Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 25828 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 25828 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 28/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato in Marocco il 9/10/1977 avverso la sentenza del 30/10/2024 della Corte d’appello di Bologna; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa in data 7/4/2023, il Tribunale di Reggio Emilia ha dichiarato NOME COGNOME -originariamente imputato per il reato di rapina impropria (art. 628, comma 2, cod. pen.), nonché per la contravvenzione di porto di strumenti atti ad aprire o sforzare serrature (art. 707 cod. pen.) -colpevole dei reati di minaccia aggravata (art. 612, comma 2, cod. pen.) e tentato furto (artt. 56, 624 cod. pen.), riconoscendogli le circostanze attenuanti generiche in regime di equivalenza rispetto alla recidiva reiterata e specifica contestata, applicando, infine, la diminuente per il rito abbreviato. Per l’effetto, lo condannava alla pena di mesi 9 e giorni 10 di reclusione.
La Corte d’appello di Bologna, con ordinanza del 18/09/2023, aveva
inizialmente dichiarato l’appello inammissibile per omesso deposito dell’elezione o della dichiarazione di domicilio da parte dell’imputato. Tuttavia, la quinta Sezione di questa Corte, con sentenza del 9/1/2024, ha annullato senza rinvio tale ordinanza di inammissibilità e disposto la trasmissione degli atti alla Corte d’Appello di Bologna per il giudizio.
A seguito di ciò, la Corte d’Appello di Bologna, con la sentenza qui impugnata, n. 6066/2024 emessa in data 30/10/2024, ha riformato parzialmente l’appellata sentenza, riconoscendo l’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. (danno patrimoniale di speciale tenuità) in regime di prevalenza sulla detta recidiva. Per l’effetto, ha rideterminato la pena finale in mesi 5 e giorni 10 di reclusione, confermando nel resto la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bologna ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato , chiedendone l’annullamento sulla base di due motivi.
3.1. Col primo ha dedotto la nullità della sentenza per erronea applicazione de ll’art. 337 cod. proc. pen., essendo la querela per il reato di tentato furto stata sporta da persona non legittimata.
COGNOME NOME, figlio e collaboratore del titolare dell’esercizio commerciale, avrebbe proposto querela in forza di una semplice delega, insufficiente e non equiparabile alla procura speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata, come richiesto dal combinato disposto di cui agli artt. 337 e 333, comma 2, cod. proc. pen.
A parere del ricorrente, la legittimazione a sporgere querela nei casi di furto spetterebbe al proprietario dei beni o a chi ne abbia il “possesso penalistico”, inteso come detenzione qualificata che implica l’autonomo potere di custodire, gestire o disporre della cosa: potere non attribuibile a COGNOME NOME, mero collaboratore familiare privo di stabile e continuativo potere di sorvegliare e custodire i beni, a differenza di un cassiere o di un responsabile della sicurezza.
La Corte d’appello, insomma, non avrebbe motivato sull ‘ effettivo potere di signoria sulle cose custodite in capo al querelante, espandendo eccessivamente la legittimazione a proporre querela, costituente diritto personalissimo.
3.2. Col secondo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazioni di legge in relazione al trattamento sanzionatorio.
Il Tribunale, infatti, avrebbe motivato la determinazione della pena base (di 10 mesi di reclusione, vicina al massimo edittale per il reato più grave di minaccia aggravata) facendo riferimento al “significativo valore dei beni sottratti” e alla “estrema gravità delle minacce” , senza un’adeguata e specifica motivazione, necessaria laddove ci si discosti di molto (come nella specie) dal minimo edittaele.
Al riguardo si sottolinea, ancora, che il riconoscimento, da parte della Corte territoriale, dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen., contraddirebbe logicamente il riferimento del giudice di primo grado al “significativo valore dei beni sottratti”, quale indice giustificativo della severità della pena, e renderebbe inadeguato il rinvio per relationem alla sentenza di primo grado da parte di quella d’appello .
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.
Il bene giuridico protetto dal delitto di furto è individuabile non solo nella proprietà o nei diritti reali personali o di godimento, ma anche nel possesso – inteso come relazione di fatto che non richiede la diretta fisica disponibilità – che si configura anche in assenza di un titolo giuridico e persino quando esso si costituisce in modo clandestino o illecito, con la conseguenza che anche al titolare di tale posizione di fatto spetta la qualifica di persona offesa e, di conseguenza, la legittimazione a proporre querela (Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, COGNOME, Rv. 255975-01, sulla titolarità, in capo al responsabile di un supermercato, del potere di proporre querela). Insomma, il possesso tutelabile in sede penale ha una accezione più ampia di quella civilistica, includendo non solo il possesso animo domini , ma qualsiasi rapporto di fatto con la cosa esercitato in modo autonomo ed indipendente dalla titolarità del bene quale espressione di un legittimo ius possessionis (così, ancora, Sez. 6, n. 1037 del 15/06/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 253888-01, che ha ritenuto che il responsabile di un esercizio commerciale, pur sprovvisto di poteri di rappresentanza o institori conferiti dal proprietario dei beni posti in vendita, avesse legittimazione alla proposizione della querela per i fatti di furto della merce detenuta ed esposta al pubblico; per recenti applicazioni del medesimo principio si vedano, tra le tante, Sez. 4, n. 7193 del 20/12/2023, dep. 2024, Rv. 285824-01; Sez. 1, Sentenza n. 28907 del 10/4/2024, non massimata; Sez. 5, Sentenza n. 5144 del 20/12/2023, dep. 2024, non massimata; ed ancora Sez. 5, n. 3736 del 04/12/2018, dep. 2019, Rv. 275342-01, sul potere di proporre querela da parte del responsabile della sicurezza di un esercizio commerciale, nonché Sez. 5 n. n. 11478 del 28/02/2023, non massimata, sull’analogo potere attribuito al capo reparto di esercizio commerciale ).
Da ultimo, in un caso sovrapponibile a quello in esame (di querela presentata da un mero dipendente di un esercizio commerciale), è stato da questa Corte ribadito che «anche il dipendente dell’esercizio commerciale in cui si è consumato il reato è titolare del diritto di querela, indipendentemente dalla formale
attribuzione del potere di rappresentanza legale del datore di lavoro, poiché ciò che rileva ai fini della procedibilità dei furti commessi all’interno degli esercizi commerciali è che il querelante sia titolare di una posizione di detenzione qualificata del bene, che ne comporti l’autonomo potere di custodia, gestione ed alienazione» (Sez. 4, Sentenza n. 10463 del 21/1/2025, non massimata).
Del resto, il dipendente di un esercizio commerciale ha tutto l’interesse alla salvaguardia del patrimonio del suo datore di lavoro, di cui ha la detenzione qualificata e che custodisce, in suo nome e vece, dovendo, in caso di sottrazione di merce, dar conto della sua condotta diligente e conforme agli obblighi su di lui gravanti, e rispondendo, in caso opposto, della detta sottrazione nei riguardi del datore di lavoro, come più volte affermato dalla giurisprudenza civile di questa Corte (tra le tante, si vedano: Sez. L., n. 7861 del 26/10/1987, Rv. 455660-01 e Sez. L, n. 1037 del 15/03/1977, Rv. 384675-01).
La Corte territoriale ha dato atto che COGNOME NOME ‘prestava la propria attività all’interno del supermercato’ essendo, peraltro, il figlio del suo titolare -ed aveva, come tale, la ‘detenzione qualificata sui beni in custodia’, e, dunque, ‘era un soggetto legittimato a proporre valida querela’ (p. 5 sentenza d’appello).
Orbene, il ricorrente non si confronta adeguatamente con la motivazione della Corte d’appello, che appare logica e congrua, nonché conforme ai detti principi di diritto e, pertanto, immune da vizi di legittimità: così relegando la doglianza alla detta inammissibilità per genericità e manifesta infondatezza.
Il secondo motivo (inerente carenze motivazionali nella determinazione della pena) è fondato.
Va premesso che la pena è stata calcolata certamente in modo errato essendo evidente che il tentato furto fosse reato ben più grave della minaccia aggravata, essendo il primo punito con pena da 2 mesi a 2 anni di reclusione.
Anche il bilanciamento tra circostanze aggravanti ed attenuanti avrebbe dovuto essere (teoricamente) operato in relazione a tutte e non solo, dunque, tra la recidiva e le circostanze attenuanti generiche. Sicché, una volta individuato (seppur per errore, come detto), quale reato più grave, quello di minaccia, la Corte territoriale avrebbe dovuto bilanciare anche l’aggravante di cui al comma 2 dell’art. 612 cod. pen. (in tal senso si veda, ad esempio, Sez. 5, n. 42267 del 09/05/2014, Naviglio, Rv. 262103-01).
Tuttavia, si tratta di errori che non hanno comportato l’applicazione di una ‘pena illegale’.
Questa, invero, si determina soltanto nel caso in cui si eccedano i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e seguenti, nonché 65 e 71 e seguenti, cod.
pen., oppure i limiti edittali previsti per le singole fattispecie di reato, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge (così Sez. U, n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 283886-01, in relazione a procedimento di applicazione della pena non illegale pur se conseguente ad erronea comparazione tra circostanze eterogenee).
Di recente, si è specificato ulteriormente, e proprio in tema di reato continuato, che non sussiste illegalità della pena nel caso in cui, nel determinarla, il giudice, pur indicando una pena base che esorbiti dalla cornice edittale normativamente prevista, non ecceda, poi, nel determinare quella finale, i limiti generali sanciti dagli artt. 23 e ss. 65, 71 e ss. e 81, commi terzo e quarto, cod. pen., ribadendosi che a nulla rilevano i passaggi intermedi che conducono alla sua determinazione, ove pure caratterizzati da computi effettuati in violazione di legge (Sez. 2, n. 15438 del 07/02/2024, Rv. 286287-01).
Nella specie, la pena finale in concreto irrogata rientra appieno tra i limiti edittali previsti dalle menzionate disposizioni: sicché la stessa non può dirsi illegale.
E non risultando proposte impugnazioni in relazione ai detti erronei passaggi intermedi, in applicazione del principio devolutivo di cui agli artt. 597 e 609 cod. proc. pen. va semplicemente preso atto che il reato più grave preso come base di partenza dalla Corte territoriale sia quella di cui all’art. 612, comma 2, cod. pen. , punito con la reclusione sino a un anno.
Ciò detto, le doglianze mosse col ricorso sono fondate.
È noto che, in tema di determinazione della pena, quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale e, soprattutto, dal medio edittale tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 cod. pen., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio (Sez. 1, n. 24213 del 13/03/2013, COGNOME, Rv. 255825-01 con riferimento al minimo edittale; sulla necessità che vi sia adeguata motivazione solo nel caso di determinazione della pena in misura superiore alla media edittale, si vedano, tra le tante: Sez. 3, n. 29968 del 22/2/2019, Rv. 276288-01; Sez. 5, n. 5582 del 30/9/2013, dep. 2014, Rv. 259142-01).
A fronte delle censure mosse dal ricorrente con l’atto d’appello, in relazione alla determinazione della pena base, nulla ha statuito la Corte territoriale, nonostante la stessa fosse ampiamente al di sopra anche del medio edittale.
Né, al riguardo, può ritenersi soddisfatto l’onere motivazionale con il richiamo della scarna, sul punto, motivazione della sentenza di primo grado, che
si limita ad evidenziare la ‘estrema gravità delle minacce proferite’ e i l ‘male ingiusto prospettato, all’evidenza della massima gravità possibile’ (p. 4 sentenza Tribunale).
Si tratta, effettivamente, di minacce di morte e lesioni gravissime: tuttavia, a parte il loro -oggettivo -grave tenore , che ha indotto a collocarle nell’alveo del comma 2 dell’art. 612 cod. pen., n ull’altro si dice circa la sussistenza di ulteriori evidenze fattuali che connotino di gravità tale il delitto in esame da indurre (anche) a discostarsi così sensibilmente dalla media edittale.
Al riguardo, deve considerarsi che la gravità della minaccia va accertata avendo riguardo a tutte le modalità della condotta, ed in particolare al tenore delle eventuali espressioni verbali, al contesto e al momento nel quale esse si collocano (Sez. 5, n. 43380 del 26/09/2008, Rv. 242188-01; confronta, negli stessi termini Sez. 5, n. 8193 del 14/01/2019, COGNOME, Rv. 275889-01; Sez. 5, n. 9392 del 16/12/2019, dep. 2020, Rv. 278664-01), nonché alla personalità dei soggetti coinvolti (Sez. 5, n. 44382 del 29/05/2015, COGNOME, Rv. 266055-01, in relazione a minaccia di morte proferita da un pluripregiudicato nei confronti di due militari): tanto al fine di verificare se, ed in quale grado, la minaccia abbia concretamente ingenerato timore o turbamento nella persona offesa o, comunque, fosse potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima, giudizio da operare con criterio medio (non essendo necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, trattandosi di reato di pericolo: Sez. 2, n. 21684 del 12/02/2019, Rv. 275819-02).
Orbene, alla luce del menzionato rilevante discostamento anche dal medio edittale di cui all’art. 612, comma 2, cod. pen. , il mero richiamo della gravità in sé delle frasi minacciose e senza alcun riferimento a tutte le anzidette modalità della condotta è palesemente inadeguato: non dando contezza di quella peculiare gravità che giustifichi un così evidente allontanamento dal minimo e medio edittale ed essendo la gravità in sé parametro generico idoneo a collocare il fatto nell’alveo del comma 2, anziché del comma 1 dell’art. 612 cod. pen., non certo vicino al massimo previsto dal menzionato comma 2.
3. La sentenza va, pertanto, annullata e il giudice del rinvio dovrà operare una nuova determinazione della sanzione da irrogare, considerate le menzionate coordinate in diritto e scevra dai citati vizi di motivazione: necessariamente partendo, per quanto detto, dalla cornice edittale di cui all’art. 612, comma 2, cod. pen. e chiarendo, nel caso si discosti sensibilmente dal medio edittale, le ragioni di siffatta determinazione.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna. Rigetta nel resto il ricorso.
Così è deciso, 28/05/2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente COGNOME
NOME COGNOME