. 19598 del 08/04/2010, Palermo, Rv. 247514).
Seppure il principio in ordine all’attuale pericolosità debba essere rapportato agli esiti della decisione della Corte EDU, COGNOME c/Italia secondo cui élk ( presupposto necessario della misura deve essere ancorato a dati e fatti oggettivi secondo un’interpretazione convenzionalmente orientata (Sez. 2, n. 9517 del 07/02/2018, COGNOME, Rv. 272522), il Collegio ritiene che tale valutazione sia stata effettuata dalla Corte di merito.
3. Come pur messo in evidenza nel ricorso, sulla portata dell’art. 1, comma 1, lett. b), richiamato quale presupposto dall’art. 4, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 159 del 2011, è intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza n. 24 del 2019, vagliando la normativa sotto la lente della necessaria verifica della sussistenza del requisito della tassatività sostanziale, rilevate le carenze in merito e dichiarata incostituzionale la – giudicata deficitaria – disciplina scaturente dal richiamo operato dall’art. 4, comma 1, lett. c), all’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. cit., ha ritenuto invece sufficientemente precisi i contorni della fattispecie descritta dell’art. 1, n. 2), della legge n. 1423 del 1956, confluita nell’art. 1, lett. b), d d.lgs. n. 159 del 2011, là dove l’elaborazione giurisprudenziale che ha delineato l’interpretazione del contenuto consente una ragionevole previsione dei «casi» e
dei «modi» entro i quali poter sottoporre il soggetto alla misura di prevenzione personale e reale.
La Corte delle leggi ha rilevato come la locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» è adeguatamente predeterminata nell’evocazione, non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di loro specifiche “categorie”, così da ritenere soddisfatta, conformemente alle decisioni della Corte europea già valorizzate con la sentenza n. 177 del 1980 della stessa Corte costituzionale, la “individuazione dei «tipi di comportamento» («types of behaviour») assunti a presupposto della misura” (sentenza Corte cost. n. 24 del 2019).
La sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale, nel sintetizzare gli approdi cui era giunta la giurisprudenza di legittimità onde fornire una lettura nomofilattica della categoria individuata dall’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. cit., ha messo in evidenza come sia necessaria la presenza di un “triplice requisito da provarsi sulla base di precisi «elementi di fatto», di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito”.
Premessa, pertanto, l’inammissibilità del primo motivo di ricorso che espressamente deduce preclusi vizi di motivazione, generica e manifestamente infondata si rivela la dedotta violazione dell’art. 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 de 2011.
Con motivazione che non può certo ritenersi assente la Corte di appello ha ripercorso la carriera criminale della COGNOME, evidenziando la pluralità dei reati e le plurime condanne, molte delle quali passate in giudicato; la Corte di appello, dopo aver ripercorso la motivazione alla base del decreto del Tribunale che ha mostrato di condividere, ha evidenziato come le condotte di reato, ininterrottamente poste in essere dal 2019 a 2023, fossero idonee a produrre reddito illecito, apprezzando per ognuna di esse il relativo valore che, di volta in volta, veniva in rilievo e costituiva elemento concreto su cui fondare l’illazione secondo cui la donna fosse abitualmente dedita alla commissione di reati e vivesse abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose.
5. A fronte, pertanto, di palesati profili afferenti ai presupposti di
cui al citato art. 4, comma 1, lett. c), d.lgs. cit., tali da legittimare l’applicazione della misura
della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza con l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza e della previsione di una cauzione di euro 2.000, risulta
manifestamente infondata la censura operata dalla ricorrente (specie nella parte in cui vorrebbe far discendere effetti positivi dalla generica deduzione di esiguità
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di redditi illecitamente prodotti), che si risolve, invero, in una non consentit merito rivolta alla motivazione del provvedimento.
6. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, che si stima adeguata, di euro
tremila in favore della Cassa delle ammende, secondo quanto previsto dall’art.
616, comma 1, cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 14/05/2025.