Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 30019 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 30019 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 29/05/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
NOME, nato a Malta DATA_NASCITA
COGNOME NOME, nato a Tropea il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 25/05/2023 della Corte di appello di Milano;
letti gli atti del procedimento, il ricorso e la sentenza impugnata; udita la relazione del consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi; lette le conclusioni scritte del difensore del ricorrente COGNOME, AVV_NOTAIO, che ha chiesto l’accoglimento del proprio ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Milano, accogliendo la richiesta concordata tra le parti a norma dell’art. 599-bis, cod, proc. pen., previa rinuncia ai motivi d’appello diversi da quelli relativi al trattamento sanzionatorio, ha rideterminato in quattro anni e tre mesi di reclusione la pena principale irrogata a NOME COGNOME dal Tribunale di Milano, con sentenza del 29 gennaio 2020, per vari delitti di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e di abuso d’uffici
confermando GLYPH l’applicazione GLYPH nei GLYPH suoi GLYPH confronti delle GLYPH pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, a norma dell’art. 317-bis, cod. pen..
Nei confronti di NOME COGNOME, invece, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato estinti per prescrizione alcuni reati di abuso d’ufficio (capi D3, D5, D8 e D9 dell’imputazione) e lo ha assolto dall’imputazione di partecipazione ad associazione per delinquere (capo A); ne ha confermato, invece, la condanna per un reato di abuso d’ufficio (capo D11).
Si tratta di vicende maturate all’interno dell’Ufficio immigrazione della Questura di Milano e riguardanti la gestione, in violazione della relativa disciplina normativa, delle pratiche di permesso di soggiorno per cittadini stranieri.
NOME era un appartenente alla Polizia di Stato, mentre COGNOME un impiegato civile, ambedue ivi in servizio.
Attraverso i rispettivi difensori, essi impugnano tale decisione.
La difesa di NOME rassegna due doglianze.
2.1. Con la prima, invoca la declaratoria di estinzione per prescrizione per due dei reati oggetto di condanna (capi Gli e H), essendo il relativo termine decorso successivamente alla sentenza impugnata, nelle more del presente ricorso.
2.2. La seconda consiste nella violazione di legge, nella parte in cui la sentenza ha confermato l’applicazione delle pene accessorie perpetue previste dall’art. 317bis, cod. pen., e nel vizio della motivazione con la quale è stata dichiarata manifestamente infondata l’eccezione d’illegittimità di tale norma di legge in relazione agli artt. 3 e 27, Cost..
Il ricorso richiama la giurisprudenza costituzionale che si è espressa nel senso della tendenziale incompatibilità delle pene fisse con i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini nonché di proporzionalità ed adeguatezza della pena alla differente gravità delle condotte da sanzionare, nel rispetto della funzione rieducativa della stessa, ed evidenzia come la disposizione censurata sia destinata a trovare applicazione in situazioni di valenza offensiva del tutto differente, risultando perciò manifestamente irragionevole.
Rileva, inoltre, con riferimento al caso specifico, che detta pena accessoria precluderebbe al NOME di esercitare un’attività lavorativa dignitosa ed adeguata al suo percorso di studi, in contrasto con la funzione rieducativa e strumentale al reinserimento sociale delle pene, prevista in Costituzione; lamenta, altresì, come la Corte distrettuale non abbia tenuto in considerazione il ruolo marginale di costui nella vicenda delittuosa, le modeste utilità ritrattene, la sua incensuratezza, la sua spontanea dissociazione da quel contesto, il suo comportamento processuale corretto e soprattutto quello tenuto successivamente al reato (conseguimento
della laurea, frequentazione di un corso professionale, riammissione in Polizia), sintomatico della sua volontà di lasciarsi alle spalle la vicenda delittuosa oggetto del processo.
Il ricorso, infine, si confronta con i due ulteriori argomenti utilizzati dalla Corte d’appello per respingere l’eccezione d’incostituzionalità, ovvero: la possibilità per il condannato di ottenere l’estinzione delle pene accessorie attraverso l’utile esperimento di misure alternative alla detenzione, a norma dell’art. 47, ord. pen., che priverebbe di rilevanza nel caso concreto la questione; la circostanza per cui tale eccezione sia stata già sollevata dalla Corte di cassazione, venendo dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale (sent. n. 232 del 2021).
Replica il ricorrente: che l’accesso alle misure alternative alla detenzione non è automatico, essendo pur sempre rimesso alla valutazione del magistrato di sorveglianza; che l’estinzione, per effetto del positivo svolgimento delle stesse, anche delle pene accessorie non è previsto dalla legge ma rappresenta solo una linea interpretativa della giurisprudenza; e che, infine, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità qui in discussione non perché l’abbia ritenuta infondata, ma solo per difetto di rilevanza in relazione alla decisione del caso concreto, senza pronunciarsi, dunque, sulla conformità o meno della norma censurata alla Carta costituzionale.
Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME consta di cinque motivi.
3.1. I primi due denunciano violazione di legge e vizi della motivazione, nella parte relativa alla ritenuta qualifica di incaricato di pubblico servizio.
Si lamenta che la Corte d’appello avrebbe valorizzato esclusivamente una “riservata” della dirigente dell’ufficio contenente l’indicazione delle mansioni attribuite al ricorrente, senza tuttavia specificarne il contenuto e senza, comunque, spiegare perché dovesse darsi prevalenza alla stessa rispetto alle diverse informazioni invece ricavabili dalle testimonianze della medesima dirigente e di altri colleghi, che hanno illustrato le attività da quegli effettivamente svolte Passando, dunque, in rassegna ciascuna delle mansioni indicate in quel documento e le anzidette testimonianze, il ricorso rappresenta come l’imputato in realtà svolgesse compiti impiegatizi di mero ordine, sostanzialmente esecutivi di disposizioni altrui, senza un effettivo spazio di autonomia, non potendo perciò essergli attribuita l’anzidetta qualifica.
3.2. Con il terzo motivo si deducono i medesimi vizi, per avere la Corte d’appello omesso di valutare una memoria integrativa della difesa, ritualmente depositata, in cui veniva ulteriormente argomentata l’assenza dell’anzidetta qualifica soggettiva dell’imputato.
3.3. Violazione di legge e vizi di motivazione vengono altresì denunciati, con il quarto motivo, in relazione al ritenuto dolo dell’abuso d’ufficio.
Anzitutto, tale punto della decisione non si concilia con l’esclusione, da parte della stessa sentenza, del dolo di partecipazione all’associazione per delinquere: se – secondo la stessa Corte d’appello – COGNOME non sapeva degli abusi commessi dai poliziotti nella gestione delle pratiche, non è logico ritenere che, con specifico riferimento a quella oggetto dell’imputazione D11), egli sia stato consapevole della ragione per la quale uno di costoro, tale COGNOME, gli ha chiesto di farla sbloccare, conformemente, del resto, a quelle che erano le sue mansioni.
In tutti i casi a lui addebitati, il ricorrente si è limitato ad adempiere ad u ordine rivoltogli da un superiore gerarchico, senza poter prevedere che sarebbe stato poi rilasciato da altri un permesso illegittimo, esulando tale atto dai suoi compiti.
Né, in ragione di tale suo ruolo di mero ordine, egli era in grado di avvedersi dell’inosservanza delle regole sulla ripartizione della competenza territoriale tra i vari uffici di polizia, che la sentenza individua come una delle violazioni di legge rilevanti ex art. 323, cod. pen..
3.4. Con l’ultimo motivo, il ricorrente si duole dei medesimi vizi in relazione all’elemento oggettivo dei reati, per tutte le condotte oggetto d’addebito, anche quelle dichiarate estinte per prescrizione, sostenendo l’evidenza della loro insussistenza.
Quanto al capo D11), l’unico non dichiarato estinto, egli deduce di essere rimasto estraneo alla gestione della relativa pratica, essendosi limitato ad eseguire un ordine del suo superiore COGNOME, poi disinteressandosene dell’esito.
I restanti addebiti si fonderebbero, invece, esclusivamente su alcuni contatti tra lui ed un cittadino cinese interessato alle relative pratiche, dei quali, però, i contenuto è ignoto o non nitido, e comunque non immediatamente rappresentativo di una gestione illecita della pratica.
Ha depositato requisitoria scritta il Procuratore AVV_NOTAIO, concludendo per l’inammissibilità di entrambi i ricorsi.
Ha depositato memoria e conclusioni scritte la difesa di COGNOME, sostanzialmente ribadendo le doglianze relative al difetto di qualifica soggettiva dell’imputato, all’assenza del dolo dell’abuso d’ufficio ed all’evidente non configurabilità del reato in tutti i casi oggetto d’improcedibilità per prescrizione.
Quanto, poi, al capo D11), rileva altresì che la sentenza non avrebbe individuato alcuna specifica norma di legge violata: infatti, il riferimento, iv contenuto, alle norme del Testo unico sull’immigrazione è del tutto generico;
mentre la violazione delle regole sulla competenza amministrativa non è rilevante, avendo il legislatore inteso dar rilievo, ai fini dell’art. 323, cod. pen., alla s violazione di legge e non anche agli altri vizi dell’atto amministrativo, tra cui l’incompetenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso dell’imputato NOME è inammissibile.
La manifesta infondatezza del secondo motivo di ricorso – di cui si dirà al paragrafo successivo – rende inammissibile il primo, cori cui si deduce la prescrizione di alcuni reati maturata nelle more tra la sentenza d’appello e la presentazione del ricorso per cessazione.
L’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, infatti, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266).
Dunque, il secondo motivo del ricorso di COGNOME è manifestamente infondato nella parte in cui deduce la violazione del disposto dell’art. 317 -bis, cod. pen., essendo stata a lui inflitta una pena superiore alla soglia prevista da tale disposizione di legge e per una fattispecie di reato dalla stessa espressamente indicata.
È inammissibile, inoltre, la questione di legittimità costituzionale di tale disposizione normativa, proposta in via subordinata.
La difesa ricorrente sospetta d’incostituzionalità l’applicazione automatica nonché la misura fissa e sproporzionata delle pene accessorie perpetue previste dall’art. 317 -bis, cod. pen., a carico dei condannati per un ampio catalogo di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, tra cui – per quanto d’interesse – la corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio (art. 319, cod. pen.).
Essa sostanzialmente richiama e fa proprie le considerazioni rassegnate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 222 del 25 settembre 2018, e condivise anche dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 28910 del 28/02/2019, Suraci, Rv. 276286, entrambe specificamente relative alle pene accessorie previste per i reati fallimentari, ma contenenti princìpi sicuramente estensibili all’intero genus delle pene accessorie; richiama, inoltre, gli argomenti con i quali questa Corte ha sollevato analoga questione proprio con riferimento al medesimo
art. 317-bis, tuttavia dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale per difetto di rilevanza (Cassazione, Sez. 6, ord. 30/12/2020; Corte cost., sent. n. 232 del 2021).
Nella parte in cui lamenta l’automatismo nell’applicazione delle pene accessorie di che trattasi, l’eccezione d’incostituzionalità è manifestamente infondata.
La Corte costituzionale, infatti, nella predetta sentenza del 2018, non censura tale profilo, ma piuttosto la determinazione in misura fissa di quelle pene (v. infra, § 9 ).
D’altronde, la stessa “sentenza Suraci” delle Sezioni unite non manca di osservare che il principio di fondo dell’automatismo applicativo ispira tutta la regolamentazione delle pene accessorie. Se ne trae conferma dalla formulazione dell’art. 20, cod. pen., secondo cui esse «conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa», essendo in effetti rimessa al giudice la scelta discrezionale della loro applicazione soltanto in casi limitati e residuali (uno di questi è proprio quello previsto, per alcuni reati propri dei pubblici ufficiali, dall’a 445, comma 1-ter, cod. proc. pen., valorizzato dalla ricordata sent. n. 232 del 2021 della Corte costituzionale per dedurne l’irrilevanza della questione di legittimità dell’art. 317-bis, cit., sollevata da questa Corte nel 2020).
Là dove, invece, si duole della misura fissa e perpetua delle pene accessorie, la questione di costituzionalità proposta dall’imputato risulta priva dell’indispensabile requisito della rilevanza ai fini della definizione del processo.
A norma dell’art. 23, secondo comma, legge 11 marzo 1953, n. 87, infatti, il presupposto essenziale per l’esperimento dell’incidente di costituzionalità, prim’ancora della non manifesta infondatezza della questione, è rappresentato dall’impossibilità di definizione del giudizio a quo indipendentemente dalla risoluzione di quella, mentre così non è nel caso in rassegna.
Il dubbio di compatibilità costituzionale sollevato dall’imputato è irrilevante, anzitutto, se riferito al testo attualmente vigente del dell’art. 317-bis, cit., introdotto dalla legge n. 3 del 2019, il quale prevede la possibilità di applicare la pena accessoria temporanea in luogo di quella perpetua, indipendentemente dalla misura della pena principale, qualora vengano riconosciute le circostanze attenuanti speciali previste dal successivo art. 323-bis (particolare tenuità del fatto o collaborazione a fini di giustizia).
Considerato, dunque, che tali circostanze attenuanti non solo non sono state riconosciute, ma non ne è stata mai da lui prospettata neanche l’applicazione,
nemmeno nell’accordo sulla pena ex rt. 599-bis, cod. proc. pen., raggiunto con il Pubblico ministero in grado di appello, la verifica di costituzionalità richiesta non si presenta indispensabile ai fini della decisione, non essendo stata sperimentata dall’interessato la possibilità di applicazione di uno strumento di mitigazione del trattamento sanzionatorio, accordato dalla legge per evitare l’applicazione della norma da lui sospettata d’illegittimità costituzionale perché sproporzionata per eccesso rispetto alla gravità obiettiva del fatto di reato da lui commesso.
Esclusa la configurabilità delle ipotesi attenuate previste dal ricordato art. 323-bis, la disciplina applicabile risulta, allora, quella dell’art. 317-bis, cit., nella diversa formulazione vigente all’epoca dei fatti (anni 2014-2016), in quanto lex mitior rispetto all’attuale (art. 2, quarto comma, cod. pen.).
Secondo quest’ultima, infatti, la pena accessoria temporanea presuppone l’irrogazione di una pena principale non superiore a due anni di reclusione o come già detto – il riconoscimento delle sole circostanze attenuanti speciali di cui al successivo art. 323-bis e non di altre; inoltre, ne è prevista una durata minima, indipendente dalla misura della pena principale ed anche superiore a questa (salvo, eventualmente, che nell’ipotesi del riconoscimento dell’attenuante della collaborazione, a norma del secondo comma dell’art. 323-bis, cit.).
Invece, nel testo previgente dell’art. 317-bis, la soglia di pena principale che determinava l’applicazione temporanea della pena accessoria era fissata nella reclusione inferiore a tre anni, così determinata per effetto dell’applicazione di qualsiasi circostanza attenuante; inoltre, non vi era indicazione di limiti edittali sicché la durata veniva modulata su quella della pena principale, secondo la regola AVV_NOTAIO dell’art. 37, cod. pen..
È tale disposizione normativa, allora, quella che in effetti dovrebbe essere sottoposta a scrutinio di costituzionalità.
Anche avendo riguardo, però, alla disciplina previgente clel ridetto art. 317bis, l’esito non muta, poiché comunque la questione sollevata difetta di rilevanza ai fini del giudizio.
La difesa deducente, infatti, non soltanto non si duole dell’irrogazione di una pena principale superiore alla soglia prevista per l’applicazione della pena accessoria temporanea, avendone anzi liberamente concordato la misura con il Pubblico ministero, ex art. 599-bis, cod. proc. pen.; ma – ed è quello che più conta – non censura detta pena principale come iniqua rispetto al grado di offensività del fatto e tale, perciò, da rendere sproporzionata, rispetto alla gravità concreta dell’illecito commesso, la durata perpetua della pena accessoria che ne è derivata.
9.1. Occorre tenere presente che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 222 del 2018, su cui il ricorrente essenzialmente fonda la propria eccezione, ha ritenuto suscettibile di sindacato la discrezionalità del legislatore nella determinazione del trattamento sanzionatorio soltanto nel limite nella manifesta irragionevolezza, da intendersi superato allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato e, come tali, contrastanti con gli artt. 3 e 27 della Costituzione. Quindi, ha precisato che «in linea di principio» – e quindi non sempre e comunque – la durata fissa delle pene accessorie non appare compatibile con i principi costituzionali di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio, i quali postulano che la risposta punitiva appaia proporzionata ed il più possibile individualizzata, in ossequio al principio costituzionale di “personalità” della responsabilità penale, di cui all’art. 27, primo comma, Cost.; e pertanto – ha conclusivamente statuito – le previsioni sanzionatorie rigide non appaiono “in linea con il volto costituzionale del sistema penale”, salvo che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la specie e la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente proporzionata rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato.
9.2. Tanto premesso, il criterio selettivo individuato dal previgente art. 317bis per l’applicazione di una pena accessoria perpetua anziché temporanea non presenta tratti di irragionevolezza patente ed indiscutibile, avendosi riguardo, da un canto, alla significativa soglia di pena prevista, tanto più perché riferita, in caso di continuazione, alla pena-base per la violazione più grave e non a quella complessivamente inflitta (così, a mero esempio fra le molte, Sez. 5, n. 28584 del 14/03/2017, COGNOME, Rv. 270240); e, dall’altro, all’immediata connessione funzionale tra l’interdizione dai pubblici uffici e la tipologia di reati cui essa accede Tenuto conto, infatti, della funzione preventiva tipicamente assegnata dal legislatore alle pene accessorie, la preclusione dell’esercizio di funzioni pubbliche per chi, nello svolgimento delle medesime, abbia commesso reati di significativa rilevanza obiettiva ed in concreto puniti con pene detentive di durata pluriennale non si presenta, in sé e per sé, manifestamente sproporzionata.
Ne consegue che, perché il dubbio di costituzionalità sollevato dall’imputato potesse risultare decisivo ai fini dell’esito del giudizio, gravava su di lui l’onere illustrare le ragioni per cui la sua condotta delittuosa fosse, in concreto, oggettivamente e considerevolmente meno grave rispetto a quelle generalmente rientranti nel campo di applicazione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici delineato dalla norma di legge censurata, così da fa ritenere l’irrogazione di quella pena accessoria manifestamente sproporzionata rispetto alla portata offensiva di
tale sua condotta e, di conseguenza, “non in linea con il volto costituzionale del sistema penale”.
Dal mancato assolvimento di tale onere discende, dunque, l’irrilevanza, ai fini della definizione del presente giudizio, della questione di legittimità costituzionale proposta dall’imputato.
All’inammissibilità del suo ricorso consegue obbligatoriamente per NOME – ai sensi dell’art. 616, cod. proc. pen. – la condanna al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta inconsistenza delle doglianze, va fissata in tremila euro.
Nei confronti dell’imputato COGNOME, invece, la sentenza impugnata dev’essere annullata senza rinvio, perché il delitto a lui ascritto, successivamente ad essa, si è estinto per intervenuta prescrizione.
La sua condotta risale, infatti, al 16 ottobre 2015 ed il termine massimo di prescrizione, secondo la legge vigente al tempo della stessa, è pari a sette anni e sei mesi da allora, al quale vanno aggiunti 170 giorni durante i quali la sua decorrenza è rimasta sospesa (v. pag. 67, sent.): con l’effetto che tale termine è spirato in data 3 ottobre 2023.
11.1. Tanto premesso, le sue doglianze non possono trovare accoglimento.
In presenza di una causa di estinzione del reato, l’assoluzione – a norma dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. – può pronunciarsi soltanto nel caso in cui le circostanze idonee ad escludere la rilevanza penale della condotta emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione ictu ocu/i, che a quello di “apprezzamento” e sia, quindi, incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274).
Nello specifico, tale evidenza immediata è ben lungi dal potersi rilevare, già solo per come le doglianze sono proposte: la stessa difesa ricorrente, infatti, dà atto dell’esistenza di risultanze probatorie contrastanti sulle mansioni effettivamente svolte dall’imputato e sulla concreta incidenza della sua condotta nello svolgimento della pratica amministrativa oggetto dell’imputazione, che renderebbero indispensabile una non agevole indagine finalizzata alla verifica della qualifica soggettiva pubblica richiesta dalla norma incriminatrice.
11.2. Per converso, le deduzioni difensive non si presentano palesemente infondate nella parte in cui invocano una più puntuale precisazione delle norme di legge che si assumono violate; così come avrebbe meritato un supplemento di motivazione il punto – sebbene non toccato dal ricorso – dell’eventuale assenza, da parte dei destinatari dei permessi di soggiorno, di un loro diritto al rilascio degli stessi, e quindi della natura contra ius, e non soltanto non iure, dell’attività istituzionale dell’imputato (c.d. “doppia ingiustizia” del vantaggio).
Ne consegue che l’impugnazione di COGNOME non può ritenersi manifestamente infondata od altrimenti inammissibile, con l’effetto che, essendosi validamente formato il rapporto di impugnazione, dev’essere rilevata e dichiarata la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata (vds. Sez. U, n. 32 del 2000, D.L., cit.).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME, perché il reato di cui al capo D11) è estinto per prescrizione.
Dichiara inammissibile il ricorso di NOME, che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 29 maggio 2024.