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Pericolo di reiterazione: condotta e modus operandi

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un pubblico ufficiale sospeso per corruzione. La Corte ha stabilito che il concreto e attuale pericolo di reiterazione del reato non si desume dalla sola gravità del titolo, ma dalle specifiche modalità della condotta, dalla personalità dell’indagato e dal suo modus operandi, che in questo caso rivelavano una spiccata disinvoltura nel compiere illeciti e un sistema ben collaudato.

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Pubblicato il 15 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Pericolo di Reiterazione: Non Basta la Gravità del Reato, Serve l’Analisi della Condotta

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19161 del 2024, torna a pronunciarsi su un tema cruciale della procedura penale: la valutazione del pericolo di reiterazione del reato ai fini dell’applicazione di una misura cautelare. La decisione sottolinea come non sia sufficiente basarsi sulla gravità astratta del reato contestato, ma sia necessaria un’analisi approfondita e concreta delle modalità della condotta, della personalità dell’indagato e del suo specifico modus operandi.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda un pubblico ufficiale in servizio presso l’Ufficio della Motorizzazione Civile, inizialmente sottoposto agli arresti domiciliari per reati di corruzione. In un primo momento, il Tribunale del Riesame aveva confermato la misura. Tuttavia, la Corte di Cassazione aveva annullato l’ordinanza, limitatamente al profilo delle esigenze cautelari, rinviando il caso al Tribunale per una nuova valutazione.

In sede di rinvio, il Tribunale, pur escludendo il pericolo di inquinamento probatorio, ha confermato la sussistenza del pericolo di commissione di nuovi reati. Di conseguenza, ha sostituito gli arresti domiciliari con la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio per dodici mesi. Contro questa nuova ordinanza, l’indagato ha proposto ricorso in Cassazione, lamentando che il Tribunale non si fosse attenuto ai principi indicati dalla Suprema Corte e avesse fondato la sua decisione su formule stereotipate, senza indicare elementi di fatto concreti.

Il Ricorso e i Motivi della Difesa

La difesa ha sostenuto che il Tribunale avesse errato nel fondare la prognosi di pericolosità su elementi generici, come le cosiddette ‘misure di autoprotezione’ adottate dagli indagati, senza spiegare come queste rendessero concreto e attuale il rischio di nuovi reati. Secondo il ricorrente, la motivazione del Tribunale era sostanzialmente identica a quella della precedente ordinanza già annullata dalla Cassazione. Inoltre, si contestava l’utilizzo di conversazioni intercettate a cui l’indagato non aveva partecipato e che non lo riguardavano direttamente, ritenendole irrilevanti per dimostrare un suo personale pericolo di ricaduta.

La Valutazione del Pericolo di Reiterazione

Il nodo centrale del ricorso era la presunta violazione dell’art. 274, comma 1, lett. c) del codice di procedura penale. La difesa riteneva che il Tribunale non avesse compiuto quella valutazione prognostica concreta richiesta dalla legge e dalla giurisprudenza, limitandosi a riproporre argomentazioni astratte e non personalizzate sulla figura dell’indagato.

Le Motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendolo manifestamente infondato. Secondo gli Ermellini, il Tribunale di Palermo, nella sua seconda ordinanza, ha correttamente seguito i principi di diritto, basando la sua decisione su elementi concreti e specifici.

Il Tribunale ha infatti valorizzato non la gravità del titolo di reato, ma le concrete modalità realizzative delle condotte illecite, quali:
1. Misure di ‘autoprotezione’: L’espediente di stampare duplicati di documenti per modificarli e la ricezione di compensi illeciti dentro buste inserite in carpette ufficiali, seguendo un modus operandi collaudato.
2. Accorgimenti specifici: La prassi di non aprire mai le buste con il denaro sulla postazione di lavoro, ma in luoghi ritenuti più sicuri come bagni, corridoi o archivi.
3. Cultura dell’illecito: Il costante invito tra gli indagati a prestare attenzione a eventuali telecamere nascoste.

Questi elementi, secondo la Corte, non sono generici, ma delineano una spiccata disinvoltura dell’indagato nell’aderire ad accordi illeciti e un carattere non occasionale della sua condotta. Il Tribunale ha correttamente evidenziato come tali comportamenti, uniti alla fitta rete di relazioni con agenzie esterne e altri funzionari, costituissero la base per una prognosi negativa. Il riferimento alle conversazioni altrui è stato ritenuto legittimo non per attribuire all’indagato fatti commessi da altri, ma per confermare l’esistenza di una prassi illecita consolidata all’interno dell’ufficio, contesto nel quale l’indagato operava e che avrebbe potuto continuare a sfruttare.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio fondamentale: per valutare il pericolo di reiterazione, il giudice deve andare oltre l’etichetta del reato e analizzare nel dettaglio il comportamento dell’indagato. Il modus operandi, la personalità che emerge dai fatti, il contesto socio-ambientale e la sistematicità delle condotte sono gli unici elementi che possono fondare una prognosi di pericolosità concreta e attuale, giustificando così la compressione della libertà personale attraverso una misura cautelare. La decisione conferma che una motivazione è adeguata quando è ancorata a specifici fatti e non a formule generiche, anche quando si avvale di elementi di contesto per rafforzare la valutazione sulla personalità dell’indagato.

Per giustificare il pericolo di reiterazione del reato, è sufficiente la gravità del reato stesso?
No, la legge (art. 274 c.p.p., come modificato nel 2015) impedisce di desumere il pericolo di reiterazione dalla sola gravità del titolo di reato. È invece necessaria una valutazione basata sulle concrete manifestazioni del fatto, sulle modalità della condotta e sulla personalità dell’indagato.

Come si valuta il rischio concreto e attuale che un indagato possa commettere nuovi reati?
Si valuta attraverso un’analisi accurata della fattispecie concreta. Elementi determinanti sono i comportamenti specifici tenuti dall’indagato (il cosiddetto modus operandi), la sua personalità, il contesto socio-ambientale, e ogni altro elemento che possa indicare una propensione a commettere ulteriori crimini, anche a distanza di tempo dai fatti contestati.

Le conversazioni intercettate a cui un indagato non ha partecipato possono essere usate contro di lui?
Sì, ma solo a determinate condizioni. In questo caso, la Corte ha ritenuto legittimo il loro utilizzo non per provare un coinvolgimento diretto dell’indagato in quelle specifiche conversazioni, ma come elemento per confermare l’esistenza di una prassi illecita consolidata nell’ambiente di lavoro, contesto che rafforza la prognosi sulla sua possibile ricaduta nel reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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