Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 36405 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 36405 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 02/10/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da COGNOME NOME nato a Corato il DATA_NASCITA; COGNOME NOME nato ad Andria il DATA_NASCITA;
avverso la sentenza del 14 ottobre 2024 della Corte d’appello di Bari;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; udito il AVV_NOTAIO Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della senza impugnata limitatamente al solo rigetto della richiesta di applicazione della sanzione sostitutiva; udito l’AVV_NOTAIO, nell’interesse del ricorrente, che insiste per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Oggetto dell’impugnazione è la sentenza con la quale la Corte d’appello di Bari, dichiarata l’inammissibilità, per rinuncia, dei motivi d’impugnazione afferenti alla ritenuta responsabilità, ha rideterminato la pena irrogata in primo grado, determinata, per i ricorrenti, in anni tre e mesi quattro di reclusione ciascuno; pena irrogata in relazione a cinque bancarotte fraudolente contestate nel capo d’imputazione, relative a due distinte procedure fallimentari.
Il ricorso proposto nell’interesse dello COGNOME si compone di un unico motivo d’impugnazione, formulato sotto il profilo della violazione di legge (in relazione agli artt. 20-bis e 53 della legge n. 689 del 1981), afferente al trattamento sanzionatorio. La difesa, in estrema sintesi, deduce che la Corte territoriale, in violazione delle richiamate disposizione normative, avrebbe rigettato la richiesta avanzata dalla difesa solo in ragione del ritenuto limite normativo, erroneamente individuato in anni tre di reclusione, a fronte della diversa previsione normativa (introdotta dalla riforma Cartabia), ratione temporis applicabile anche a questo procedimento.
Il ricorso proposto nell’interesse del COGNOME si compone di due motivi d’impugnazione.
3.1. Il primo attiene alla determinazione della pena irrogata e deduce vizio di motivazione quanto alla determinazione della pena base (individuata in quattro anni di reclusione alla luce del solo dato afferente al danno patrimoniale, peraltro non compiutamente accertato) e dei singoli aumenti di pena irrogati a titolo dì continuazione. La difesa rileva come il primo giudice aveva unificato tutti i reati satellite ai sensi dell’art 219 I. fall. ed aveva applicato, per essi, la pena di ann uno e mesi sei di reclusione. La Corte territoriale, invece, pur ritenendo che l’unificazione sanzionatoria dei singoli fatti di bancarotta fosse da limitarsi alle condotte relative alla medesima procedura fallimentare e pur applicando correttamente la disciplina della continuazione, avrebbe irrogato un aumento di sei mesi per ciascun fatto bancarotta afferente al diverso fallimento (capi 3 e 5), senza considerare che nella quantificazione della pena operata per i reati satellite dal primo giudice era stata già applicato un aumento per le ipotesi oggi riconosciute avvinte dal vincolo della continuazione. E tanto condurrebbe a ritenere, secondo la difesa, che gli aumenti per i capi 3) e 5) siano stati applicati in concreto due volte: una per la continuazione ed un’altra (operata dal primo giudice) come aggravante ad effetto speciale.
3.2. Il secondo motivo attiene anch’esso al trattamento sanzionatorio, ma sotto il profilo dell’invocata applicazione delle pene sostitutive ed è formulato in termini sovrapponibili a quelli prospettati nel ricorso proposto nell’interesse del coimputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono fondati nei limiti di quanto di seguito evidenziato.
Il motivo afferente alla dosimetria della pena irrogata (sollevato nell’interesse del solo COGNOME) è, complessivamente, infondato.
Il giudice di prime cure ha così calcolato la pena: ritenendo più grave, in ragione dell’entità del danno prodotto, la bancarotta di cui al capo 4), ha quantificato la relativa pena in anni quattro di reclusione e su di essa ha operato l’aumento di anni uno di reclusione per l’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità e di anni uno e mesi sei per quella dei più fatti di bancarotta, per una pena complessiva di anni sei e mesi sei di reclusione (ridotta, per il rito, ad anni quattro e mesi quattro di reclusione).
La Corte territoriale, invece, elise, nel giudizio di equivalenza con le riconosciute circostanze attenuanti generiche, le contestate aggravanti e ritenuta, correttamente, la continuazione tra le bancarotte afferenti a diverse procedure fallimentari (capi 1, 2 e 4 relativi al fallimento RAGIONE_SOCIALE, da un canto, e 3 e 5 afferenti al fallimento RAGIONE_SOCIALE, dall’altro), ha determinato pena base in anni quattro di reclusione (ritenendo, come il primo giudice, più grave il delitto di cui al capo 4) e ha irrogato, a titolo di continuazione, per i capi 3), e 5), la pena complessiva di anni uno di reclusione (quindi nella misura di mesi sei ciascuno), per giungere, così, alla pena finale di anni cinque, ridotta per il rito ad anni tre e mesi quattro di reclusione.
Ciò considerato, in linea di principio, la commisurazione della pena e la disciplina fondamentale dettata dagli artt. 132 e 133 cod. pen. rappresentano il nucleo centrale del tema della discrezionalità riconosciuta al giudice penale, in rapporto alla peculiarità del caso concreto e alla personalità dell’autore; esso stesso funzionale alla determinazione di un trattamento sanzionatorio che sia proporzionato ed individualizzante, in un assetto che sia compatibile con le finalità proprie della pena e, in particolar modo, con la finalità rieducativa della pena; funzione, quest’ultima, che costituisce «patrimonio della cultura giuridica europea, in particolar modo per il suo collegamento con il “principio di proporzione” fra qualità e quantità della sanzione, da una parte, ed offesa, dall’altra» (Corte cost., sent. n. 313 del 1990).
Presupponendo un apprezzamento in fatto e un conseguente esercizio di discrezionalità, la concreta determinazione del trattamento sanzionatorio è riservata al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, ove non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione: Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Rv. 259142).
Naturale corollario di tale assunto è che il giudice deve dar conto, sia pure sinteticamente, delle singole decisioni adottate nell’esercizio del suo potere discrezionale; onere che può ritenersi adempiuto allorché il giudice di merito abbia indicato, nel corpo della sentenza, gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell’ambito della complessiva dichiarata applicazione di tutti i criteri di cui all’art 133 cod. pen. (Sez. 6, n. 9120 del 02/07/1998, Rv. 211582; Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013, dep. 2014, Rv. 258410) ed è tanto meno stringente quanto più la determinazione è prossima al minimo edittale, rimanendo, in ultimo, sufficienté il semplice richiamo al criterio di adeguatezza, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 2, n. 28852 del 08/052013, Rv. 256464).
Ebbene, la pena base è stata quantificata in misura sostanzialmente prossima al minimo edittale (pere cui l’indicazione del danno prodotto è circostanza sufficiente, alla luce di quanto considerato, a ritenere pienamente adempiuto il prescritto onere motivazionale); gli aumenti sono stati quantificati in misura sovrapponibile a quella indicata in primo grado.
È pur vero che la nota sentenza NOME COGNOME (Sez. U n. 40910 del 27/09/2005, Rv. 232066) ha stabilito che il divieto di reformatio in peius si riferisce non solo alla pena complessiva, ma anche ai singoli elementi che la compongono, per cui la pena comminata per le circostanze e per i reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione e pur risultando diminuita quella complessiva, non può essere elevata. Ma non è ciò che in concreto è avvenuto: la Corte d’appello non solo non ha valutato in modo diverso (in ipotesi deteriore) un medesimo elemento costitutivo del trattamento sanzionatorio, ma ha operato un nuovo giudizio di comparazione tra circostanze in senso più favorevole all’imputato. Ciò che è mutato rispetto all’originario trattamento sanzionatorio (a prescindere dal differente e più favorevole giudizio di comparazione) è il solo titolo in relazione al quale sono stati determinati gli aumenti: non già ai sensi dell’art. 219 della legge fallimentare, ma a titolo di continuazione, in applicazione dell’art. 81 del codice penale. E tanto esclude, da un canto, la prospettata duplicazione, dall’altro l’evocata violazione del principio della reformatio in peius.
Fondato, invece, il motivo d’impugnazione afferente alla sostituzione della pena detentiva irrogata (proposto nell’interesse di entrambi i ricorrenti).
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La Corte territoriale ha respinto la richiesta di sostituzione (tempestivamente avanzata all’udienza di discussione del 14 ottobre 2024: Sez. 5, n. 4332 del 15/11/2024, dep. 2025, COGNOME, Rv. 287624) ritenendo erroneamente superati i limiti di pena previsti dall’art. 53 della legge n. 689 del 1981, che, tuttavia, nella formulazione applicabile ratione temporis (art. 95 d. Igs. n. 150 del 2022), vengono individuati (per la detenzione domiciliare) non più in anni tre, ma in anni quattro anni di reclusione.
Essendo questa l’unica ragione fondante il provvedimento di diniego, la sentenza impugnata va annullata, limitatamente a tale profilo, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’appello di Bari.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla sostituzione della pena detentiva, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Bari.
Rigetta nel resto il ricorso di COGNOME.
Così deciso il 2 ottobre 2025
CORTE DI CASSAZIONE