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Pene accessorie: la Cassazione richiede motivazione

La Corte di Cassazione ha annullato una sentenza della Corte d’appello per difetto di motivazione riguardo la durata delle pene accessorie. Sebbene il giudice d’appello possa applicare d’ufficio pene accessorie non concordate tra le parti, è tenuto a motivare specificamente la loro durata qualora la legge preveda un minimo e un massimo, sulla base dei criteri dell’art. 133 c.p. e non in automatico rapporto con la pena principale. La mancanza di tale motivazione determina l’annullamento parziale della sentenza con rinvio.

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Pubblicato il 14 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Pene Accessorie: la Cassazione ribadisce l’obbligo di motivazione sulla durata

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 7513/2025, ha riaffermato un principio fondamentale del nostro sistema penale: l’obbligo per il giudice di motivare in modo specifico la durata delle pene accessorie quando la legge non prevede una misura fissa. Questa decisione, che ha portato all’annullamento parziale di una sentenza d’appello, chiarisce i limiti del potere discrezionale del giudice e rafforza le garanzie per l’imputato, anche in contesti di accordo sulla pena.

I Fatti del Caso

Il caso trae origine da una condanna in primo grado per reati di associazione per delinquere e frode fiscale. In sede di appello, le parti avevano raggiunto un accordo sulla pena principale ai sensi dell’art. 599-bis del codice di procedura penale, rideterminandola in 3 anni e 10 mesi di reclusione. La Corte d’appello, nel ratificare l’accordo, aveva tuttavia applicato anche delle pene accessorie previste dal D.Lgs. 74/2000, che non erano state oggetto dell’accordo tra le parti. L’imputato ha quindi proposto ricorso per cassazione, lamentando sia l’applicazione di tali pene senza che facessero parte del patto, sia la totale assenza di motivazione riguardo la loro durata.

L’Applicazione d’Ufficio delle Pene Accessorie

La Corte di Cassazione ha innanzitutto chiarito un punto importante: è legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice d’appello, delle pene accessorie obbligatorie per legge, anche se non erano state applicate in primo grado e non vi è stata un’impugnazione specifica del pubblico ministero. Questo perché, secondo un orientamento consolidato, le pene accessorie conseguono obbligatoriamente alla condanna come suoi effetti penali diretti. Sotto questo profilo, il ricorso dell’imputato è stato quindi ritenuto infondato.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

Il cuore della decisione risiede però nel secondo motivo di ricorso: il difetto di motivazione sulla durata delle sanzioni. La Corte ha accolto questa doglianza, richiamando un fondamentale principio stabilito dalle Sezioni Unite (sentenza n. 28910 del 2019). Secondo tale principio, quando la legge stabilisce per le pene accessorie una durata non fissa ma compresa tra un minimo e un massimo (una “forbice edittale”), il giudice non può determinarla in modo automatico o rapportandola alla pena principale. Al contrario, ha l’obbligo di determinarne la durata in concreto, fornendo una specifica motivazione basata sui criteri di valutazione della gravità del reato e della capacità a delinquere del reo, indicati nell’articolo 133 del codice penale.

Nel caso di specie, la Corte d’appello si era limitata ad applicare le pene accessorie senza fornire alcuna spiegazione sulla durata scelta. Questa omissione costituisce un vizio di motivazione che rende illegittima la decisione su quel punto. Per questo motivo, la Suprema Corte ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della durata delle pene accessorie, rinviando il caso a un’altra sezione della Corte d’appello di Genova per un nuovo giudizio che dovrà colmare questa lacuna motivazionale.

Conclusioni

Questa sentenza è un’importante conferma del principio di legalità e del diritto di difesa. Sancisce che ogni decisione del giudice che implichi una discrezionalità, come la scelta della durata di una pena entro una forbice edittale, deve essere trasparente e giustificata. L’obbligo di motivazione non è una mera formalità, ma uno strumento essenziale per permettere all’imputato di comprendere le ragioni della condanna e per consentire un controllo sulla correttezza dell’esercizio del potere giurisdizionale. La pronuncia chiarisce che anche in presenza di un accordo sulla pena principale, i diritti dell’imputato riguardo agli altri aspetti della condanna, come le pene accessorie, devono essere pienamente garantiti.

Un giudice d’appello può applicare pene accessorie che non erano incluse in un accordo sulla pena (concordato in appello)?
Sì, il giudice può e deve applicare d’ufficio le pene accessorie che la legge prevede come conseguenza obbligatoria della condanna, anche se non sono state oggetto di specifico accordo tra le parti.

È sufficiente che un giudice applichi una pena accessoria senza specificare perché ne ha scelto una determinata durata?
No. Se la legge prevede una durata variabile per la pena accessoria (ad esempio, da uno a tre anni), il giudice ha l’obbligo di motivare la sua scelta, spiegando perché ha ritenuto congrua quella specifica durata in base alla gravità del reato e alla personalità del condannato.

Qual è stata la decisione finale della Corte di Cassazione in questo caso?
La Corte ha annullato la sentenza della Corte d’appello, ma solo nella parte relativa alla durata delle pene accessorie. Ha quindi rinviato il caso alla stessa Corte d’appello (in diversa composizione) affinché proceda a un nuovo giudizio sul punto, fornendo una motivazione adeguata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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