Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 5639 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 5639 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 10/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME, nato a Napoli il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 13/04/2023 della Corte di appello di Campobasso;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente alle determinazioni sulle sanzioni sostitutive, con rinvio per un nuovo esame e che sia dichiarata l’inammissibilità del ricorso sul resto.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Campobasso rideterminava in due anni la pena irrogata con la sentenza di primo grado a NOME COGNOME per il delitto di calunnia (art. 368 cod. pen.), per aver falsamente denunciato
di non aver emesso alcun assegno bancario, laddove lo aveva consegnato ad NOME COGNOME a titolo di cauzione per la locazione per un immobile, simulando, con ciò, a carico dello stesso COGNOME, pur consapevole della sua innocenza, elementi di prova che lo rendevano agevolmente identificabile e indiziabile come responsabile del delitto di ricettazione.
Avverso la sentenza ha presentato ricorso l’imputato, per il tramite del suo AVV_NOTAIO, rilevando in via preliminare quanto segue.
In appello era stata chiesta l’assoluzione, evidenziando le incongruenze nel narrato della persona offesa. In particolare, sebbene NOME avesse preso in locazione un immobile da NOME nel 2011, l’assegno era stato posto all’incasso nel 2016, e non pochi giorni dopo la restituzione dell’immobile, come affermato dalla parte civile.
Nell’atto di appello si rilevava, inoltre, che l’assegno era compilato a più mani e che era comunque inverosimile fosse stato consegnato a garanzia di un affitto irregolare.
Si deduceva, infine, il difetto dell’elemento soggettivo, in quanto COGNOME aveva riconosciuto di aver sottoscritto l’assegno, ma anche affermato di non sapere come fosse capitato nelle mani di NOME, circostanza confermata dalla teste COGNOME.
Ciò nondimeno, la Corte d’appello, pur riducendo la pena, ha confermato la sentenza di condanna, ritenendo che NOME fosse stato maliziosamente fuorviante, essendosi nella denuncia-querela riferito a NOME in modo da fare apparire il presunto ricettatore una persona sconosciuta e non quella con cui erano invece intercorsi rapporti dal 2009 al 2011.
Del resto, sempre secondo la sentenza impugnata, la prova della consapevolezza dell’innocenza della persona offesa sarebbe stata ravvisabile nella circostanza che NOME aveva negato di conoscere NOME, salvo ricordarsi di lui nelle spontanee dichiarazioni rese nel corso dell’udienza di secondo grado; inoltre, NOME aveva negato l’esistenza di un rapporto di locazione con NOME ed intenzionalmente riconosciuto come propria la firma non solo sull’assegno ma anche sulla scrittura privata, senza però riuscire a fornire una credibile spiegazione alternativa del perché il locatore avesse il possesso del titolo.
Ciò rappresentato, il ricorrente ha dedotto tre motivi.
2.1. Travisamento della prova in relazione alla testimonianza di COGNOME; vizio di motivazione quanto all’esame dell’imputato; omessa motivazione riguardo alle dichiarazioni della parte civile.
La Corte di appello non ha fatto alcun cenno, nella motivazione, alla deposizione della teste COGNOME, commercialista di COGNOME, la quale aveva confermato in udienza che COGNOME, al momento della denuncia, non ricordava di
aver consegnato l’assegno a NOME, il che incide sulla sussistenza dell’elemento soggettivo.
La motivazione è manifestamente illogica anche rispetto a quanto riferito dall’imputato in sede di esame. La Corte ha affermato, infatti, che l’imputato, sia nella denuncia/querela, sia in sede dibattimentale, negava di conoscere COGNOME, salvo smentirsi successivamente, nel corso delle spontanee dichiarazioni in appello. In realtà, durante l’esame, COGNOME aveva detto di ricordare di aver preso in locazione un immobile, anche se negava di aver sottoscritto un contratto, e precisava che, al momento della denuncia, “nella sua testa” NOME non esisteva, sebbene lo conoscesse.
È inoltre manifestamente illogica la motivazione là dove ha affermato che l’assegno era stato compilato e sottoscritto con la stessa grafia e con la stessa penna di colore nero, essendo impossibile che un assegno dato in garanzia nel 2007 prevedesse una data di incasso nel 2016. Peraltro, la stessa persona offesa aveva affermato di aver posto all’incasso l’assegno pochi giorni dopo la restituzione dell’immobile, avvenuta nel 2011, laddove invece trascorsero ben cinque anni tra la restituzione dell’immobile e l’incasso dell’assegno.
La motivazione non ha affrontato nemmeno le contraddizioni in cui è incorsa la persona offesa, costituita parte civile, concernenti: sia la data di incasso dell’assegno rispetto alla restituzione dell’immobile ed il fatto che l’assegno fosse completo; sia l’affermazione che COGNOME non volesse regolarizzare la locazione, quando invece la stessa persona offesa aveva precisato di avere una scrittura privata che avrebbe potuto, quindi, registrare.
2.2. Mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.
La particolare tenuità del fatto è stata esclusa dalla Corte d’appello, oltre che per i precedenti penali dell’imputato, che rivelerebbero un’abitualità nel comportamento illecito, anche perché la calunnia è un reato plurioffensivo che, come tale, incide non soltanto sulla corretta amministrazione della giustizia, ma anche sull’onore dell’incolpato.
Tuttavia, si è trascurato di considerare che: la tenuità dell’offesa va valutata sulla base dei criteri dell’art. 133 cod. pen.; l’abitualità del comportamento presuppone che l’agente abbia violato più volte la stessa disposizione o più disposizioni penali sorrette dalla stessa ratio (e non già una generica capacità delinquere); irrilevante è il carattere plurioffensivo della calunnia, elemento valorizzato dalla Corte d’appello che, però, non trova riscontro nel dato testuale, non potendo la Corte di appello effettuare una valutazione astratta.
2.3 Violazione dell’art. 545-bis cod. proc. pen. e dell’art. 95 del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.
La Corte di appello non si è pronunciata sull’istanza, avanzata durante l’udienza di discussione dal difensore (il 13/04/2023), di sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità, sebbene l’art. 95 d.lgs. 10/10/2022, n. 150, in considerazione della natura sostanziale dell’istituto e in deroga, quindi, al principio del tempus regit actum, consenta di richiedere per la prima volta l’applicazione della pena detentiva anche nel procedimento di appello.
Disposta la trattazione scritta del procedimento, ai sensi dell’art. 23, comma 8, del dl. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. dalla I. 18 dicembre 2020, e successive modificazioni, in mancanza di richiesta, nei termini ivi previsti, di discussione orale, il AVV_NOTAIO generale ha depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.
Anche il difensore del ricorrente ha presentato conclusioni scritte in cui insiste per l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Per una migliore comprensione dei motivi di ricorso e delle risposte alle deduzioni di difensive, è opportuno premettere come dalle due pronunce di merito sia emerso che COGNOME sporse una denuncia in cui affermò essere stato portato all’incasso un assegno firmato con il suo nome, non pagato per difetto di provvista, e che, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, tale denuncia costituì l’espediente per bloccare la circolazione del titolo.
Peraltro, poiché l’imputato era consapevole di simulare una circostanza idonea a far sì che il soggetto cui era consegnato l’assegno (COGNOME) lo avrebbe, in buona fede, portato all’incasso, i giudici di primo e secondo grado hanno desunto che COGNOME dovette anche essersi rappresentato la seria possibilità che NOME venisse, per tale fatto, perseguito per furto aggravato o per ricettazione.
Dagli accertamenti probatori era, infatti, risultato che: NOME ben conosceva NOME, per aver stipulato con lui una scrittura privata per la locazione di un immobile che il primo usò come deposito di macchinari frigoriferi necessari allo svolgimento della sua attività commerciale; quando NOME chiese a NOME di regolarizzare la locazione e di pagare le mensilità insolute, ne ricevette in risposta l’invito ad incassare l’assegno consegnatogli a titolo cauzionale all’inizio del rapporto contrattuale e a risolvere quest’ultimo; di conseguenza, nel 2016, il NOME versò l’assegno senza riuscire a riscuoterne l’importo.
D’altronde, NOME aveva negato di conoscere NOME sia in sede di denuncia/querela, sia TARGA_VEICOLO in sede di escussione dibattimentale, GLYPH ma poi,
contraddittoriamente, offrì una diversa versione nel corso delle spontanee dichiarazioni rese all’udienza dibattimentale in appello.
Sono state, per tali ragioni, ritenute integrate, in capo all’imputato, le componenti oggettive e soggettive del delitto calunnia.
Ciò precisato e fermi i limiti del sindacato di questa Corte, che è giudice della sola legittimità, il primo motivo è inammissibile, in quanto propone una lettura alternativa delle emergenze processuali, senza confrontarsi con la motivazione, completa e non manifestamente illogica, dei giudici di merito.
Questi, infatti, hanno rilevato come dalle indagini fosse emerso con certezza che, contrariamente a quanto dichiarato dall’imputato, quest’ultimo aveva affittato ed usato per due anni il locale di COGNOME (essendo state, tra l’altro, reperite bollette relative alle utenze elettriche, intestate a suo nome).
Hanno evidenziato come l’imputato non avesse pagato alcuna mensilità, il che lascia anche presumere una continuità di contatti tra NOME e NOME e destituisce, dunque, di credibilità la tesi che il ricorrente si fosse ricordato di NOME soltanto in un secondo momento, in sede di spontanee dichiarazioni in appello.
Hanno valorizzato le incertezze e le incongruità nelle dichiarazioni dell’imputato il quale, per giustificare la sua firma sull’assegno, si era spinto ad affermare che era solito firmare tutti gli assegni appena ritirato il carnet in banca e sostenuto la tesi della falsificazione del titolo, compilato con una penna diversa da quella utilizzata per la firma, laddove, invece, il titolo era stato compilato e sottoscritto con la stessa grafia e con la stessa penna di colore nero.
A fronte di tali evidenze, si comprende come i Giudici del merito abbiano, seppur in modo implicito, ritenuto manifestamente irrilevanti quelle che il ricorrente prospetta come incongruità nelle dichiarazioni della persona offesa, relative al momento (posposto nel tempo) in cui il COGNOME portò all’incasso l’assegno (dell’importo di 300,00 euro) consegnato, a suo tempo, a titolo di cauzione.
Vero è, poi, che la Corte di appello non ha risposto specificatamente, nella “parte motiva”, all’obiezione relativa alla deposizione della commercialista del ricorrente (dott.ssa COGNOME). Ne ha però parlato nella “parte in fatto”, riportando il contenuto della testimonianza di cui ha espressamente escluso la decisività («non risolutive erano le dichiarazioni testimoniali rese dal teste della difesa COGNOME NOME»), sulla base di un apprezzamento discrezionale nel merito e pertanto in questa sede insindacabile, poiché logicamente argomentato alla luce delle complessive risultanze probatorie.
Ciò puntualizzato, per completezza, è opportuno infine precisare che neppure residuano dubbi sulla configurabilità della calunnia sotto il profilo – invero, non investito dalle deduzioni difensive – dell’elemento soggettivo, in quanto la radicata
conoscenza tra i due e la comprovata continuità dei reciproci rapporti per un lasso non irrilevante di tempo lasciano agevolmente inferire che il ricorrente si fosse rappresentata l’elevata probabilità che dalla denuncia nascesse un procedimento penale, per reato perseguibile d’ufficio (la ricettazione), a carico della persona offesa (peraltro, il dolo è ritenuto in modo pacifico configurabile nella casistica della falsa denuncia di smarrimento di assegni bancari; ex multis, Sez. 6, n. 8045 del 27/01/2016, Contenti, Rv. 266153; Sez. 6, n. 24997 del 17/04/2013, COGNOME, Rv. 257029; Sez. 6, n. 12604 del 11/12/2012, dep. 2013 COGNOME, Rv. 256000).
Inammissibile è altresì il secondo motivo di ricorso, relativo al mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.).
Si prescinda dalla questione – su cui il ricorrente esprime dubbi invero condivisibili – se il carattere plurioffensivo del delitto di calunnia os aprioristicamente alla configurabilità dell’art. 131-bis cod. pen. (nel senso della possibile applicazione della disposizione di parte generale alla calunnia, sin dall’innalzamento dei limiti di pena nell’art. 131-bis cod. pen., Sez. 6 n. 7573, del 27/01/2023, Arzaroli, Rv. 284241).
Resta il fatto che i Giudici dell’appello hanno argomentato non soltanto dalla natura plurioffensiva del reato, ma facendo anche leva sull’abitualità del comportamento, per come desunta dai precedenti dell’imputato, oltretutto numerosi, valutati «in uno con la condotta posta in essere dal prevenuto», ed escludendo che fosse stata prodotta un’offesa (danno o pericolo) particolarmente tenue per il bene giuridico.
Hanno cioè motivato il proprio convincimento in modo compiuto e non illogico, sottraendolo, pertanto, al sindacato di questa Corte.
4. Il terzo motivo di ricorso è fondato.
4.1. Come precisato in più occasioni da questa Corte, il d.lgs. 10/10/2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia) ha espresso un orientamento di favore per il contenimento della pena detentiva che però non si è tradotto in un sistema di applicazione delle pene sostitutive a mera richiesta dell’interessato. In altre parole, il legislatore ha sì potenziato il sistema delle pene sostitutive, ma si è mosso pur sempre nel solco della continuità con i principi e le linee operative essenziali del sistema delineato nel 1981 dagli artt. 53 ss. della legge 24/10/1981, n. 689: senza, cioè, elidere la discrezionalità del giudice e senza delineare, quindi, un diritto dell’imputato alla sostituzione della pena.
Ciò non toglie che, là dove l’imputato abbia formulato richiesta di pena sostitutiva, il giudice di secondo grado sia tenuto a dar conto delle ragioni per le
quali non sussistono i presupposti per l’applicazione della stessa, mediante un motivato riferimento agli indici individuati dall’art. 133 c.p. (in tal senso, tra l altre, Sez. 6, n. 45099 del 05/10/2023, L., non mass.; Sez. 6, n. 43947 del 19/09/2023, Tarellari, Rv. 285365; Sez. 6, n. 33027 del 10/05/2023, COGNOME, Rv. 285090).
4.2. La stessa sentenza impugnata riporta che, nel caso di specie, c’era stata richiesta di lavoro sostitutivo ai sensi dell’art. 545-bis cod. proc. pen.
Ciò nondimeno, i Giudici nulla replicano a tale richiesta.
4.3. La sentenza va, dunque annullata limitatamente a questo punto, per consentire al giudice del rinvio di fornire argomentata risposta alla richiesta di sostituzione della pena. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile nel resto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla pena sostitutiva, con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Salerno. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Così deciso il 10/01/2024