Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 11981 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 11981 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 22/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da
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avverso la sentenza del 10/05/2023 della Corte di appello di Messina visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente alle pene sostitutive; lette le conclusioni del difensore, avv. NOME COGNOME con le quali si insiste pe
l’annullamento della sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Messina riformava parzialmente – quanto alla pena accessoria che applicava – la sentenza del Tribunale di Patti del 10 ottobre 2022 che aveva condannato alla pena di anni tre di reclusione l’imputato COGNOME S.G. COGNOME per il reato di cui all’art. 572 cod.
pen. commesso ai danni della convivente dall’aprile 2020 al febbraio 2021.
Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia dell’imputato, denunciando i motivi di annullamento, di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Violazione di legge in relazione all’art. 597, comma 2 cod. proc. pen. per l’applicazione della pena accessoria.
La Corte di appello non poteva d’ufficio e sull’appello del solo imputato applicare la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.
2.2. Violazione di legge in relazione all’art. 545-bis cod. proc. pen. per il rigetto della richiesta di sostituzione della pena detentiva con la misura del lavoro di pubblica utilità.
La Corte territoriale erroneamente ha rigettato la suddetta richiesta per la mancanza di procura speciale del difensore, in quanto doveva attenersi alla procedura prevista dal novello art. 545-bis cod. proc. pen.: dopo la lettura del dispositivo, andava dato avviso alle parti della possibilità di sostituzione della pena e solo a quel punto l’imputato o personalmente o con procuratore speciale poteva acconsentire alla sostituzione della pena. Prima di tale momento al giudice spetta soltanto il rigetto della istanza solo quando sia in radice non concedibile la sostituzione.
2.3. Violazione di legge in relazione agli artt. 530, comma 2 e 192 cod. pen. quanto ai ritenuti riscontri alle dichiarazioni della persona offesa.
La Corte di appello ha violato da un lato l’art. 530, comma 2 cod. proc. pen. posto che si era in presenza di una prova (le dichiarazioni della vittima) di dubbia credibilità (sia in ragione della tardiva e occasionale denuncia dei gravi fatti asseritamente subiti, non logicamente spiegata dalla persona offesa, sia della personalità di quest’ultima, in ragioni di problematiche derivanti dall’uso di alcool e da turbe neuropsichiatriche) e dall’altro l’art. 192 cod. proc. pen., per la assenza di riscontri al narrato della vittima (non vi sono referti che comprovino le lesioni subite ma solo una foto del maggio 2021; i testi occorsi nell’occasione hanno trovato entrambi i conviventi ubriachi e non hanno escluso che la donna si fosse ferita da sola; i testi ascoltati hanno dichiarato di non aver assistito ad aggressioni fisiche; la istruttoria ha dimostrato come la donna tendesse ad autolesionarsi).
Disposta la trattazione scritta del procedimento, ai sensi dell’art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. dalla I. 18 dicembre 2020, e succ. modd., in mancanza di richiesta nei termini ivi previsti di discussione orale, il Procuratore generale e la difesa del ricorrente hanno depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è complessivamente da rigettare, in quanto declina censure infondate e a tratti anche inammissibili.
Il primo motivo, relativo alla pena accessoria, è manifestamente infondato.
E’ principio pacifico che non viola il principio della “reformatio in peius” la sentenza del giudice di appello che, in presenza di impugnazione del solo imputato, applichi la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, erroneamente non disposta in primo grado, qualora, attesi i caratteri del reato attribuito all’imputato, sia prevista espressamente dall’art. 31 cod. pen. quale conseguenza necessaria della condanna per quel reato (tra le tante, Sez. 2, n. 15806 del 03/03/2017, Rv. 269864).
Tale principio è stato affermato dalle Sezioni Unite già nel 1998 e costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità.
Si è osservato in particolare che, poiché l’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. non contempla, tra i provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice d’appello nell’ipotesi di impugnazione proposta dal solo imputato, quelli concernenti le pene accessorie – le quali, secondo il disposto dell’art. 20 cod. peri., conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa – al giudice di secondo grado è consentito applicare d’ufficio le pene predette qualora non vi abbia provveduto quello di primo grado, e ciò ancorché la cognizione della specifica questione non gli sia stata devoluta con il gravame del pubblico ministero (Sez. U, n. 8411 del 27/05/1998, Ishaka, Rv. 210979, in relazione alla fattispecie di interdizione dai pubblici uffici).
Il secondo motivo, relativo al rigetto dell’applicazione delle pene sostitutive, deve ritenersi infondato.
La tesi della difesa che la Corte di appello dovesse dar corso, comunque, alla procedura dettata dall’art. 545-bis cod. proc. pen. non può essere accolta.
Nel caso in esame, la pena principale inflitta in primo grado non risultava invariata in appello e la richiesta di sostituzione in relazione a tale pena era stata avanzata con il gravame. Era quindi ultroneo all’esito del giudizio di appello, come pretende la difesa, dare lettura del dispositivo e quindi avviso alle parti della possibilità di sostituire la pena per accordare all’imputato la facoltà di esprimere ex post il relativo consenso personalmente o a mezzo di procuratore speciale.
Procedura che si giustifica invece in primo grado o anche in appello, qualora in tale fase la pena sia determinata o comunque modificata: solo a partire infatti dalla lettura del dispositivo, “sia il giudice sia le parti sono in grado di effettuare
una prima valutazione circa la possibile applicazione delle pene sostitutive” (Relazione illustrativa al decreto legislativo n. 150 del 2022) di cui all’art. 53 della legge n. 689/1981 (e nei limiti edittali ivi stabiliti). In quel momento, infatti, so cristallizzati tutti i fattori della decisione: è nota la misura della pena principa inflitta (la cui entità determina l’applicabilità o meno delle pene sostitutive); è noto se la pena principale sia stata o meno sospesa (posto che le pene sostitutive si applicano solo in caso di mancata sospensione condizionale della pena); è nota la qualificazione giuridica ritenuta in sentenza ed è noto se – in caso di reati previsti dalla c.d. prima fascia dell’art. 4 -bis, della legge 354 del 1975 – siano state o meno riconosciute determinate attenuanti (in presenza delle quali possono essere disposte pene sostitutive di pene detentive brevi).
Quando invece tale quadro sia già noto e rimasto invariato in appello, appare contrario ai principi di economicità e speditezza del rito dar ingresso al procedimento “informativo” previsto dall’art. 545-bis cod. pen. per acquisire la “formale” manifestazione di volontà dell’imputato (in tal senso, cfr. anche Sez. 2, n. 2341 del 19/12/2023, dep. 2024, Rv. 285727, in tema di riforma in appello).
In tal caso ha infatti rilevanza la richiesta che già l’imputato ha effettuato “a monte” affinché il giudice di appello si pronunci in merito alla applicabilità o meno delle nuove pene sostitutive di cui all’art. 20 -bis cod. pen.
Nel caso della disciplina transitoria, posto che la questione non aveva formato oggetto del giudizio di primo grado, risultava quindi necessario l’acquisizione del formale consenso dell’imputato con la richiesta presentata in appello.
Inammissibile è infine il terzo motivo, in quanto avanza censure precluse in sede di legittimità.
Va rammentato che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con cui si deduca la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l’omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027).
Parimenti non è consentito invocare la violazione dell’art. 530 cod. proc. pen. per introdurre in sede di legittimità valutazioni di fatto sulla sufficienza della prova ovvero sul bilanciamento degli elementi probatori, in quanto oggetto del sindacato della Corte di cassazione resta pur sempre la motivazione che sostiene la decisione di condanna.
Esaminate le doglianze con riferimento alla motivazione, va rilevato che il ricorrente si dilunga in non consentiti apprezzamenti di fatto sulla consistenza e
rilevanza delle prove acquisite, disinteressandosi del percorso motivazionale seguito dai giudici di merito.
In primo luogo, la Corte di appello ha infatti definito “estremamente generiche” le censure versate nell’appello. Ha comunque poi esaminato la
credibilità della persona offesa, rispondendo anche ai rilievi difensivi, in questa sede riproposti; ha indicato plurimi riscontri alle dichiarazioni della persona offesa
(ovvero le conferme dei maltrattamenti venute dai testi, anche parenti dell’imputato; le foto che riproducevano una lesione compatibile con la
ricostruzione fornita dalla persona offesa; le registrazioni di conversazioni telefoniche).
4. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere rigettato.
Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell’art. 616 cod.
proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 22/12/2023.