Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 15720 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 15720 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 02/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a GUARDAVALLE il 28/09/1975
avverso l’ordinanza del 15/01/2025 del TRIB. RAGIONE_SOCIALE di MILANO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del PG, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 15 gennaio 2025, il Tribunale di Milano ha respinto l’appello proposto nell’interesse di NOME COGNOME avverso l’ordinanza (in data 13 novembre 2024) con la quale la Corte di appello di Milano ha respinto la richiesta di sostituire con gli arresti domiciliari la misura cautelare della custodi in carcere, applicata a COGNOME per violazioni degli artt. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 e 416 bis.1 cod. pen. commesse in epoca compresa tra il mese di settembre 2020 e il mese di aprile del 2021. L’istanza di attenuazione della misura, proposta il 7 novembre 2024, indicava quale luogo di esecuzione degli arresti domiciliari l’abitazione sita in Arluno (MI), INDIRIZZO e, subordine, altra abitazione sita in Sommariva del Bosco (CN) INDIRIZZO
Contro l’ordinanza del Tribunale il difensore dell’indagato ha proposto tempestivo ricorso. Il ricorrente lamenta violazione dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., come modificato dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, e degli artt. 274 e 299 cod. proc. pen. Lamenta, inoltre, vizi di motivazione quanto alla ritenuta attualità e concretezza delle esigenze cautelari e alla proporzionalità e adeguatezza della misura.
Osserva in proposito:
che il Tribunale ha erroneamente invocato il giudicato cautelare formatosi con riferimento ad altra istanza di attenuazione della misura custodiale (respinta con ordinanza del 19 luglio 2024), ignorando l’elemento di novità contenuto nella nuova istanza rappresentato dalla indicazione di un luogo di esecuzione degli arresti domiciliari «al di fuori del contesto territoriale in cui sarebbero maturat fatti» e omettendo di valutare se questo dato «unitamente agli altri oggetto di devoluzione» fosse idoneo a determinare «un affievolimento delle esigenze cautelari»;
che il Tribunale si è limitato a confermare la necessità della custodia in carcere senza valutare se la presunzione di pericolosità di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. fosse scalfita dal ridimensionamento dell’originaria accusa (da associazione finalizzata al narcotraffico a concorso in delitti di spaccio aggravati ai sensi dell’art. 416 bis.1 cod. pen.), dal ristretto orizzonte temporale degli episodi per i quali vi è stata affermazione di penale responsabilità, dall’interruzione dei rapporti tra il ricorrente e la famiglia COGNOME (accertata da giudici di merito) e dalla documentata possibilità di eseguire gli arresti domiciliar al di fuori del contesto territoriale in cui sarebbero maturati i fatti oggetto provvedimento cautelare;
che il Tribunale ha ritenuto un concreto e persistente pericolo di
reiterazione di reati invocando il contenuto di intercettazioni che precedono l’applicazione della misura senza tenere conto del sopravvenuto contenzioso tra COGNOME e la famiglia COGNOME;
che tale contenzioso ha determinato, nei primi mesi del 2024, l’irrimediabile e volontaria interruzione dei rapporti del ricorrente con quell famiglia e questa circostanza consente di ritenere che le esigenze cautelari siano «contenibili con la misura degli arresti domiciliari al di fuori del contes territoriale in cui sono maturati i fatti»;
che l’ipotizzata collaborazione con NOME COGNOME (cui l’ordinanza impugnata fa riferimento a pag. 14) «non è mai stata confermata da alcuna emergenza ricavabile dalla sentenza di condanna» (la sentenza è allegata all’atto di ricorso).
In sintesi, secondo la difesa, il Tribunale di Milano avrebbe dovuto precisare perché il pericolo di reiterazione di reati sarebbe da ritenere «plausibile, concreto ed attuale» anche applicando gli arresti domiciliari in una regione diversa, «nonostante l’assoluzione per la fattispecie associativa, nonostante l’epoca dei fatti, nonostante l’interruzione insanabile e volontaria dei rapporti tra il ricorre e la famiglia COGNOME».
Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
NOME NOME COGNOME è sottoposto a misura cautelare custodiale a far data dal 22 novembre 2022. La misura, originariamente disposta per violazioni degli artt. 74 e 73 d.P.R. n. 309/90, è attualmente in corso di esecuzione soltanto per violazioni degli artt. 73 d.P.R. 309/90 e 416 bis.1 cod. pen. e per il reato di cui agli artt. 378 e 416 bis.1 cod. pen. contestato al capo 88) dell’imputazione.
Con sentenza del 14 novembre 2023, all’esito di giudizio abbreviato, COGNOME è stato assolto dal reato associativo e dai reati che gli erano stati contestati ai capi 46) e 64) dell’imputazione (artt. 73 d.P.R. n. 309/90 e 416 bis.1 cod. pen.). Quella stessa sentenza lo ha ritenuto responsabile di altri reati per i quali la misura cautelare era stata disposta condannandolo alla pena di anni sette, mesi sei, giorni dieci di reclusione ed C 23.200 di multa. In particolare COGNOME è stato ritenuto responsabile di continuate violazioni degli artt. 73 d.P.R
n. 309/90 e 416 bis.1 cod. pen. commesse tra il 20 settembre 2020 e il 16 aprile 2021 e di una violazione degli artt. 378, commi 1 e 2, 416 bis.1 cod. peri., contestata al capo 88) della rubrica, commessa il 10 aprile 2021. La sentenza di primo grado è stata confermata dalla Corte di appello di Milano in data 30 ottobre 2024.
Risulta dagli atti che il 19 luglio 2024 l’imputato chiese la sostituzione della custodia in carcere e l’applicazione degli arresti domiciliari. L’istanza fu avanzata sostenendo che l’assoluzione dal reato associativo consentiva di valutare attenuate le esigenze cautelari, che la presunzione di esclusiva idoneità e proporzionalità della custodia in carcere era ormai assistita soltanto dalla ritenuta sussistenza della aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen. e che le risultanze processuali (in specie l’interruzione dei rapporti con la famiglia COGNOME e la lontananza nel tempo dell’ultimo fatto penalmente rilevante) consentivano di escludere un concreto pericolo di reiterazione di reati. Il provvedimento di rigetto fu confermato dal Tribunale per il riesame di Milano con ordinanza n. 1266/24 del 7 febbraio 2024 che non fu impugnata dalla difesa.
Con l’ordinanza oggetto del presente ricorso il Tribunale ha richiamato il contenuto del proprio precedente provvedimento, ma non può dirsi che abbia invocato la preclusione endoprocessuale del giudicato cautelare. Nel richiamare il contenuto del proprio provvedimento precedente, infatti, il Tribunale lo ha fatto proprio e ha sostenuto che le valutazioni compiute nel febbraio 2024 dovevano essere confermate non essendo stati addotti dalla difesa nuovi argomenti capaci di superare la presunzione di esclusiva adeguatezza della misura inframuraria.
La difesa si duole che, nel compiere tale valutazione, il Tribunale non abbia argomentato in termini espliciti sull’elemento di novità rappresentato dalla acquisita disponibilità di un immobile in una regione diversa dalla Lombardia e in un luogo distante da quello nel quale furono compiute le illecite attività per le quali la misura cautelare è stata disposta. Non considera, tuttavia, che il provvedimento impugnato (pag. 13 della motivazione) ha escluso in radice che possa essere formulata nei confronti di COGNOME «la prognosi di affidabilità necessaria per l’applicazione di una qualunque misura gradata, ivi compresi gli arresti domiciliari con l’applicazione dei più stringenti divieti e delle più cogen prescrizioni» e ha motivato questa conclusione osservando: in primo luogo, che (come emerso nel corso delle indagini) «molte delle condotte oggetto di addebito sono state commesse dal COGNOME in concorso con soggetti che, all’epoca del fatto, erano sottoposti a misura alternativa alla detenzione (come i Bandiera)»; in secondo luogo, che, nel periodo oggetto di imputazione, COGNOME intrattenne
rapporti ed ebbe contatti di natura illecita «con soggetti che, all’epoca, erano sottoposti agli arresti domíciliari (ad esempio NOME)».
Così argomentando il Tribunale ha sostenuto che, nel caso di specie, l’inadeguatezza di una misura diversa da quella custodiale non fosse conseguente (o non fosse conseguente soltanto) alla presunzione relativa di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., ma fosse documentata in concreto (con evidente impossibilità di ritenere superata tale presunzione), dalla spregiudicatezza dimostrata da COGNOME nel rapportarsi con persone sottoposte a provvedimenti restrittivi non custodiali. Secondo il Tribunale, la personalità dell’imputato e il comportamento che egli ha tenuto nel periodo cui si riferiscono i fatti oggetto di imputazione, dimostrano che la misura degli arresti domiciliari è comunque inadeguata a fini cautelari. Lo è, dunque, indipendentemente dal luogo nel quale si trova l’abitazione nella quale la misura dovrebbe essere disposta.
Il ricorso non si confronta con questa motivazione. Sostiene, infatti, che la presunzione di esclusiva adeguatezza della cautela inframuraria sarebbe vinta dalla irrimediabile e volontaria interruzione dei rapporti del ricorrente con la famiglia COGNOME e dalla acquisita disponibilità di un immobile in provincia di Cuneo, ma non contesta che, in corso di indagini, COGNOME abbia intrattenuto rapporti con persone sottoposte agli arresti domiciliari concordando con loro attività illecite e neppure sostiene che la motivazione sia contraddittoria o illogica quando desume da questo comportamento che COGNOME è avvezzo a non attribuire concreta efficacia deterrente agli arresti domiciliari e, di conseguenza, non è possibile fare affidamento sul rispetto da parte sua delle prescrizioni connesse.
4. Alle considerazioni svolte si deve aggiungere che – come il Tribunale ha sottolineato richiamando le motivazioni sviluppate nell’ordinanza n. 1266/24 e facendole proprie – nel periodo oggetto di indagine COGNOME non intratteneva affari illeciti soltanto con la famiglia COGNOME, ma usufruiva di altri canali di approvvigionamento. Tra questi il Tribunale non si limita a citare NOME COGNOME, la cui collaborazione con COGNOME, in tesi difensiva, non sarebbe «confermata da alcuna emergenza ricavabile dalla sentenza di condanna» (pag. 6 dell’atto di ricorso). Richiama infatti (pag. 11 dell’ordinanza impugnata), i «riferimenti contenuti nelle conversazioni alle attività compiute da COGNOME con “NOME” e “NOME“» e sottolinea che il pericolo di reiterazione criminosa non è da riferire «solo ed esclusivamente ai reati per come accertati nel corso del procedimento»; non deve essere riferito, dunque, ai soli reati commessi in cooperazione con la famiglia COGNOME, ma può riferirsi ad altri reati, espressivi delle medesime modalità di azione e offensivi del medesimo bene giuridico.
Si tratta di argomentazioni congrue, scevre da profili di contraddittorietà o manifesta illogicità e conformi ai principi di diritto che regolano la materia. Com’è stato affermato, infatti, «in tema di esigenze cautelari, il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie non va inteso come pericolo di reiterazione dello stesso fatto reato, atteso che l’oggetto del “periculum” è la reiterazione di astratti reati della stessa specie e non del concreto fatto reato oggetto di contestazione» (Sez. 5, n. 70 del 24/09/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274403; Sez. 6, n. 47887 del 25/09/2019, I., Rv. 277392; Sez. 5, n. 52301 del 14/07/2016, COGNOME, Rv. 268444).
Secondo il Tribunale, inoltre (pag. 12 della motivazione), dal contenuto delle intercettazioni emerge «l’assoluta caratura criminale» di COGNOME e dei soggetti che a lui si contrapposero nell’aprile 2024 (NOME COGNOME e NOME COGNOME), sicché l’interruzione dei rapporti con la famiglia COGNOME non consente di ritenere COGNOME ormai estraneo all’ambiente dello spaccio e privo di canali di smercio e di approvvigionamento. L’ordinanza impugnata sottolinea a tal fine che, essendo stato definitivamente condannato il 14 aprile 2017 per una violazione della legge in materia di stupefacenti – ed avendo subito per questo fatto privazione della libertà personale – nel settembre 2020 (ad appena tre anni dalla definitività della pronuncia) COGNOME aveva già avviato le attività illecite delle quali è gravemente indiziato (e per le quali ha riportato condanna in primo e in secondo grado), attività che si svolgevano «con continuità e per quantitativi di un certo rilievo». Sottolinea, inoltre, che come emerso «dagli esiti delle verifiche compiute sui dati del traffico telefonico», le attività di monitoraggio degli indagati intervennero quando i rapporti di collaborazione tra gli indagati erano già instaurati (pag.11 della motivazione).
Con queste argomentazioni il ricorso non si confronta. Si limita infatti a sostenere che l’interruzione dei rapporti tra il ricorrente e la famiglia COGNOME la lontananza nel tempo degli addebiti e i precedenti penali risalenti nel tempo avrebbero imposto di valutare se gli arresti domiciliari in un luogo lontano da quello nel quale si tennero le condotte oggetto di imputazione potessero essere adeguati a fini cautelari e si duole che l’ordinanza impugnata non abbia fatto esplicito riferimento al luogo di esecuzione della misura.
Come già illustrato, però, il Tribunale non era tenuto ad argomentare su questo specifico punto avendo escluso la possibilità di formulare nei confronti di Carioti «la prognosi di affidabilità necessaria per l’applicazione di una qualunque misura gradata». A queste conclusioni il Tribunale è giunto perché ha valorizzato la personalità dell’imputato, i suoi documentati rapporti illeciti con persone sottoposte a misura cautelare non detentiva, la dimostrata disponibilità (continuativa e costante) di quantità non minime di sostanza stupefacente. Non
è illogico né contradittorio aver desunto da questi elementi che, nel caso concreto, la presunzione di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere non
fosse superata e aver ritenuto che l’inaffidabilità dimostrata dall’odier ricorrente rendesse comunque inidonea a fini cautelari qualsiasi misura gradata,
ovunque eseguita, anche se presidiata da «stringenti divieti» e «cogenti prescrizioni».
5. Per quanto esposto il ricorso è infondato. Ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94
comma
1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 2 aprile 2025
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Il Consigliere estensore
Il Presi nte