Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 8932 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 8932 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 08/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a TERMOLI il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 18/09/2023 del Tribunale del riesame di Milano udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
sentite le conclusioni del PG NOME COGNOME: il Proc. Gen. si riporta alla requisitoria depositata e conclude per il rigetto del ricorso;
uditi i difensori, avvocati NOME COGNOME del foro di MILANO e NOME COGNOME del foro di ROMA, che si riportano ai motivi del ricorso e insistono per l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza impugnata il Tribunale del riesame di Milano ha rigettato l’appello proposto da NOME COGNOME nei confronti dell’ordinanza con la quale il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Milano ha respinto la richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere, disposta nei confronti dell’imputato e mai sino ad oggi eseguita.
La misura cautelare, una prima volta negata dal Giudice per le indagini preliminari, era stata disposta a seguito dell’accoglimento dell’appello proposto dal Pubblico ministero: l’ordinanza che aveva accolto l’appello era stata oggetto di ricorso per cassazione, dichiarato inammissibile con sentenza n. 11722 del 10/01/2023 di questa Sezione.
La vicenda, inquadrata giuridicamente nello schema di cui all’art. 185 d. Igs. n. 58/1998 e contestata come avvenuta in Milano tra l’aprile 2017 e il 27/02/2019, prende le mosse dall’emissione di due prestiti obbligazionari da parte della RAGIONE_SOCIALE e della sua controllata (società quotata) RAGIONE_SOCIALE (di seguito RAGIONE_SOCIALE), prestiti sottoscritti dalla RAGIONE_SOCIALE (di seguito Bis) – che poi mutò la denominazione in RAGIONE_SOCIALE – amministrata dal COGNOME. Ciò sarebbe avvenuto nonostante l’impossibilità da parte di NOME di assicurare l’esborso finanziario; a garanzia dei prestiti, fu sottoscritto un accordo, secondo cui avrebbero dovuto essere depositate milioni di azioni NOME appartenenti ad NOME, su di un conto a quest’ultima intestato, presso l’intermediario NOME; in realtà, le azioni erano state depositate su di un conto intestato alla RAGIONE_SOCIALE, società intermediaria di RAGIONE_SOCIALE, dal quale, dopo una serie di aggressive negoziazioni sul mercato azionario, venivano trasferite, in parte, alla RAGIONE_SOCIALE – che ne restituiva quaranta milioni ad NOME tramite la RAGIONE_SOCIALE, anch’essa riconducibile al COGNOME – e, nella parte restante, venivano alienate.
Il precedente ricorso per cassazione lamentava vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento alla ritenuta sussistenza del pericolo di reiterazione di reati della stessa specie. Nondimeno, con motivi aggiunti erano state portate all’attenzione della Corte ulteriori doglianze che muovevano dalla ritenuta modifica di elementi essenziali della fattispecie nella contestazione mossa dal Pubblico ministero nell’ambito dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari rispetto a quella provvisoriamente formulata ai fini della richiesta cautelare.
Sullo specifico punto, la Corte di cassazione aveva ritenuto trattarsi di motivi inammissibili ed inediti ed aveva evidenziato che «ogni eventuale modifica del
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quadro afferente il compendio indiziario ed il profilo delle esigenze cautelari non può che essere posto a fondamento di una richiesta formulata ai sensi dell’art. 299 cod. proc. pen., indirizzata al giudice che procede».
Nella presente sede si discute, per l’appunto, dell’appello presentato avverso l’ordinanza di rigetto della richiesta ex art. 299 cod. proc. pen.
Il ricorso per cassazione del COGNOME, presentato a mezzo degli avvocati COGNOME e COGNOME, si fonda sui motivi di seguito enunciati negli stretti limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Il primo motivo deduce il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. invocando la nullità prevista dall’art. 178, comma 1 lett. c) in relazione alla violazione degli artt. 127 e 310 cod. proc. pen.
La questione attiene al decreto di latitanza del COGNOME che, pur emesso il 19 maggio 2023, sarebbe stato trasmesso al Tribunale del riesame il 14 settembre 2023 e quindi solo quattro giorni prima rispetto all’udienza. Sarebbe stato dunque violato il termine di cinque giorni previsto dall’art. 127, comma 2, cod. proc. pen. e nondimeno il Tribunale del riesame avrebbe utilizzato il decreto di latitanza ai fini della decisione, fondando su di esso la motivazione inerente il pericolo di fuga.
Aggiunge il ricorrente che sia il Pubblico ministero, nel parere reso sulla richiesta ex art. 299 cod. proc. pen., sia il Giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza del 16 giugno 2023 che ha respinto la richiesta, si sono riferiti al COGNOME come “latitante”, ma ciò senza che il decreto di latitanza e gli esiti delle ricerche ad esso prodromiche fossero stati portati a conoscenza della difesa o inseriti nel fascicolo, tanto che nell’incipit dell’ordinanza del G.i.p. si dava ancora atto dell’elezione di domicilio del COGNOME presso il difensore.
Nell’udienza dinanzi al Tribunale del riesame la difesa è stata informata dell’esistenza di un decreto di latitanza, tuttavia non messo a sua disposizione, sicché non è stato nemmeno chiesto un termine a difesa per esaminare un provvedimento non presente nel fascicolo. Ne deriva che il primo momento utile per far valere la nullità sarebbe ravvisabile nel ricorso per cassazione.
2.2. Il secondo motivo deduce vizio di motivazione in merito alla ritenuta sussistenza del pericolo di fuga.
L’ordinanza impugnata non si è preoccupata di verificare l’effettiva sussistenza dei presupposti che, ai sensi dell’art. 296 cod. proc. pen., potevano giustificare il decreto di latitanza. Ricorda il ricorrente che il mero mancato rintraccio della persona nei cui confronti è emessa ordinanza cautelare non implica automaticamente la volontaria sottrazione all’esecuzione della misura
(Sez. U, n. 18822/2014) e che non sussiste alcun obbligo di consegnarsi, spettando invece alla polizia giudiziaria curare gli adempimenti esecutivi della misura, ovunque il destinatario si trovi e, dunque, anche nel caso in cui egli sia all’estero, come nel caso in esame nel quale l’imputato, iscritto all’AIRE di Londra in quanto residente in Inghilterra fino al 2022, è da tale anno residente negli Emirati Arabi, tanto che il mandato di arresto nel Regno Unito è stato per tale ragione revocato e il mandato di arresto europeo è stato, sulla base delle medesime ragioni, negato.
Quando il Tribunale menziona l’accertamento compiuto in ordine alla volontà dell’imputato di sottrarsi alla cattura non chiarisce, dunque, a quale accertamento si riferisca, in assenza di un verbale di vane ricerche.
Il ricorrente deduce di aver depositato in cancelleria, per il tramite dei propri difensori, la dichiarazione attestante la propria residenza a Dubai e copia del contratto di lavoro, nonché di aver consegnato il proprio passaporto ad un avvocato di Dubai, con la richiesta di trasmetterlo alle autorità locali. Tanto sarebbe significativo della facile instaurabilità di un procedimento estradizionale, nel cui ambito egli potrebbe difendersi, e della volontà di non sottrarsi all’esecuzione. La motivazione sul punto sarebbe carente, limitandosi a giudicare ambigua la data di trasferimento negli Emirati Arabi, pochi giorni prima dell’udienza di riesame, laddove poco prima, a mezzo del difensore, il ricorrente aveva dichiarato di risiedere a Londra.
2.3. Il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza del pericolo di reiterazione di reati della stessa specie.
Il ricorrente lamenta che la motivazione sarebbe in parte illogica ed in parte mancante, con riferimento ad alcune delle doglianze avanzate con l’atto di appello, nel quale si stigmatizzava l’omessa considerazione, da parte del G.i.p., di alcuni elementi di novità idonei a mutare il quadro cautelare: il parziale mutamento del capo di imputazione, rispetto all’accusa provvisoriamente formulata nella richiesta di applicazione della misura; l’intervenuta assoluzione in alcuni procedimenti penali indicati come significativi dal Pubblico ministero; la cessazione di ogni carica sociale in Italia e all’estero; la produzione del contratto di lavoro subordinato negli Emirati Arabi.
Il Tribunale del riesame non si sarebbe confrontato con queste doglianze, limitandosi a ritenerle irrilevanti.
Con riferimento specifico al contenuto del rischio di recidiva rilevante ai sensi dell’art. 274, comma 1 lett. c), cod. proc. pen., il ricorrente segnala
l’esistenza di diversi indirizzi interpretativi in ordine al concetto di “stessa specie” dei reati rispetto ai quali va valutato il rischio concreto ed attuale di ricaduta.
Escluso, secondo il ricorrente ed alla luce degli stessi lavori preparatori del codice di rito, che sia corretto interpretare il concetto di “stessa specie” alla stregua del concetto di “stessa indole” di cui all’art. 101 cod. pen., il ricorrente ritiene che l’unica lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata, alla luce dell’interpretazione dell’art. 5, comma 1 lett. c), della Convenzione europea per i diritti dell’uomo fornita dalla Corte di Strasburgo, sia quella che fa leva sull’identità del bene giuridico offeso. Sotto questo profilo, stigmatizza la più ampia lettura che è stata data dalla Corte di cassazione nella sentenza che ha dichiarato inammissibile il precedente ricorso; evidenzia che il proprio ricorso alla Corte Edu sullo specifico punto ha superato il primo vaglio di ammissibilità; sollecita, nel caso in cui non fosse ritenuta attendibile l’interpretazione più rigorosa proposta, la rimessione alle Sezioni Unite.
La fattispecie criminosa per cui si procede è costituita dal delitto di manipolazione del mercato e, dunque, il bene giuridico tutelato è quello dell’ordine economico e dell’interesse generale alla trasparenza delle informazioni commerciali, sicché il rischio di ricaduta in un qualsiasi reato non assume rilievo e la motivazione del Tribunale del riesame sul punto è carente. In ogni caso, il rischio di commissione di specifici e concreti reati non è stato individuato e motivato, laddove l’art. 5 Cedu, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, richiede l’individuazione persino di parametri spazio-temporali di commissione dell’ipotizzato reato e delle eventuali vittime.
Il ricorrente censura la motivazione dell’ordinanza impugnata laddove, dichiarando manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 274, comma 1 lett. c) cod. proc. pen., ha ritenuto che la necessità che i reati di cui si valuti il rischio di reiterazione siano “analoghi” a quello per cui si procede e che il rischio debba essere concreto ed attuale connoti la norma in termini persino di maggior garanzia rispetto all’art. 5 Cedu che si riferisce letteralmente al rischio di un reato qualunque. La motivazione del Tribunale sarebbe errata nella parte in cui non considera la stringente giurisprudenza europea sul punto e consente un’interpretazione che consegna all’imprevedibilità le condizioni di privazione della libertà personale.
Nell’ipotesi in cui la Corte di cassazione non condividesse le premesse interpretative su cui si fonda il ricorso e non rimettesse la questione alle Sezioni Unite, viene riproposta la questione di legittimità costituzionale già prospettata al Tribunale di Milano.
Ulteriore profilo di criticità nella motivazione dell’ordinanza impugnata riguarda la ritenuta irrilevanza della modifica del capo d’imputazione. Una prima versione dello stesso indicava che NOME si fosse procurata la provvista per sottoscrivere il prestito previa collocazione delle azioni RAGIONE_SOCIALE in un conto riconducibile a COGNOME; il Pubblico ministero ha poi modificato l’imputazione sul punto, citando la RAGIONE_SOCIALE come società (sempre nella disponibilità di COGNOME) dal cui conto è uscita la provvista, previo accredito delle citate azioni e per il tramite di un ulteriore veicolo societario rappresentato dall’intermediario GPP. Ebbene, il Tribunale ha giudicato non significativa la modifica in tali termini, perché ha ritenuto che nell’una e nell’altra ricostruzione, comunque, il veicolo societario usato fosse da un lato riconducibile a COGNOME e dall’altro privo della capacità economica necessaria. Tale giudizio, però, con riferimento a RAGIONE_SOCIALE non sarebbe stato motivato.
Del tutto assente sarebbe la motivazione del Tribunale del riesame in ordine agli elementi di novità indicati nell’istanza di revoca o sostituzione della misura, che nemmeno il G.i.p. avrebbe considerato: l’assoluzione da alcuni procedimenti; il tempo effettivamente trascorso in stato di custodia cautelare dopo essersi messo a disposizione dapprima dell’autorità giudiziaria vaticana e poi di quella inglese, in un diverso procedimento.
La motivazione circa il pericolo di reiterazione di reati analoghi pur in assenza di cariche sociali è apodittica e contraddittoria rispetto alla motivazione con la quale la precedente ordinanza del Tribunale del riesame aveva invece ritenuto sintomo di attualità del pericolo la disponibilità (al tempo) di residue funzioni apicali in società estere; si tratta, in sostanza, di una motivazione non già sul rischio di reiterazione specifica bensì su una generica ed indimostrata pericolosità sociale. In ogni caso, il Tribunale non indica alcun elemento dal quale desumere che il COGNOME disponga nell’attualità di qualsivoglia compagine societaria.
2.4. Nel quarto motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’omessa valutazione di misure meno gravose. Stigmatizza la diversità di trattamento rispetto ad altri indagati, non attinti da misure cautelari ovvero sottoposti ad un regime cautelare meno pesante, ed evidenzia che né il G.i.p. né il Tribunale del riesame hanno motivato sull’inidoneità di misure diverse da quella di cui si discute.
Il Procuratore generale ha concluso per iscritto chiedendo il rigetto del ricorso.
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CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Il ricorrente deduce il vizio di cui all’art. 606, comma 1 lett. c), cod. proc. pen., nel quale il Tribunale del riesame sarebbe incorso avendo fondato la propria decisione su un decreto di latitanza prodotto oltre la scadenza del termine di cui all’art. 127, comma 2, cod. proc. pen.; invoca la categoria della nullità di cui all’art. 178, comma 1 lett. c), cod. proc. pen.
La doglianza non coglie nel segno per plurime ragioni.
L’art. 127, comma 2, cod. proc. pen., applicabile all’appello cautelare regolato dall’art. 310 cod. proc. pen., prevede un termine di cinque giorni prima dell’udienza per la presentazione di memorie, con la conseguenza che è inammissibile la produzione di documenti in allegato ad una memoria tardiva (cfr. Sez. 2, n. 15718 del 01/03/2023, COGNOME, Rv. 284499; Sez. 1, n. 33 del 20/11/2018, dep. 2019, Zagaria, Rv. 274662).
Come è noto, però, chi intenda far valere il vizio di violazione di legge processuale ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. c), cod. proc. pen. ha l’onere di dimostrare la decisività, rispetto alla motivazione del provvedimento impugnato, degli atti dei quali si deduca la patologia (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 243416).
All’onere la difesa non ha ottemperato né poteva ottemperare, posto che risulta chiaramente dalla motivazione dell’ordinanza impugnata che il Tribunale non ha attribuito rilievo decisivo nella valutazione del pericolo di fuga al contenuto del decreto di irreperibilità, che la difesa contesta in quanto asseritannente non preceduto da adeguate ricerche.
Il Tribunale, infatti, dato atto dell’oggettiva dichiarazione di latitanza, ha stigmatizzato quello che ha definito come «un dato di ambiguità rispetto al radicamento territoriale dell’appellante» precisando come, in occasione della trattazione del precedente appello cautelare, l’odierno ricorrente avesse dichiarato di essere stabilmente dimorante a Londra e come invece, in sede di istanza ex art. 299 cod. proc. pen. e di successivo appello, lo stesso avesse dichiarato di aver trasferito la propria residenza a Dubai. Ha aggiunto sul punto il Tribunale, commentando tale ultimo dato, che si tratta «di un luogo in cui i rapporti di collaborazione con l’RAGIONE_SOCIALE sono notoriamente più complessi» (pag. 7).
In altri termini, il Tribunale del riesame ha evidenziato come la permanenza del ricorrente all’estero e il trasferimento dal Regno Unito agli Emirati Arabi nel corso del procedimento fossero dati di per sé indicativi del pericolo di fuga, e non
è possibile sostenere che su tale giudizio abbia esplicato efficacia decisiva il contenuto del decreto di irreperibilità, cioè il contenuto di un documento che la difesa contesta.
In ogni caso, come pure il Tribunale correttamente ha osservato, «agli effetti dell’esigenza cautelare di cui all’art. 274, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., la latitanza intervenuta dopo l’ordinanza impositiva della misura cautelare deve essere considerata anche di ufficio dal tribunale del riesame, in forza dei poteri attribuitigli dall’art. 309, comma 9, secondo periodo, cod. proc. pen.» (Sez. 3, n. 209 del 17/09/2020, dep. 2021, Marotta, Rv. 281047; conf. Sez. 6, n. 3700 del 03/12/1993, dep. 1994, Acampora, Rv. 196332).
2. Il secondo motivo è infondato.
L’art. 296, comma 1, cod. proc. pen. definisce latitante «chi volontariamente si sottrae alla custodia cautelare, agli arresti domiciliari, al divieto di espatrio, all’obbligo di dimora o a un ordine con cui si dispone la carcerazione».
Mentre nei confronti dell’irreperibile è previsto che si proceda a nuove ricerche, onde verificare se lo stato di irreperibilità persista, «la qualità di latitante permane fino a che il provvedimento che vi ha dato causa sia stato revocato a norma dell’art. 299 o abbia altrimenti perso efficacia ovvero siano estinti il reato o la pena per cui il provvedimento è stato emesso» (art. 296, comma 4, cod. proc. pen.).
Le Sezioni Unite, con l’arresto ricordato dal ricorrente, hanno sottolineato la differenza tra la condizione di latitante e quella di irreperibile ed hanno affermato che «ai fini della dichiarazione di latitanza, tenuto conto delle differenze che non rendono compatibile tale condizione con quella della irreperibilità, le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 295 cod. proc. pen. – pur dovendo essere tali da risultare esaustive al duplice scopo di consentire al giudice di valutare l’impossibilità di procedere alla esecuzione della misura per il mancato rintraccio dell’imputato e la volontaria sottrazione di quest’ultimo alla esecuzione della misura emessa nei suoi confronti – non devono necessariamente comprendere quelle nei luoghi specificati dal codice di rito ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, di conseguenza, neanche le ricerche all’estero quando ricorrano le condizioni previste dall’art. 169, comma quarto, dello stesso codice» (Sez. U, n. 18822 del 27/03/2014, Avram, Rv. 258792).
In altri termini, come pure è stato precisato, le ricerche ai fini dell’emissione del decreto di irreperibilità devono essere complete ai fini della verifica, per l’appunto, di una situazione di attuale non rintracciabilità del soggetto destinatario di un atto da notificare (e devono essere rinnovate alle scadenze
prescritte); le ricerche ai fini dell’emissione del decreto di latitanza non sono invece finalizzate a portare a conoscenza dell’interessato un provvedimento cautelare emesso o da emettere («risulterebbe certo singolare avvertire con lettera raccomandata un imputato della esistenza di un provvedimento restrittivo a suo carico perché potrebbe essere interpretato come un invito alla fuga»: Sez. 5, n. 5583 del 28/10/2014, dep. 2015, Rv. 262227, in motivazione, richiamando la citata Sez. Unite Avram).
Del resto, «l’accertata assenza del ricercato del territorio dello Stato è, di per sé, circostanza sufficiente per la dichiarazione della latitanza, che cessa soltanto con l’arresto e non anche con la giuridica possibilità di eseguire notificazioni all’estero in base a indicazioni circa il luogo di residenza del destinatario latitante» (Sez. 1, n. 15410 del 25/03/2010, Arizzi, Rv. 246751). Va aggiunto che, naturalmente, lo stato di latitanza cessa in ragione dell’arresto dell’imputato all’estero nell’ambito di una procedura estradizionale o per altra causa (Sez. U, n. 21035 del 26/03/2003, Caridi, Rv. 224134).
Il ricorrente valorizza un’affermazione contenuta nelle citate Sezioni Unite Avram in ordine alla necessità di attivare la procedura di consegna all’estero, laddove si abbiano notizie certe della residenza all’estero della persona da ricercare: «ove dalle indagini emergano concreti elementi che denotino la presenza in un determinato luogo all’estero della persona ricercata, la polizia giudiziaria sarà chiamata ad attivare gli strumenti di cooperazione internazionale, atti a consentire il rintraccio dell’imputato, in vista della eventuale instaurazione del procedimento di consegna attraverso i canali della collaborazione giudiziaria».
Si tratta, però, di affermazione che riguarda i presupposti di validità di un decreto di latitanza, laddove si tratti di desumere dalla completezza delle ricerche la prova della “volontaria sottrazione” del ricercato.
La doglianza, in altri termini, è fuori fuoco rispetto al punto della decisione impugnata.
Per un verso, infatti, è lo stesso ricorrente a dichiarare la propria “volontaria sottrazione”, quando precisa di essere disponibile a difendersi in una procedura estradizionale e, quindi, di non voler rientrare in Italia.
Per altro verso, il motivo si riferisce al vizio di motivazione rispetto all’esigenza cautelare del pericolo di fuga, che è stato argomentato dal Tribunale del riesame in modo non manifestamente illogico attraverso argomenti ai quali è estraneo il tema della completezza e della correttezza o meno delle ricerche finalizzate all’emissione del decreto di latitanza.
Più precisamente, come è stato già osservato, il Tribunale ha evidenziato in maniera non illogica che la decisione di trasferirsi dal Regno Unito agli Emirati Arabi, e cioè in un Paese i cui rapporti di collaborazione con l’RAGIONE_SOCIALE sono più complessi rispetto a quelli che contraddistinguono il Regno Unito, è di per sé significativa del pericolo di fuga.
Si tratta di valutazione di merito non manifestamente illogica e dunque insindacabile in sede di legittimità, né certo scalfita dall’osservazione del ricorrente secondo la quale è ben possibile avere interessi economici in più Paesi ovvero spostare da un Paese all’altro il centro dei propri interessi.
3. Il terzo motivo è infondato.
3.1. Anzitutto, la valutazione circa il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie è stata già effettuata nel precedente procedimento cautelare, conclusosi con la citata sentenza n. 11722/2023 di questa Sezione.
Entro i limiti degli elementi nuovi, non presi in esame nella precedente procedura, è possibile una rivalutazione della citata esigenza cautelare (cfr. Sez. 3, n. 24256 del 21/04/2023, Drewes, Rv. 284683).
Ebbene, gli elementi nuovi che secondo il ricorrente il Tribunale ha obliterato sono: il parziale mutamento dei termini dell’accusa da parte del Pubblico ministero; l’intervenuta assoluzione da alcuni addebiti; la cessazione di cariche sociali; l’assunzione di un nuovo lavoro all’estero.
Il Tribunale, invero, ha motivato in modo non palesemente illogico su alcuni dei citati elementi, laddove ha evidenziato che la modifica dell’incolpazione provvisoria non è radicale, e comunque non è tale da riverberarsi sul giudizio di pericolosità, sia per il carattere simulato dei rapporti tra le parti coinvolte nella sottoscrizione del prestito, sia per la simulazione di un deposito di azioni laddove le stesse erano invece oggetto di cospicue negoziazioni; sia, infine, per la riconducibilità comunque al COGNOME del veicolo societario utilizzato, in assenza della capacità di far fronte all’intero ammontare. A tale motivazione tutt’altro che illogica il ricorrente oppone, in modo generico, la mera considerazione circa l’asserita capacità economica di RAGIONE_SOCIALE, non confrontandosi con gli ulteriori argomenti.
Pure la cessazione di cariche ufficiali è stata in modo non illogico ritenuta dal Tribunale non dirimente ai fini della cessazione del pericolo di recidiva, sia perché la vita più o meno breve di una società coinvolta in illeciti è indice in sé di pericolosità del soggetto che agisca alla sua ombra, sia perché comunque le condotte addebitate al COGNOME sono state parzialmente commesse quando egli aveva già dismesso la propria carica.
L’argomento, all’evidenza, assorbe quello relativo all’assunzione di nuovi eventuali incarichi di lavoro dipendente, in quanto condizione non in grado, di per sé, di negare rilievo al ragionamento complessivamente svolto dal Tribunale.
Quanto all’assoluzione da alcuni addebiti, in presenza di ulteriori procedimenti pendenti, già la citata sentenza n. 11722/2023 ha evidenziato, attraverso pertinenti citazioni giurisprudenziali, come i procedimenti pendenti possano essere utilizzati ai fini del giudizio sulle esigenze cautelari (cfr. pag. 8 della citata decision e i precedenti ivi citati).
3.2. Solo per completezza, e senza con ciò consentire il superamento della maturata preclusione, non si ravvisa alcun contrasto da dirimere attraverso la rinnessione alle Sezioni Unite (mentre la risposta fornita dal Tribunale del riesame alla prospettata questione di costituzionalità è esente da rilievi – cfr. pag. 3-6 dell’ordinanza impugnata – e solo genericamente criticata dal ricorrente) circa l’interpretazione dell’art. 274, comma 1 lett. c) cod. proc. pen.
I precedenti che il ricorrente cita, laddove si riferiscono all’identità di bene giuridico leso (per limitare la citazione alle sentenze massimate, si vedano Sez. 5, n. 24051 del 15/05/2014, COGNOME, Rv. 260143 e Sez. 1, n. 15667 del 16/01/2013, COGNOME, Rv. 255350), si inseriscono in realtà in un filone giurisprudenziale univoco e sono stati, non a caso, massimati sotto un diverso profilo, quello cioè della valutazione del presupposto della “concretezza del pericolo”, inteso come sussistenza di elementi concreti (cioè non meramente congetturali) sulla base dei quali possa affermarsi che l’imputato, verificandosi l’occasione, possa facilmente commettere reati della stessa specie.
La nozione di “stessa specie” non presenta dunque connotazioni problematiche o significative difformità di interpretazioni nella giurisprudenza di questa Corte e, anche da questo punto di vista, non può che essere confermato il percorso motivazionale della citata Sez. 5, n. 11722/2023 che ha definito il precedente ricorso del COGNOME.
3.2.1. L’art. 274 cod. proc. pen., sotto la rubrica “esigenze cautelari”, prevede tre distinti casi, indicati rispettivamente nelle lettere a), b) e c).
Come è stato osservato, i primi due (il pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova o che l’imputato si dia alla fuga) costituiscono tipizzazione di esigenze strettamente inerenti al processo penale, mentre il pericolo di reiterazione criminosa indicato nella lettera c) ha un fondamento in parte diverso, attinente a finalità di prevenzione esterne al processo, da ricondursi a esigenze di tutela della collettività (Corte cost., n. 57 del 15/02/2022). Esigenze di tutela della collettività che già il legislatore delegante, mutuando l’espressione da Corte cost., n. 1 del 17/01/1980, aveva tenuto distinte dalle restanti ragioni
giustificatrici di misure cautelari, costituite dalle «inderogabili esigenze attinenti alle indagini e per il tempo strettamente necessario» ovvero dalla circostanza che «la persona si è data alla fuga o vi è concreto pericolo di fuga» (art. 2, numero 59, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, recante «Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale»).
Se le esigenze «strettamente inerenti al processo» sono state sempre individuate quale ambito proprio di operatività delle misure cautelari nel processo penale, nondimeno il giudice delle leggi, in epoca ancora risalente, ha evidenziato come non si potesse «escludere che la legge possa (entro i limiti, non insindacabili, di ragionevolezza) presumere che la persona accusata di reato particolarmente grave e colpita da sufficienti indizi di colpevolezza, sia in condizione di porre in pericolo quei beni a tutela dei quali la detenzione preventiva viene predisposta» (Corte cost., n. 64 del 23/04/1970).
Dunque, l’art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. prevede fattispecie caratterizzate da intrinseca gravità (il pericolo, cioè, di commissione di «gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata») e, in aggiunta, l’esigenza cautelare connessa al pericolo che l’imputato o la persona sottoposta alle indagini commetta un delitto «della stessa specie di quello per cui si procede». Solo quest’ultima ipotesi, a partire dal 1995 e con successive correzioni di rotta fino alle modifiche introdotte dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, è espressamente ed ulteriormente delimitata – ai soli fini dell’emissione di misure custodiali – attraverso la previsione di una condizione attinente alla gravità dei reati di cui si teme la reiterazione: è infatti previsto che, laddove il pericolo di reiterazione attenga a delitti della stessa specie di quello per cui si procede, «le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni».
3.2.2. In passato si è talora affermata una lettura del concetto di “stessa specie” coincidente con il concetto di “stessa indole” di cui all’art. 101 cod. pen.: se ne trova traccia, per esempio, in Sez. 1, n. 3435 del 08/07/1994, Capitale, Rv. 199863, laddove il giudizio sulla prognosi di reiterazione criminosa rilevante ai fini dell’adozione di misure cautelari è stato condotto facendo riferimento all’esistenza di “caratteri fondamentali comuni” tra il delitto per cui si procedeva
e quello del quale si valutava il pericolo di reiterazione, similmente a quanto accade ai fini del riconoscimento della recidiva specifica (art. 99, comma secondo n. 1, cod. pen., che appunto richiama l’art. 101 cod. pen.).
La successiva Sez. 3, n. 36319 del 05/07/2001, Vasiliu, Rv. 220031 ha fatto riferimento ancora una volta al concetto di “stessa indole” per affermare che «in tema di presupposti per l’applicazione di misure coercitive personali, la prognosi negativa derivante dalla pregressa commissione di reati della stessa indole – art. 274, lett. c) del cod. proc. pen. – sussiste anche in presenza di fattispecie criminose che, pur non previste dalla stessa disposizione di legge, presentano “uguaglianza di natura” in relazione al bene tutelato e alle modalità esecutive».
3.2.3. Escluso in ogni caso, anche dalla dottrina, che il concetto di “stessa specie” debba essere inteso in senso così restrittivo da equivalere a “stessa norma incriminatrice”, l’elaborazione giurisprudenziale successiva appare coerente e sostanzialmente univoca.
Il ricorrente tenta di argomentare l’esistenza di un contrasto interpretativo radicale sulla base di mere differenze terminologiche tra una sentenza e l’altra, la cui inattitudine a giustificare tale radicale contrasto è resa evidente talora dalla circostanza che le espressioni linguistiche sintomatiche, nella prospettiva del ricorrente, dell’adesione ad orientamenti diversi sono usate nel corpo della medesima sentenza, finendo per rappresentare il medesimo concetto.
Così, per esempio, Sez. 1, n. 10347 del 20/01/2004, Catanzaro, Rv. 227227, parla effettivamente di “medesimo bene giuridico” a proposito del concetto di “delitti della stessa specie”; ma, nel medesimo contesto, precisa che il pericolo di reiterazione va inteso come «pericolo specifico di commissione di delitti collegati sul piano dell’interesse protetto», aprendo evidentemente la strada ad un “collegamento” e non necessariamente ad una assoluta “identità” di interesse tutelato.
Altre volte il concetto di “bene giuridico” tutelato è stato adoperato proprio in funzione estensiva, per respingere l’interpretazione, che il ricorso sosteneva, secondo la quale il pericolo di reiterazione dovesse riguardare fattispecie di reato del tutto omologhe a quella per cui si procedeva (così Sez. 6, n. 28618 del 05/04/2013, Vignali, Rv. 255857).
Ed è allora chiara l’identità di ratio tra pronunce quale quella appena citata ed altre che, però, il ricorrente ritiene espressione dell’indirizzo in contrasto: laddove, per esempio, Sez. 5, n. 70 del 04/09/2018, dep. 2019, Pedato, Rv. 274403 (citata da Sez. 5, n. 11722/2023), che non fa più riferimento al concetto di “bene giuridico”, esprime però il medesimo principio della appena citata Sez. 6, n. 28618/2013 cit. (che invece si riferiva al “bene giuridico” tutelato), e cioè
che il pericolo vada valutato non soltanto rispetto alla commissione di reati analoghi a quello per cui si procede.
Esattamente consonante è il ragionamento di Sez. 6, n. 47887 del 25/09/2019, I., Rv. 277392, che il ricorrente espressamente cita (a pagina 16 del ricorso) quale espressione di un orientamento in insanabile contrasto con quello ritenuto preferibile: chiamata ad esprimersi circa il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie in capo ad un soggetto che, sottoposto a misura cautelare per maltrattamenti in famiglia, era ritenuto “a rischio” di commissione di un reato diverso, quale quello di atti persecutori o quello di lesioni personali, la Corte ha chiarito ancora una volta come il concetto di reati della stessa specie «deve riferirsi non solo a reati che offendono il medesimo bene giuridico, ma anche alle fattispecie criminose che, pur non previste dalla stessa disposizione di legge, presentano “uguaglianza di natura” in relazione al bene tutelato ed alle modalità esecutive». Dunque nel caso concreto, ha concluso la Corte, «ne discende che, sebbene i reati di maltrattamenti e di atti persecutori siano posti a presidio di beni giuridici diversi – atteso che il primo delitto tutela l’obbligo legale di assistenza nei confronti dei familiari, mentre il secondo salvaguarda la libertà morale della persona – è indubbio che le relative condotte materiali siano assimilabili per modalità esecutive e tipologia lesiva, là dove si risolvono in comportamenti suscettibili di cagionare sofferenza e prostrazione nella vittima, di tal che possono certamente ritenersi “della stessa specie”».
Sicché in definitiva la riflessione giurisprudenziale sul concetto di “stessa specie”, ai fini richiesti dall’art. 274, comma 1 lett. c) cod. proc. pen., può dirsi assestata sulla necessità che il reato del quale sussista il pericolo di reiterazione sia caratterizzato, rispetto a quello per cui si procede, indifferentemente dall’offesa del medesimo bene giuridico o dell’identità di natura (così, richiamando la citata Sez. 6 n. 47787/2019, Sez. 5, n. 4844 del 12/01/2024, Ferrigno, non massinnata).
Plurime sono le conferme, da parte della giurisprudenza di tutte le Sezioni, circa la correttezza della conclusione raggiunta, che va ribadita e che non si pone in termini di significativo contrasto rispetto ad altra tesi, come il ricorrente sostiene. Per limitare la citazione ad una sentenza recente per ciascuna sezione, si vedano (non massimate sul punto), in ordine cronologico inverso: Sez. 2, n. 494 del 13/12/2023, dep. 2024, Rigillo; Sez. 1, n. 51168 del 06/09/2023, La Gatta; Sez. 5, n. 39485 del 06/09/2023, Spartà; Sez. 4, n. 18526 del 12/04/2023, NOME; Sez. 6, n. 24259 del 26/04/2022, COGNOME; Sez. 3, n. 33087 del 15/07/2021, NOME.
3.3. In conclusione, e solo per completezza, è infondata la pretesa di trarre dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 5, § 1 lett. c) della Convenzione EDU principi in contrasto con la richiamata giurisprudenza nazionale e, in particolare, criteri ermeneutici improntati a maggior rigore nella valutazione dei presupposti di applicazione di una misura cautelare fondata sul pericolo di recidiva.
Va anzitutto ricordato che la norma, nella parte di interesse, recita: «Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della sua libertà, eccetto che nei casi seguenti e per via legale: … c) se è stato arrestato o detenuto per essere condotto avanti l’autorità giudiziaria competente, quando si ha fondato motivo di supporre che abbia commesso un reato o si ha motivo di credere che è necessario impedire che commetta un reato …».
Dunque, già sul piano letterale, il fondato motivo di supporre che il soggetto abbia commesso un reato (che attiene alla valutazione della gravità indiziaria) costituisce presupposto sufficiente ed alternativo rispetto alla necessità di impedire un reato.
In ogni caso, il pericolo di recidiva deve essere “plausibile” e la misura adottata deve essere “appropriata”, «in the light of the circumstances of the case and in particular the past histoty and the personality of the person concemed» (Corte EDU, 12/12/1991, Clooth v. Belgium, § 40).
La decisione della Grande Camera nel caso S., V. ed A. c/ Danimarca del 22/10/2018, citata dal ricorrente a pagina 19 a sostegno delle proprie ragioni, conferma l’assunto, laddove anzitutto si occupa non di una misura cautelare personale disposta in un procedimento penale, bensì di una misura di polizia, emessa sulla base del sospetto che i destinatari della stessa si rendessero pericolosi per la sicurezza pubblica (v. § 138 della sentenza).
La sentenza, che non ha ravvisato nel caso sottoposto ad esame violazioni dell’invocata norma della Convenzione, ricorda pure che il concetto di “offence” contenuto nel testo dell’art. 5, e che in italiano è tradotto “reato”, può avere addirittura esso stesso una portata più ampia («The “offence” does not have to be limíted to conduct that has been characterised as an offence under national law»: § 90); ed aggiunge che la “pre-trial detention” è giustificata laddove sussistano semplicemente «relevant and sufficient reasons» (§ 77).
Nei limiti che interessano in questa sede, va dunque confermata la correttezza dell’affermazione del Tribunale del riesame laddove, a pagina 6 dell’ordinanza impugnata, giudica che le condizioni richieste dall’art. 274, comma 1 lett. c) cod. proc. pen. nell’interpretazione fornita alla norma dalla
giurisprudenza siano (del tutto comprensibilmente, del resto) più stringenti di quelle che derivano dalla mera ricognizione della giurisprudenza di Strasburgo.
La risposta al terzo motivo assorbe la valutazione il quarto, che è comunque generico, nel momento in cui denuncia disparità di trattamento rispetto ad altri indagati e censura il motivato esercizio della discrezionalità da parte del giudice che ha emesso la misura e del giudice dell’impugnazione cautelare.
Il ricorso va pertanto rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 08/02/2024