Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 28916 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 28916 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a NAPOLI il 14/02/1956
avverso l’ordinanza del 14/02/2025 del TRIB. SORVEGLIANZA di MILANO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del PG COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di sorveglianza di Milano rigettava l’appello avverso il provvedimento con il quale il Magistrato di sorveglianza di Milano aveva disposto, nei confronti di NOME COGNOME, sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis Ord. pen., la proroga della misura di sicurezza detentiva dell’assegnazione a una casa di lavoro per un anno.
In via preliminare, il Tribunale di sorveglianza osservava che l’intervenuta adozione dell’ordinanza di proroga dell’assegnazione alla casa di lavoro in data successiva all’originaria scadenza non ne inficiava la legittimità né consentiva di qualificare lo stato attuale come detenzione sine titulo.
A tal proposito, richiamava il principio giurisprudenziale (citando Sez. 1, n. 51660 del 2018) secondo cui “la durata dalla misura di sicurezza deve intendersi riferita, in conformità al combinato disposto degli artt. 203 e 208 cod. pen., al suo periodo minimo, al quale non si correla nessuna automatica sopravvenuta inefficacia, restando la vigenza della misura comunque correlata alla rivalutazione di pericolosità…”.
La scadenza del termine minimo, dunque, non determinava la cessazione dell’esecuzione della misura di sicurezza, che, invece, durava fino al provvedimento di revoca.
Escludeva, in secondo luogo, il Tribunale che, in sede di appello avverso la proroga della misura di sicurezza, potessero introdursi argomentazioni critiche avverso il decreto di proroga del regime differenziato di cui all’art. 41-bis Ord. pen.
Nel merito, il giudice dell’appello confermava la valutazione di quello di prima istanza in termini di attualità della pericolosità sociale del COGNOME, mutuando il contenuto del decreto ministeriale di proroga del regime differenziato, che faceva leva sulla caratura criminale del predetto, già condannato per reati gravissimi ed elemento apicale di un’organizzazione criminale ancora attiva sul territorio, e sull’assenza di indicatori atti ad escludere la sua capacità di tenere collegamenti con il sodalizio di appartenenza.
Nella fase di appello, proseguiva il Tribunale, non erano stati acquisiti elementi che inducessero a reputare almeno avviato, da parte dell’appellante, un percorso di resipiscenza e, soprattutto, di definitiva rottura dei legami derivanti dalla partecipazione a una consorteria criminale fondata sulla solidarietà dei suoi componenti.
Inoltre, andava rilevata la negativa condotta carceraria tenuta dal COGNOME, destinatario, sia nella Casa circondariale di Tolmezzo che nella Casa di reclusione di Opera, di numerosi rapporti disciplinari per atteggiamenti offensivi
e molesti nei confronti di compagni e inosservanza di ordini, tutti sanzionati dal direttore o dal Consiglio di disciplina.
In conclusione, la pericolosità sociale dell’appellante doveva considerarsi tuttora persistente e, per la inaffidabilità e incapacità di autocontrollo del suddetto, non poteva accogliersi neppure l’istanza subordinata di applicazione della libertà vigilata.
Ha proposto ricorso per cassazione l’interessato, per il tramite del difensore, sviluppando sei motivi.
2.1. Con il primo motivo, si eccepisce il vizio di motivazione per avere i giudici di merito basato la valutazione di attuale pericolosità sociale del COGNOME “tenendo in pressoché esclusiva considerazione il decreto ministeriale di proroga del regime di cui all’art. 41-bis 0.P.”.
Si contesta, in particolare, che il Tribunale di sorveglianza abbia tenuto conto, motivando per relationem al decreto ministeriale, di sentenze emesse dal G.i.p. del Tribunale di Napoli nei confronti di altre persone, a dimostrazione dell’operatività del cartello camorristico della c.d. “Alleanza di Secondigliano”, che, però, non indicavano quale ruolo avrebbe o avrebbe avuto il BOCCH ETTI, detenuto da 30 anni.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione per avere il Tribunale di sorveglianza tenuto “in primaria considerazione” sanzioni disciplinari riportate dal ricorrente in carcere dal 2005 a oggi, senza menzionare i periodi di liberazione anticipata concessigli e le relazioni comportamentali pervenute dall’istituto di Milano-Opera.
Le sanzioni, fra l’altro, riguardavano illeciti di modesto allarme sociale, costituiti, per lo più, da passaggi di generi alimentari da una cella all’altra o dall partecipazione a proteste pacifiche per il mancato rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti.
Di contro, al detenuto era stata concessa la liberazione anticipata riferita al semestre 7 settembre 2022 – 6 marzo 2023, beneficio sul quale, evidentemente, non avevano influito le sanzioni disciplinari citate.
Il Tribunale, infine, non aveva considerato la relazione comportamentale aggiornata al 22 novembre 2023 del carcere di Opera, che dava atto dell’adeguatezza del detenuto rispetto al contesto e agli operatori e dell’adozione da parte del medesimo di modalità corrette e rispettose dei ruoli.
2.3. Con il terzo motivo, si deduce erronea applicazione della legge penale per avere il Tribunale omesso di valutare i criteri fissati dall’art. 133 cod. pen., così come prescritto dall’art. 203 cod. pen.
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I giudici di merito, in particolare, non avrebbero tenuto conto: a) del notevole lasso di tempo trascorso dalla commissione dei fatti; b) della buona condotta susseguente al reato (provata dalla concessione della liberazione anticipata); c) delle condizioni di vita della famiglia COGNOME, ormai residente stabilmente in Spagna, in un contesto, quindi, avulso da quello in cui vennero commessi i delitti oggetto di condanna del COGNOME; d) della natura di mera ripetizione – “o meglio di proroga fotocopia” – del decreto di proroga del regime ex art. 41-bis Ord. pen.
Inoltre, il Magistrato di sorveglianza aveva fatto riferimento a un provvedimento cautelare adottato il 23 ottobre 2023 dal G.i.p. del Tribunale di Napoli per un omicidio risalente al 6 febbraio 1991 in ambito di procedimento definito con sentenza di non doversi procedere nei confronti del COGNOME
Tali statuizioni non sarebbero state smentite dal Tribunale di sorveglianza nonostante specifica doglianza sul punto.
2.4. Con il quarto motivo, si denuncia, ancora, vizio di motivazione per non avere il Tribunale ravvisato la violazione dell’art. 7 CEDU, costituendo la misura di sicurezza della casa di lavoro una vera e propria pena aggiuntiva rispetto a quella espiata per i reati oggetto di condanna.
2.5. Con il quinto motivo, si eccepisce mancanza della motivazione per l’assenza di riferimento, in essa, alle condizioni di salute e all’età avanzata del ricorrente, nato nel 1956.
Il difensore del ricorrente si duole, in particolare, del silenzio del Tribunale su una situazione di salute (artrosi ed ernie discali, implicanti la necessità di strumenti ortopedico-sanitari per evitare ulteriori danni alla colonna vertebrale) già rappresentata in sede di reclamo ex art. 35-bis, accolto dal Magistrato di sorveglianza e tuttavia non eseguito, nemmeno a seguito di giudizio di ottemperanza accolto.
Le delicate condizioni di salute del COGNOME, unitamente all’età avanzata, avrebbero dovuto indurre i Magistrati a optare per una misura non detentiva come la libertà vigilata.
2.6. Con il sesto e ultimo motivo, si contesta omessa motivazione sulla dedotta incompatibilità tra il regime detentivo speciale e la misura di sicurezza della casa di lavoro, oggetto del terzo motivo di appello.
La sentenza n. 197/2021 della Corte costituzionale, intervenuta sul punto, non convince il difensore, che, però, al contempo, denuncia che nel caso di specie sarebbe stata disattesa, poiché al COGNOME non sarebbe stato, in concreto, garantito il lavoro.
In ogni caso, il Tribunale, sul punto, sarebbe rimasto totalmente silente.
Il Procuratore generale di questa Corte, nella sua articolata requisitoria scritta, ha concluso per la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso va rigettato, perché, nel complesso, infondato.
Occorre rammentare che, agli effetti penali, la pericolosità sociale, rilevante ai fini dell’applicazione di una misura di sicurezza, consiste nel pericolo di commissione di nuovi reati e deve essere valutata dal giudice alla luce dei rilievi sulla personalità e sulla capacità criminale del condannato e di ogni altro parametro desumibile dall’art. 133 cod. pen. (Sez. 3, n. 6596 del 23/01/2023, M., Rv. 284142 – 01; Sez. 1, n. 24725 del 27/5/2008, Nocerino, Rv. 240808 – 01).
In proposito, la giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato che, al fine di accertare l’attuale pericolosità o la persistenza della pericolosità del soggetto, nel momento in cui deve essere applicata o prorogata una misura di sicurezza (art. 203 cod. pen.), il giudice deve tenere conto non solo della gravità del fatto reato, ma anche dei fatti successivi, come il comportamento durante l’espiazione della pena, quale risultante dalle relazioni comportamentali e dall’eventuale concessione di benefici penitenziari o processuali (Sez. 2, n. 14704 del 22/04/2020, Bekaj, Rv. 279408 – 05; Sez. 1, n. 8242 del 27/11/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274918 – 01; Sez. 1, n. 24179 del 19/5/2010, COGNOME, Rv. 247986 – 01).
È stato, inoltre, precisato che il regime penitenziario previsto dall’art. 41-bis Ord. pen. è applicabile anche agli internati ai quali sia stata applicata una misura di sicurezza detentiva, potendo ricorrere, nei confronti di costoro, le medesime esigenze tutelate con la sottoposizione a regime differenziato dei detenuti in esecuzione di una pena (Sez. 1, n. 10619 del 27/11/2017, Nobis, Rv. 272310 – 01).
3.1. Su quest’ultimo tema, va detto per inciso, è intervenuta, con una sentenza interpretativa di rigetto (n. 197 del 21 settembre 2021), la Corte costituzionale, che, nel dichiarare infondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2 e 2-quater, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), in riferimento agli artt. 3, 25, 27 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, sollevate da questa Prima sezione penale con ordinanza n. 30408/2020, ha, comunque, consolidato sul piano sistematico una rete di principi garantistici già da essa elaborati che involgono tematiche delicate attorno alla sempre attuale questione della compatibilità del regime speciale di cui all’art. 41bis Ord. pen. con l’assetto costituzionale e convenzionale.
Per quel che qui interessa, va evidenziato che, secondo il Giudice delle leggi, anche la pur “obbligatoria” applicazione del corredo prescrizionale previsto ex lege non può sottrarsi – pena il contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. – alla concreta modulazione in rapporto alle effettive esigenze preventive del singolo caso e deve, comunque, conservare all’esecuzione tanto della pena quanto della misura di sicurezza una connotazione risocializzante.
Venendo allo “statuto differenziale” degli internati, la Corte ha rilevato giovandosi dell’esegesi letterale – che la disposizione dell’art. 41-bis, comma 2quater, Ord. pen. (che si apre con un riferimento esclusivo ai “detenuti”, a differenza di altri commi contenuti nella medesima norma, in cui detenuti e internati compaiono sempre menzionati insieme) non possa ritenersi, quanto alle misure che possono essere imposte, integralmente applicabile agli internati quali “necessari destinatari” delle stesse.
Agli internati sono, pertanto, applicabili le sole restrizioni effettivamente necessarie, in concreto, per il soddisfacimento delle esigenze di ordine e sicurezza pubblica, alla luce dei criteri di proporzionalità e congruità, in un contesto che preservi, nel resto, la finalità risocializzante del trattamento.
Evidentemente ben conscia delle difficoltà pratiche connesse alla traduzione operativa dei criteri direttivi enunciati, la Corte costituzionale ha ravvisato l’opportunità di qualche esemplificazione: nel caso di internati assegnati ad una casa di lavoro, le restrizioni del regime differenziale dovranno tener conto dell’esigenza di organizzare un programma di lavoro; quest’ultima dovrà adattarsi alle restrizioni, strettamente necessarie, della socialità e della possibilità di movimento nella sezione. E ancora: dovranno identificarsi attività professionali “compatibili con gli effettivi spazi di socialità e mobilità a disposizione degli internati soggetti al regime differenziale”, modulando, altresì, la limitazione della permanenza all’aperto.
Tanto si è precisato per apprezzare, in primo luogo, l’inconferenza e la palese infondatezza dell’ultimo motivo di ricorso, con cui si è denunciata l’omessa motivazione, da parte del Tribunale di sorveglianza, sulla dedotta incompatibilità tra il regime detentivo speciale e la misura di sicurezza della casa di lavoro.
E infatti, trattasi di un tema che non viene affatto in considerazione nel caso di specie, atteso che l’oggetto del presente procedimento non è l’applicazione del regime differenziato di cui all’art. 41-bis Ord. pen., ma la persistente valutazione di pericolosità del condannato ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza.
Per le medesime ragioni non possono essere valutate, nella presente sede, censure avverso il provvedimento di proroga del regime differenziato adottato nei confronti del ricorrente.
Ciò posto, osserva il Collegio che il giudizio di persistenza della pericolosità sociale formulato dal Tribunale di sorveglianza di Milano nel ratificare la proroga della misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro, disposta nei confronti dell’internato in regime di cui all’art. 41-bis Ord. pen., è stato adeguatamente motivato, tanto da non essere scalfito dai rilievi dedotti con i primi tre connessi motivi di ricorso.
Il Tribunale, infatti, ha considerato il vissuto antigiuridico del COGNOME e la notevole gravità che lo ha caratterizzato (condotta anteatta, costellata di condanne per reati associativi e omicidio), ma non ha mancato di valutare, in pari tempo, la condotta successiva del condannato, compresa quella inerente al contesto inframurario, caratterizzata dalla contestazione di plurime infrazioni disciplinari, tutte sanzionate, per atteggiamenti offensivi e molesti nei confronti di altri detenuti e inosservanza di ordini.
Ed è proprio con riguardo al comportamento serbato nel corso dell’espiazione della pena che, secondo il conforme e non illogico avviso dei giudici di sorveglianza, sono affiorati i limiti del percorso risocializzante che il COGNOME avrebbe dovuto compiere e che, invece, non risultava neppure avere significativamente avviato.
D’altro canto, il Tribunale ha correttamente giudicato irrilevanti, per il loro carattere “neutro”, il decorso del tempo dai fatti e la presenza della moglie e dei figli in Spagna, a fronte dell’accertata persistente operatività del gruppo camorrista in seno al quale COGNOME aveva rivestito un ruolo apicale, come attestato dalle informative provenienti dalla D.D.A. e dalla D.N.A.A.
Non erano, in definitiva, emersi elementi capaci di dimostrare il pieno e rassicurante affrancamento del condannato dalla sua pregressa condizione e il conseguente contenimento della sua pericolosità sociale.
A fronte della articolazione, congrua e logica, del discorso giustificativo, le doglianze sviluppate dalla difesa si caratterizzano per un confronto solo parziale con il provvedimento impugnato.
In particolare, i riferimenti operati a singoli momenti partecipativi a cui il COGNOME ha avuto accesso nel corso dell’esperienza in istituto non si misurano con la valutazione della complessiva carenza di adesione, da parte del detenuto, all’attività rieducativa, caratterizzata, come detto poc’anzi, dalla sostanziale assenza di revisione critica dell’esperienza deviante e sfociata nella (sola) concessione della liberazione anticipata, che, come noto, non equivale a presa d’atto di piena risocializzazione.
Non risultano dedotte in sede di appello, e sono perciò inammissibili, le censure, articolate con il quinto motivo, inerenti alla mancata considerazione dell’età, ritenuta “avanzata”, del ricorrente (peraltro non ancora settantenne) e delle sue condizioni di salute, che però, per come prospettato dallo stesso difensore, non si porrebbero neppure in termini di incompatibilità col regime detentivo.
6. Manifestamente infondato in diritto, infine, è il quarto motivo di ricorso, con il quale si lamenta l’irrogazione di una misura di sicurezza detentiva, considerata dalla difesa alla stregua di una “vera e propria pena aggiuntiva”, in contrasto con l’art. 7 della CEDU.
Sul punto, è sufficiente richiamare, per quel che qui interessa, Sez. 1, n. 50458 del 16/05/2017, COGNOME, Rv. 271549 – 01 (in seguito ribadita dalla recente Sez. 1, n. 22268 del 18/04/2024, COGNOME, non mass.), che ha dichiarato «manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 25 e 117 Cost., quest’ultimo in rapporto agli artt. 5 e 7 CEDU, della disciplina delle misure di sicurezza personali, sotto il profilo della sostanziale duplicazione della pena detentiva, attesa l’ontologica differenza tra le misure di sicurezza, che si connotano per la perspicua funzione special-preventiva, volta ad evitare il riacutizzarsi delle spinte a delinquere di un soggetto socialmente pericolo resosi autore di un fatto di reato o di un fatto dalla legge allo stesso equiparato, e la pena, avente finalità anche retributive e special-preventive».
Nella individuazione del presupposto oggettivo della pericolosità sociale è stata ravvisata la garanzia della esclusione di impieghi arbitrari della misura di sicurezza, essendo richiesto il preventivo accertamento della commissione di un reato e, in seguito, la verifica sulla scorta degli indici di cui all’art. 133 cod. pen della prognosi di «difesa preventiva», proiettata sul futuro: ciò alla stregua delle garanzie procedimentali oggi assicurate dagli artt. 666, comma 3, 678, comma 1 e 679 cod. proc. pen. come risultanti successivamente alla sentenza della Corte costituzionale n. 135 del 2014 che ha stabilito il diritto degli interessati di chiedere lo svolgimento del procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza nelle forme dell’udienza pubblica (v. sul punto Sez. 1, n. 22268 del 2024, cit.).
Per le esposte considerazioni, il ricorso va, in conclusione, rigettato, dal
7.
che consegue ex lege
la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 14 maggio 2025
Il Consigliere estensore