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Pene accessorie: valutazione e limiti del ricorso

Un imprenditore ha impugnato la rideterminazione delle sue pene accessorie, consistenti nell’inabilitazione all’esercizio d’impresa per due anni. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo che la Corte d’Appello avesse correttamente motivato la sua decisione, bilanciando la gravità dei fatti con il tempo trascorso. L’inammissibilità è stata dichiarata perché il ricorso tentava di ottenere una nuova valutazione dei fatti, non consentita in sede di legittimità.

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Pubblicato il 7 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Pene Accessorie: Quando il Ricorso in Cassazione è Inammissibile?

La determinazione della durata delle pene accessorie è un aspetto cruciale del processo penale, affidato alla valutazione discrezionale del giudice di merito. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito i confini invalicabili del ricorso per legittimità in questa materia, chiarendo quando le censure dell’imputato si traducono in un’inammissibile richiesta di riesame dei fatti.

Il Contesto del Ricorso: La Rideterminazione delle Pene Accessorie

Il caso esaminato trae origine dalla decisione di una Corte d’Appello che, in sede di rinvio a seguito di un annullamento da parte della Corte di Cassazione, aveva rideterminato in due anni le pene accessorie a carico di un imprenditore. Le sanzioni consistevano nell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e nell’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

L’imputato, tramite il suo difensore, ha presentato ricorso in Cassazione avverso questa nuova sentenza, lamentando l’erroneità e la contraddittorietà della valutazione operata dai giudici di secondo grado. In particolare, si contestava la presunta mancata considerazione, ai sensi dell’art. 133 del codice penale, del tempo trascorso dall’ultimo reato commesso.

Le Doglianze del Ricorrente sulla Valutazione delle Pene Accessorie

Il nucleo della difesa si concentrava su una presunta applicazione errata dei criteri di commisurazione della pena. Secondo il ricorrente, la Corte d’Appello non avrebbe adeguatamente ponderato tutti gli elementi a suo favore, specialmente il lungo intervallo temporale intercorso dalla commissione dei fatti, un fattore che avrebbe dovuto militare per una sanzione accessoria ancora più mite.

Inoltre, il ricorso tentava di reintrodurre elementi fattuali già valutati nel merito, come la circostanza che l’imputato non avesse personalmente incassato somme distratte o che fosse stato assolto da un’accusa connessa. Questi argomenti, tuttavia, miravano a una rilettura complessiva del quadro probatorio, più che a evidenziare un vizio di legittimità.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, fornendo una motivazione chiara e lineare. I giudici hanno ritenuto la sentenza della Corte d’Appello del tutto coerente ed esaustiva. La motivazione impugnata, infatti, conteneva un adeguato riferimento ai criteri dell’art. 133 c.p., bilanciando correttamente sia gli aspetti sfavorevoli (la gravità oggettiva del fatto) sia quelli favorevoli (il tempo trascorso). Tale bilanciamento aveva già portato all’applicazione di pene accessorie in misura “assai inferiore al massimo edittale”, dimostrando che il giudice di merito aveva esercitato la sua discrezionalità in modo ponderato e non arbitrario.

La Corte ha poi sottolineato come le critiche del ricorrente fossero, in realtà, “argomenti nemmeno propriamente esatti in via di fatto” che sollecitavano una “non consentita rilettura degli elementi di fatto”. Contestare chi avesse materialmente beneficiato delle somme o le ragioni di un’assoluzione parziale sono questioni di merito, il cui esame è precluso in sede di legittimità. Il compito della Cassazione non è quello di stabilire se la valutazione del giudice di merito sia la migliore possibile, ma solo se sia logicamente argomentata e legalmente corretta.

Le Conclusioni: I Limiti del Giudizio di Legittimità

Questa ordinanza riafferma un principio fondamentale della procedura penale: il ricorso in Cassazione non è un terzo grado di giudizio. Non è possibile utilizzarlo per rimettere in discussione l’accertamento dei fatti o per proporre una diversa interpretazione delle prove. Quando la decisione del giudice di merito sulla commisurazione della pena (principale o accessoria) è supportata da una motivazione logica, non contraddittoria e rispettosa dei parametri legali, essa è insindacabile in sede di legittimità. La declaratoria di inammissibilità, con la conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria, rappresenta la logica conseguenza di un ricorso che travalica i limiti del giudizio di diritto per invadere il campo del merito.

È possibile contestare in Cassazione la durata di una pena accessoria decisa dal giudice di merito?
Sì, ma solo se si dimostra che la motivazione del giudice è illogica, contraddittoria o basata su un’errata applicazione dei criteri di legge, come quelli previsti dall’art. 133 del codice penale. Non è possibile chiedere alla Cassazione una nuova valutazione dei fatti per ottenere una pena più mite.

Quali criteri usa il giudice per determinare la durata delle pene accessorie?
Il giudice utilizza i criteri indicati dall’art. 133 del codice penale, bilanciando elementi sfavorevoli (come la gravità del fatto) ed elementi favorevoli all’imputato (come il tempo trascorso dal reato), al fine di commisurare una sanzione adeguata al caso concreto.

Cosa succede se un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile?
L’inammissibilità del ricorso comporta la conferma definitiva della decisione impugnata. Inoltre, il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro in favore della Cassa delle ammende, come stabilito nell’ordinanza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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