Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 27704 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 27704 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 14/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME nato a BARI il 29/11/1976
avverso il decreto del 19/11/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME la quale ha chiesto l’annullamento del decreto impugnato, con rinvio al giudice a quo per nuovo giudizio
Ritenuto in fatto
1. Con decreto del 19 novembre 2024, la Corte d’appello di Reggio Calabriasezione Misure di prevenzione ha in parte riformato la decisione del Tribunale, con cui NOME COGNOME era stato sottoposto alla misura personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per anni due e mesi sei, con obbligo di soggiorno nel comune di residenza. Il Tribunale aveva altresì disposto la confisca dei beni, indicati infra; ad avviso del Tribunale, i principali elementi a sostegno della pericolosità sociale qualificata, oltre generica, si desumevano dalle risultanze del procedimento penale cd “Galassia”, in cui il COGNOME veniva rinviato a giudizio quale capo dell’associazione a delinquere, di cui al capo d) della rubrica, avente a oggetto la gestione e la raccolta, sul territorio dello Stato, di puntate su giochi e scommesse attraverso siti non autorizzati, dapprima in totale assenza della concessione e quindi, dal 2015, in parallelo all’attività autorizzata.
La Corte d’appello ha disatteso il giudizio di pericolosità sociale qualificata, formulato dal primo giudice, dato il venir meno dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen., condividendo, invece, il giudizio di pericolosità sociale generica. In particolare, la condanna per il reato associativo, pronunciata dal G.u.p. il 9 luglio 2024, oltre alle condotte delittuose di cui ai capi e), f), g), h) -omessa dichiarazione di reddito ai fini Ires e la truffa ai danni dello Stato- devono ritenersi, secondo i giudici dell’appello, sintomatiche della pericolosità generica contestata al COGNOME Ad avviso della Corte, ulteriori, pregresse condotte del ricorrente (descritte alle pp. 34 e 35 del decreto: due imputazioni e una condanna), aventi come unico denominatore la produzione di profitto illecito, contribuiscono a fondare il giudizio di pericolosità generica.
Tanto premesso, la Corte ha ritenuto mancante il requisito dell’attualità, posto che le condotte sintomatiche di pericolosità sociale si arrestano al 2017 e che, in seguito all’emissione di ordinanza cautelare nel 2018, è seguito lo stato detentivo. Visto l’intervallo temporale rispetto al decreto del Tribunale, emesso il 12 giugno 2023, e data l’assenza di elementi cui ancorare la persistenza della ritenuta pericolosità, la Corte d’appello ha rigettato la richiesta di misura personale della sorveglianza speciale.
È stata invece confermata la misura patrimoniale della confisca di 1) beni e società, indicate in rubrica, tutte con sede in Malta, ma di fatto operanti su territorio statale; 2) due trust, l’RAGIONE_SOCIALE Trust e il RAGIONE_SOCIALE Trust, aventi entrambi, come beneficiari, la moglie del proposto, NOME COGNOME e i due figli, NOME COGNOME e NOME COGNOME; 3) nonché le posizioni finanziarie, analiticamente indicate in rubrica, tra cui conti correnti e polizze assicurative.
In relazione alle società ablate, la Corte d’appello ha ritenuto sussistente sia il requisito della disponibilità delle società (segnatamente, della RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE) in capo al proposto, come dimostrato dagli esiti del menzionato procedimento “RAGIONE_SOCIALE“, sia il requisito della correlazione temporale ovvero dell’acquisizione nel periodo di manifestazione della pericolosità sociale generica.
In riferimento al procedimento “RAGIONE_SOCIALE“, la Corte ha richiamato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME in merito alla riconducibilità delle società RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE, nonché del sito di scommesse “RAGIONE_SOCIALE“, al COGNOME.
Quanto alla correlazione temporale, la Corte ha ritenuto che la costituzione delle tre citate società (nel 2012, 2013 e 2015) ricadesse pienamente nel periodo di manifestazione della pericolosità sociale del proposto, dal momento che il tempo dei delitti di omessa dichiarazione IRES, di cui ai capi e) ed f), è riferito agli anni d’imposta 2013, 2014 e 2016; e il tempo dei delitti di truffa aggravata ai danni dell’erario dello Stato, di cui ai capi g) e h), è riferito agli anni d’imposta 2012, 2013, 2014, 2015 e 2016.
In applicazione dell’art. 24, comma 1, d. Igs. n. 159 del 2011, i giudici della prevenzione hanno ritenuto le società ablate di provenienza illecita; il COGNOME, nello svolgimento dell’attività d’impresa, avrebbe commesso attività delittuose che hanno contaminato di illiceità tutti i ricavi. Secondo i giudici della prevenzione, le condotte illecite accertate nel procedimento “RAGIONE_SOCIALE” avrebbero inquinato l’intero patrimonio aziendale, sicché, in ragione del carattere unitario del bene “azienda” e del sottostante modus operandi che ha contaminato l’intero guadagno, non è stato possibile differenziare l’apporto di componenti lecite da quello imputabile alle condotte illecite.
Quanto ai due trust, la Corte territoriale ha disatteso la tesi difensiva per cui vi sarebbe stato un effettivo trasferimento dei beni dal Ricci al trustee (nella specie, la RAGIONE_SOCIALE) e ha evidenziato la riconducibilità al proposto delle società che, a vario titolo, hanno partecipato alla costituzione e/o al finanziamento dei trust. La Corte ha condiviso la prospettazione accusatoria circa la fittizietà ovvero l’intento fraudolento dei trust, non ravvisando elementi idonei a sostenere l’estraneità del proposto rispetto alla disponibilità dei beni oggetto dei trust.
Infine, è stata confermata la confisca dei conti correnti intestati al COGNOME e alla di lui moglie, accesi presso Sparkasse e Bank of Valletta, avendo la Corte condiviso la tesi del primo giudice della prevenzione circa la natura di reimpiego di beni illeciti.
Avverso il decreto della Corte d’appello, ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME per il tramite del proprio difensore, Avv. NOME COGNOME affidando le proprie censure ai due motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, si duole di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 1, 4 e 24 d. 1gs. n. 259 del 2011 (d’ora in poi C.a.m), per avere la Corte d’appello valorizzato procedimenti penali, afferenti agli anni 19951996 e 2003-2007, definiti con declaratorie di prescrizione e di proscioglimento nel merito, e, ciò, al solo scopo di proiettare a ritroso nel tempo l’indimostrata pericolosità generica del COGNOME e di colpire cespiti patrimoniali acquisiti dal ricorrente in epoca antecedente al procedimento “RAGIONE_SOCIALE” (che ha avuto a oggetto condotte commesse tra il 2013 e il 2017), l’unico cui è conseguita pronuncia di condanna, peraltro con pena sospesa; ciò che implicherebbe, a parere della difesa, l’assenza di pericolosità del condannato.
Tale approccio valutativo si è tradotto nella violazione di una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata del giudizio di prevenzione, che impone, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte, di non tener conto di fatti non accertati in sede penale.
È palese, inoltre, 1) lo sfasamento temporale tra le condotte oggetto di incriminazione penale evidenziate dalla Corte e le acquisizioni patrimoniali oggetto di confisca di prevenzione; 2) l’assenza di congruenza quantitativa tra i profitti conseguiti e il valore dei beni confiscati, richiesta dall’art. 24 del C.a.m.
2.2 Col secondo motivo, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 24, comma 1, d. 1gs. n. 259 del 2011. Con motivazione meramente apparente, la Corte ha del tutto pretermesso il riscontro documentale costituito dalla consulenza di parte, a firma del COGNOME, che attestava la legittimità della provvista di capitale (euro 1.471.528) impiegata per la costituzione, 1’8 marzo 2013, dell’RAGIONE_SOCIALE Trust, nonché la sentenza del giudice svizzero del 19 dicembre 2012, che disponeva un indennizzo in favore del ricorrente, la cui somma transitava interamente presso la RAGIONE_SOCIALE, trustee del predetto trust. La pronuncia dell’autorità svizzera dimostra 1) la preesistenza della provvista (2012) rispetto al dies a quo (2013) del sorgere dell’asserita pericolosità sociale del Ricci e dell’acquisto (2013-2014) delle quattro società del gruppo riconducibile alla RAGIONE_SOCIALE; 2) la provenienza non inquinata da attività illecite della provvista di euro 1.471.528, precedente la costituzione delle quattro società.
La motivazione è asseverativa, là dove sostiene la natura simulatoria del trust in ambito familiare e illogica, perché non considera come l’effetto caratteristico del Trust sia quello di privare il disponente di quanto conferito nel trust stesso.
Inoltre, le dichiarazioni del Cefai avevano evidenziato che l’accrescimento del fondo si era realizzato con metodi leciti (v. p. 26 ricorso) e al di fuori di aree di influenza del COGNOME. L’Atomic trust ha avuto quale unica finalità quella di garantire ai figli del ricorrente e alla moglie, da cui egli si separava nel 2006 e che aveva in affidamento la prole, un fondo patrimoniale adeguato alle loro necessità di vita.
La motivazione è basata su congetture anche per quel che concerne il RAGIONE_SOCIALE Trust, in cui sono confluite, nel 2018, le plusvalenze realizzate sul portafoglio dell’RAGIONE_SOCIALE Trust; anche in tal caso, i movimenti finanziari attestano che la provenienza dei fondi è sganciata dalle condotte coincidenti col procedimento “Galassia” (2013-2017). La decisione impugnata contrasta palesemente con le risultanze – che risalgono fino al 1996- del prospetto elaborato dalla GdF, da cui emerge l’insussistenza della sproporzione tra i beni ablati e il reddito dichiarato dal COGNOME. La Corte non ha considerato che lo standard dimostrativo richiesto dall’art. 24 C.a.m. non può appiattirsi su un giudizio di mera verosimiglianza, richiedendosi bensì la prova certa in ordine alla sproporzione tra beni patrimoniali e capacità reddituali.
Infine, l’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen. ha dimostrato che le società del proposto non si inserivano in un sodalizio di natura mafiosa; ciò avrebbe imposto alla Corte un maggior scrupolo motivazionale nel determinare la misura in cui il patrimonio delle società sia stato effettivamente contaminato da apporti di capitale illecito. Peraltro, come ricordato nel medesimo provvedimento impugnato, dopo il 2015, la RAGIONE_SOCIALE aderiva alla procedura di regolarizzazione sanando le posizioni di 98 punti attivi in Italia nella raccolta delle scommesse. Anche tale elemento avrebbe imposto alla Corte di operare dei distinguo tra beni realizzati con capitali derivanti da profitti illeciti e beni sottrat a una siffatta provenienza, per poi circoscrivere l’intervento ablatorio alla sola componente eventualmente anomala del compendio societario e dei beni del COGNOME.
Sono pervenute le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME la quale ha chiesto l’annullamento del decreto impugnato, con rinvio al giudice a quo per nuovo giudizio.
Considerato in diritto
Il ricorso è fondato, per le ragioni di seguito illustrate.
Il primo motivo è fondato e assorbe le restanti doglianze.
Ritiene il Collegio che la Corte d’appello non abbia correttamente applicato al caso in scrutinio i principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, alla stregua dei quali «in tema di misure di prevenzione, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, le “categorie di delitto” legittimanti l’applicazione di una misura fondata sul giudizio di c.d. pericolosità generica, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011, devono presentare il triplice requisito – da ancorare a precisi elementi di fatto, di cui il giudice di merito deve rendere adeguatamente conto in motivazione – per cui deve trattarsi di delitti commessi abitualmente, ossia in un significativo arco temporale, che abbiano effettivamente generato profitti in capo al proposto e che costituiscano, o abbiano costituito in una determinata epoca, l’unica, o quantomeno, una rilevante fonte di reddito per il medesimo. (Sez. 5, n. 182 del 30/11/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280145 – 03).
I “precisi elementi di fatto”, richiamati dal citato principio, cui necessariamente deve ancorarsi il giudizio di pericolosità c.d. generica, non risultano adeguatamente evidenziati nel decreto impugnato, in particolare con riguardo ai tre procedimenti penali (1/1995 presso il Tribunale di Bari, 14398/2002 presso il Tribunale di Bari, 43937 Tribunale di Roma) citati dalla Corte territoriale alle pagg. 34 e 35 del gravato provvedimento. Coglie nel segno, a tal riguardo, il ricorrente, nel dolersi della valorizzazione, operata dalla Corte d’appello, di procedimenti penali, afferenti agli anni 1995-1996 e 2003-2007, in relazione ai quali è stata pronunciata 1) sentenza di non luogo a procedere per non aver commesso il fatto, del 4 marzo 2022, nel procedimento 1/1995, per fatti risalenti al 1995-1996; 2) sentenza di condanna, del 9 aprile 2010, nel procedimento 14398/2002, per fatti del 2003; 3) sentenza di non luogo a procedere per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, per fatti commessi tra il 2003 e il 2007.
Per quel che ha riguardo alla pronuncia indicata sub 1), deve ricordarsi il principio di diritto in base al quale «l’accertamento negativo contenuto in una sentenza irrevocabile di assoluzione impedisce di assumere una determinata condotta come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità sociale» (Sez. 6, n. 49750 del 04/07/2019, COGNOME, Rv. 277438 – 02). La motivazione del decreto impugnato si limita a evidenziare che il giudice del merito statuiva essere le condotte imputate al COGNOME verosimilmente inquadrabili in fattispecie di truffa. Al riguardo, è sufficiente ribadire che la constatazione di condotte genericamente indicative della propensione al delitto – per le quali, peraltro, nel caso in scrutinio era intervenuta pronuncia di non luogo a procedere per non aver commesso il fatto – non è sufficiente a basare il giudizio di pericolosità sociale del soggetto proposto per l’applicazione della confisca di prevenzione ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett.
a) e b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. A tal fine, «il giudice della prevenzione deve individuare il momento iniziale della suddetta pericolosità, al fine di sostenerne la correlazione con l’acquisto dei beni, sulla base non della constatazione di condotte genericamente indicative della propensione al delitto, ma dell’apprezzamento di condotte delittuose corrispondenti al tipo criminologico della norma che intende applicare, individuando il momento in cui le stesse abbiano raggiunto consistenza e abitualità tali da consentire, già all’epoca, l’applicazione della misura di prevenzione» (Sez. 1, n. 43826 del 19/04/2018, R., Rv. 273976 – 01).
Per quel che concerne la decisione indicata sub 3), se è vero che «il giudice della prevenzione può ritenere la riconducibilità del proposto ad una delle categorie di pericolosità di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, anche indipendentemente dall’esistenza di sentenze di condanna che abbiano accertato la pregressa commissione di reati, a condizione che la valutazione incidentale a tal fine compiuta non sia smentita da esiti assolutori di eventuali procedimenti penali, eccezion fatta per il caso in cui tali esiti siano dipesi dal riconoscimento di cause estintive (Sez. 1, n. 36080 del 11/09/2020, COGNOME, Rv. 280207 – 01, corsivo nostro), è anche vero che, «nondimeno, il giudice non può basare il suo accertamento su meri sospetti, ma è tenuto a prendere in considerazione fatti storicamente apprezzabili, l’efficacia dimostrativa dei quali deve essere più elevata in relazione alla pericolosità cd. generica, con la conseguenza che la riconduzione del proposto ad una delle categorie di questa non può essere fondata su semplici informazioni contenute nelle banche dati in uso alle forze di polizia non accompagnate da aggiornamenti in ordine ai relativi sviluppi procedimentali».
Il principio ora enunciato impone, dunque, al giudice della prevenzione un surplus d’impegno motivazionale che, nel caso in esame, avrebbe dovuto tradursi in una più precisa indicazione dei modi attraverso cui le condotte, al tempo (20032007) sub iudice, si erano rivelate causa di profitti illeciti, costituenti una fonte significativa di reddito.
Infine, relativamente alla sentenza di cui sub 2), la condanna intervenuta per contrabbando di cellulari attiene a un delitto commesso nel 2003.
Non può, allora, non condividersi l’eccezione difensiva che insiste (in relazione sia alla sentenza di condanna di cui sub 3), sia alle altre due sentenze) sullo sfasamento temporale tra le condotte oggetto di incriminazione penale evidenziate dalla Corte e le acquisizioni patrimoniali oggetto di confisca di prevenzione.
Alla stregua delle coordinate tracciate da Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262605 – 01, coglie nel segno la doglianza difensiva concernente il difetto di perimetrazione cronologica tra manifestazione della pericolosità e acquisizione dei beni confiscati. Invero, è la stessa Corte d’appello a
chiarire che le società confiscate sono state costituite a partire dall’anno 2012; e coeva è stata la costituzione dei due trust.
Dunque, il ragionamento dei giudici della prevenzione appare corretto fin dove si valorizza la condanna, intervenuta il 9 luglio 2024, per il reato di associazione, di cui al capo d), oggetto del procedimento cd. Galassia, per fatti commessi tra il 2012 e il 2018 (retrodatabili, secondo i giudici della prevenzione, di almeno un biennio: v. p. 16 decreto impugnato). Ma, per i cespiti patrimoniali acquisiti dal ricorrente in epoca (1995-1996 e 2003-2007) antecedente al procedimento “Galassia”, si condividono le notazioni difensive circa l’illegittima proiezione a ritroso nel tempo della pericolosità generica del COGNOME.
In definitiva, del triplice requisito richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte affinché il giudizio di pericolosità sociale sia correttamente reso (v. suora, Sez. 5, COGNOME, Rv. 280145 – 03, cit.), la Corte tratteggia la sussistenza del primo, quello dell’abitualità, posto che, almeno dal 1995 a 2018, le decisioni richiamate dai giudici d’appello della prevenzione danno conto di un significativo arco temporale in cui le condotte illecite sono state attuate. Ma la connessione tra le condotte oggetto dei tre procedimenti indicati e il ricavo di profitti illeciti che il proposto avrebbe indirizzato nella costituzione di società, trust e beni confiscati con procedimento de quo, nonché la dimostrazione che il COGNOME abbia vissuto, in tutto o in parte, coi proventi delle illecite attività, non può dirsi dimostrato.
Benché la motivazione sia chiara nel sottolineare a) che la misura ablativa è stata giustificata non sulla base della sproporzione, bensì su quella della natura illecita delle risorse reimpiegate nella gestione dell’attività d’impresa, e b) che, in ragione del carattere unitario del bene “azienda”, non è stato possibile sceverare l’apporto di componenti lecite da quello imputabile a condotte illecite, ciò, a parere del Collegio, non basta a fondare un percorso dimostrativo, invece necessario, in ordine alla pericolosità generica, idoneo a giustificare la conferma del sequestro dei beni del proposto.
È certamente vero, come più volte sottolineato da questa Corte, che, in tema di pericolosità generica, la sistematica condotta di evasione fiscale, di rilievo penale, (contestata al proposto, insieme al delitto di la truffa ai danni dello Stato, sub capi e), f), g), h) e la conseguente immissione di capitali di provenienza non lecita in un complesso aziendale – che comporta l’impossibilità di scindere tra eventuali componenti sane, riferibili ad attività imprenditoriale lecita, e apporto di capitali illeciti – rappresenta un elemento rilevanti al fine dell’inquadramento di una persona nella categoria di cui all’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Sez. 2, n. 3883 del 19/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278679 02). Al giudice della prevenzione, infatti, non è richiesto, come si è precisato in più occasioni, che egli accerti in modo specifico la entità del profitto correlato a
ogni condotta delittuosa, sì da trasformare la confisca di prevenzione in una tipologia di confisca latamente «pertinenziale» (con limitazione dell’ablazione al
valore dei beni corrispondenti al profitto illecito ricavabile dalle condotte delittuose), posto che, una volta stabilita anche la semplice «incidenza»
(componente significativa della redditività nel periodo considerato, secondo le indicazioni di Corte cost., sent. n.24 del 2019) del reddito illecito sul mantenimento
del tenore di vita, soccorre, ai fini di individuazione dei beni confiscabili, il presupposto concorrente della «sproporzione» tra redditi leciti e valore degli
investimenti realizzati nel periodo.
In altri termini, la confisca di prevenzione non ha natura strettamente’
pertinenziale e la constatazione delle reiterate attività illecite, unitamente al parametro della sproporzione, consente – sul piano logico – di ipotizzare che la
formazione del patrimonio non giustificato abbia derivazione da attività illecite similari (anche ulteriori rispetto a quelle espressamente censite). Ciò perché la
«sproporzione» di valori, come chiarito in più arresti di questa Corte di legittimità
(v. da ultimo Sez. 1, n. 15617 del 2020, n.m.) e dalla stessa Corte costituzionale nella decisione n. 24 del 2019, altro non è che una «semplificazione probatoria» consentita dal sistema, rispetto all’accertamento ‘pieno’ del nesso di derivazione tra attività illecita, censita in sede di ricognizione della pericolosità, e impiego delle risorse in tal modo prodotte.
Fatta salva l’importanza di tali precisazioni, si è già illustrato il motivo per cui il decreto impugnato non dà adeguatamente conto di quel nesso di derivazione tra attività illecite e impiego delle risorse in tal modo prodotte.
Peraltro, nel decreto impugnato non emerge una chiara distinzione tra i dati rivelatori di pericolosità lucro-genetica di cui alla sentenza resa nella cd. operazione Galassia e i dati specificamente esaminati analizzando il primo motivo di ricorso, nel senso che resta inesplorata, ai fini della perimetrazione cronologica dell’illiceità dei beni prodotti dalle attività assunte come rivelatrici di pericolosità negli ultimi anni, la sufficienza di queste ultime a giustificare, al netto delle precedenti e risalenti attività attribuite al COGNOME, la indispensabile correlazione con le acquisizioni dei beni oggetto di confisca.
Tanto comporta l’assorbimento del secondo motivo di ricorso.
P. Q. M.
Annulla il provvedimento impugnato con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Reggio Calabria in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 14/07/2025
Il consigliere estensore
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