Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 34445 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 34445 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 06/06/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a CATANIA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 29/02/2024 del TRIBUNALE di CATANIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del PG, COGNOME, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe, emessa il 29 febbraio 2024, il Tribunale di Catania, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha rigettato l’istanza proposta da NOME COGNOME di rideterminazione – a seguito della declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, emessa dalla sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019 – della pena detentiva di anni otto di reclusione, oltre che di euro 30.000,00 di multa, inflittagli dalla Corte appello di Catania con sentenza del 18 maggio 2017, irrevocabile il 17 luglio 2018, in ordine al reato di cui all’art. 73, comma 1, cit., per avere detenuto a fin di spaccio sostanze stupefacenti del tipo cocaina, marijuana e altro.
Il Tribunale ha ritenuto che l’istanza non potesse trovare accoglimento in quanto la rideterminazione della pena per effetto della sentenza della Corte costituzionale era stata già effettuata dalla Corte di appello con l’indicata sentenza.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso il difensore di COGNOME chiedendone l’annullamento e affidando l’impugnazione a un unico motivo con cui ha prospettato la violazione degli artt. 2 cod. pen. e 666 cod. proc. pen., nonché la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui il giudice dell’esecuzione ha affermato che la rideterminazione richiesta era già stata effettuata dalla Corte di appello.
Si era chiarito con l’istanza che la pena minima irrogata all’imputato avrebbe dovuto essere rimodulata a seguito della suddetta sentenza della Corte costituzionale quantificandola in anni sei di reclusione, mentre la Corte di appello, pur essendosi orientata per la concessione del minimo edittale, non aveva applicato la pena di anni sei di reclusione, essendosi pronunciata prima della sentenza emessa nel 2019 dal Giudice delle leggi, che aveva sancito la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 73 cit. nella parte individuava il minimo edittale della relativa pena detentiva in anni otto di reclusione, anziché in anni sei di reclusione.
Di conseguenza – ha opiNOME la difesa – COGNOME, che aveva riportato la condanna alla pena di anni otto di reclusione ed euro 30.000,00 di multa per diversi episodi di violazione dell’art. 73 cit., con la fissazione della pena base quella di anni sette di reclusione ed euro 27.000,00 di multa, aveva diritto, in applicazione degli artt. 132 e 133 cod. pen., a che la pena base venisse fissata in quella di anni sei di reclusione.
Posto ciò, il ricorrente ribadisce l’incongruenza del ragionamento svolto dal giudice dell’esecuzione che ha attribuito la rideterminazione della pena alla Corte
di appello, dato che la relativa decisione era stata resa due anni prima della sentenza della Corte costituzionale.
Il Procuratore generale ha prospettato la declaratoria di inammissibilità del ricorso osservando che la Corte di appello aveva già determiNOME la pena base in una entità inferiore a quella di anni otto di reclusione, comunque riducendo la pena che era stata inflitta ad COGNOME in primo grado, non essendo – il giudice dell’esecuzione – tenuto a rispettare, nella rimodulazione, crite proporzionali di tipo aritmetico.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso si connota per la contrarietà manifesta alle norme invocate dal condanNOME per giustificare l’assunta necessità di rideterminazione in sede esecutiva della pena detentiva a lui inflitta nel giudizio di cognizione, così che l corrispondente doglianza avverso il provvedimento impugNOME si rivela affetta da manifesta infondatezza.
Per il corretto inquadramento della fattispecie su cui è intervenuto il giudice dell’esecuzione con il provvedimento reiettivo oggetto di impugnazione, appare opportuno riepilogare brevemente la vicenda processuale a monte.
2.1. Il Tribunale di Catania, con sentenza del 18 dicembre 2014, in processo contemplante accuse penali nei confronti di un’articolata platea di imputati, aveva dichiarato NOME COGNOME responsabile dei reati di detenzione e spaccio di marijuana, cocaina e droghe sintetiche di cui ai capi C, C25, C26, C32, C35, C36, C38 e C43 della rubrica condannandolo alla pena complessiva di anni quindici di reclusione ed euro 40.000,00 di multa.
Proposto appello dall’imputato, la Corte di appello di Catania, con la sentenza del 18 maggio 2017, irrevocabile il 17 luglio 2018, aveva confermato la condanna di COGNOME in ordine ai reati di cui ai capi C36 (reato più grave), C, C25, C26, C32, C35, C38 e C43, avvinti in continuazione, aveva escluso l’applicazione dell’art. 112 cod. pen. e della recidiva e aveva ridotto la pena complessiva, individuandola in quella di anni otto di reclusione ed euro 30.000,00 di multa, previa fissazione per il più grave reato di cui al capo C36 della pena base di anni sette di reclusione ed euro 27.000,00 di multa, con susseguente computo degli aumenti per i reati satellite.
I delitti per i quali COGNOMECOGNOME in virtù delle richiamate decisioni, ha ripor la suddetta, definitiva condanna hanno avuto ad oggetto:
capo C: la violazione, in concorso con altri, dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 /
relativa a detenzione e spaccio di tutte le citate sostanze stupefacenti, commessi tra il marzo e il luglio 2009;
capo C25: la violazione, in concorso con altri, dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 relativa a cessione di cocaina commessa il 29 maggio 2009;
capo C26: la violazione, in concorso con altri, dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 relativa a cessione di cocaina commessa il 29 maggio 2009;
capo C32: la violazione, in concorso con altri, dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 relativa a cessione di cocaina commessa in data 1° giugno 2009;
capo C35: la violazione, in concorso con altri, dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 relativa a cessione di cocaina commessa in data 10 giugno 2009;
capo C36: la violazione, in concorso con altri, dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 relativa a cessione di cocaina commessa il 13 giugno 2009;
capo C38: la violazione, in concorso con altri, dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 relativa a cessione di cocaina commessa il 19 giugno 2009;
capo C43: la violazione, in concorso con altri, dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 relativa a cessione di marijuana commessa il 2 luglio 2009.
Le date di commissione dei reati, ricomprese nell’anno 2009, rendono immediata ragione della manifesta carenza di fondamento giuridico alla base delle deduzioni svolte in questo procedimento dal ricorrente.
2.2. È utile, comunque, precisare che il riferimento fatto del giudice dell’esecuzione alla già avvenuta rideterminazione della pena sancita dalla Corte di appello nel processo di cognizione ha riguardato lo scrutinio già avvenuto dell’istanza di rideterminazione che la difesa di COGNOME aveva svolto, reiterandola nel processo di appello: e la Corte di appello aveva osservato che il Tribunale aveva tenuto conto, ovviamente per il corrispondente ambito applicativo, della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 e, poi, aveva ridotto la pena, muovendo, come si è visto, dalla pena base di anni sette di reclusione ed euro 27.000,00 di multa, considerando più grave il reato di cessione di cocaina sub C36.
Dunque, la questione di rideterminazione della pena, con riferimento a eventuali effetti sulla medesima – considerato il carattere misto delle sostanze stupefacenti oggetto dei reati accertati a carico di COGNOME – determinati dalla modificazione del quadro normativo conseguente alla sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, è risultata essere stata già posta nel processo di cognizione, sicché ogni questione inerente a quel punto era ed è da ritenersi essersi definita o comunque consumata in quel processo.
In tali limiti e per questo oggetto va, dunque, recepito il riferimento de giudice dell’esecuzione alla rideterminazione avvenuta in sede cognitiva.
Circa il tema oggetto direttamente di scrutinio, emerso a sèguito della sentenza n. 40 del 2019 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni, si ricorda che il minimo edittale di anni otto di reclusione era stato ripristiNOME all’esito della precedente decisione della Corte costituzionale n. 32 del 2014, in virtù della quale si era avuta la reviviscenza del testo normativo antecedente alla modificazione introdotta dall’art. 4-bis, comma 1, lett. b), d.l. n. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, con la conseguente restaurazione – per le condotte relative alla detenzione e alla cessione di quelle sostanze stupefacenti comunemente definite droghe pesanti del trattamento sanzioNOMErio minimo, quanto alla pena detentiva, di anni otto di reclusione.
3.1. Risulta, sull’argomento, progressivamente acquisito il principio della relativa flessibilità del giudicato, essendosi, in particolare, chiarito che, quando dopo una sentenza irrevocabile di condanna, intervenga la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzioNOMErio, e quest’ultimo non sia stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare quella pena in favore del condanNOME (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697 – 01).
Nella specifica materia delle sostanze stupefacenti, la giurisprudenza di legittimità ha approfondito l’ipotesi, per alcuni versi ragguagliabile alla presente relativa alla rideterminazione in sede esecutiva della pena inflitta con sentenza irrevocabile, per effetto della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità del quadro normativo incidente sul trattamento sanzioNOMErio, a seguito della succitata pronuncia della Corte costituzionale n. 32 del 2014, essendosi, per quell’ambito, puntualizzato che è illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette leggere, sui limiti edittali dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con la suddetta sentenza, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta risulti compresa entro i limiti editta previsti dall’originaria formulazione della medesima disposizione, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, COGNOME, Rv. 264205 – 01); ciò, anche con riferimento alla pena applicata in via concordata con la sentenza ex artt. 444 e ss. cod. proc. pen., pena che dev’essere anch’essa rideterminata in sede esecutiva, in quanto pena illegale (Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, COGNOME, Rv.
264857 – 01).
Già con riguardo a questa pregressa vicenda, si è, poi, escluso, in ordine alla modalità dell’intervento ridetermiNOMEre in fase esecutiva, che la questione si possa risolvere con il ricorso a un criterio di natura oggettiva, in senso meccanicisticamente proporzionale, o che, per converso, in caso di patteggiamento, possa ritenersi disintegrato il contenuto pattizio iniziale, attraverso la libera determinazione della nuova pena da parte del giudice dell’esecuzione. In quest’ultimo ambito, permane il giudicato quanto ai profili relativi alla sussistenza del fatto, alla sua attribuibilità soggettiva e alla qualificazione giuridica, ma incombe al giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena, attesa la sua illegalità sopravvenuta, in favore del condanNOME con le modalità di cui al procedimento previsto dall’art. 188 disp. att. cod. proc. pen. e, solo in caso di mancato accordo, ovvero di pena concordata ritenuta incongrua, provvedere autonomamente ai sensi degli artt. 132 e 133 cod. pen., secondo i canoni dell’adeguatezza e della proporzionalità che tengano conto della nuova cornice edittale (Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, COGNOME, cit., Rv. 264858 01).
Si aggiunge, per completezza di inquadramento, che l’indirizzo ora richiamato ha posto punti fermi ineludibili ai fini della piena applicazione, per l parte che rileva nell’ambito in questione, del disposto di cui all’art. 30 legge 11 marzo 1953, n. 87, laddove si stabilisce che le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione e, quando, in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali.
3.2. Nel solco di questo orientamento, anche la vicenda determinata dalla pronuncia di illegittimità costituzionale n. 40 del 2019 ha, così, vist l’elaborazione ermeneutica di legittimità orientarsi, all’esito di un progressivo assestamento, nel senso che, a sèguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 73, comma 1, cit., nella parte in cui fissava il minimo edittale in an otto di reclusione, anziché in anni sei, il giudice dell’esecuzione – ne rideterminare la pena inflitta con condanna anteriormente divenuta irrevocabile alla luce della nuova cornice edittale, incidente sul minimo della pena – è tenuto a rinnovare la valutazione sanzioNOMEria in concreto, nel senso di una necessaria riduzione della pena, non utilizzando il criterio proporzionale o meramente aritmetico, ma applicando i criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen. peraltr senza possibilità di valutare il fatto diversamente rispetto al giudice della cognizione, potendo escludersi la patologica alterazione della commisurazione finale della pena, determinata in base alla forbice edittale oggetto della
declaratoria di illegittimità costituzionale, unicamente quando la pena irrogata sia stata determinata nel massimo edittale o in misura prossima al massimo (Sez. 1, n. 2036 del 11/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278198 – 01; Sez. 1, n. 3280 del 12/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 277857 – 01; Sez. 1, n. 51959 del 30/10/2019, COGNOME, Rv. 277735 – 01).
La constatazione che, in virtù di questa declaratoria di incostituzionalità, è mutata soltanto la soglia punitiva minima (di otto anni di reclusione, ora sostituita con quella di sei anni) non cambia la sostanza della considerazione che, pur con il mutamento di quest’unico parametro, si è sensibilmente modificata la cornice sanzioNOMEria, i cui limiti edittali, previsti in via generale astratta, esprimono la valutazione normativa di disvalore del fatto incrimiNOME, di guisa che la pena quantificata dal giudice in riferimento a quegli estremi costituisce la misura specifica del giudizio di responsabilità per quel reato.
Da qui deriva il corollario secondo cui, siccome la disposizione inerente a uno dei termini di riferimento risulta eliminata per la sua incostituzionalità, pena che era stata irrogata in relazione a quell’elemento normativo deve essere riconsiderata per assicurare il rispetto del principio di correlazione tra rispost punitiva e condotta offensiva come delineata dall’ordinamento.
Discende la logica conseguenza che – salvo che si sia verificato il caso limite suindicato (ossia quando la pena irrogata sia stata determinata nel massimo edittale o in misura prossima al massimo) – il mantenimento della medesima sanzione determina, in linea di principio, una sproporzione per eccesso rispetto al giudizio di gravità ora espresso in termini retroattivamente diversi dal legislatore, con la correlativa compromissione della funzione rieducativa di quella sanzione: sproporzione tanto più marcata quanto più vicina risulti -la pena inflitta secondo la disciplina caducata – al minimo edittale ritenuto illegittimo d giudice delle leggi, emergendo in tal caso, con corrispondente, intuitiva evidenza, il rilievo che la valutazione operata dal giudice della cognizione sulla base di un dato normativo poi espunto dal sistema, perché incostituzionale, non garantisce la necessaria proporzione tra la gravità del fatto e tutti gli altri cri ex artt. 132 e 133 cod. pen., da un lato, e l’entità della pena, dall’altro, dovendo tale entità è da determinarsi, per rispetta quella proporzione e, con essa, il principio di legalità, in ragione del regime sanzioNOMErio dettato dal paradigma incrimiNOMEre introdotto dalla succitata pronuncia, con effetti sulla sanzione pregressa (in quanto ancora in corso espiazione).
Poste queste coordinate, è tanto evidente quanto decisivo osservare che la ratio e gli effetti della modificazione del quadro ordinannentale determinata dalla pronuncia del giudice delle leggi n. 40 del 2019 si attagliano
ontologicamente ai soli reati commessi nel periodo in cui il minimo edittale di anni otto di reclusione era stato ripristiNOME dalla precedente decisione della Corte costituzionale n. 32 del 2014, per le condotte relative alla detenzione e alla cessione di quelle sostanze stupefacenti comunemente definite droghe pesanti: il tempo di commissione dei reati rilevante è, quindi, il periodo intercorso fra la pubblicazione della sentenza n. 32 del 2014 al ripristino del minimo edittale, quanto alla pena detentiva, di anni sei di reclusione determiNOME dalla successiva sentenza n. 32 del 2014, posto che per i reati commessi in tempo antecedente alla sentenza n. 32 del 2014, questa decisione non ha certo dispiegato efficacia retroattiva in malam partem (per tutte v. Sez. 4, n. 46415 del 22/06/2018, P., Rv. 273990 – 01, in merito alla puntualizzazione che, in tema di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma, qualora gli effetti della pronuncia sian in malam partem, essi operano esclusivamente in relazione alle condotte successive all’intervento del giudice delle leggi, con la conseguenza che la norma attinta continua ad applicarsi, ove più favorevole al reo, alle condotte commesse nella sua vigenza).
Del tutto conseguente è, pertanto, l’affermazione del condiviso principio secondo cui, in tema di stupefacenti, la reviviscenza dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, n. 309, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. n. 272 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 49 del 2006, successivamente dichiarate incostituzionali dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, comporta la reintroduzione per le droghe cosiddette pesanti di un trattamento sanzioNOMErio meno favorevole per il reo, di talché per le condotte aventi ad oggetto tali sostanze, che siano state commesse nel corso della vigenza delle disposizioni attinte dalla censura di incostituzionalità, le stess continuano ad applicarsi (Sez. 5, n. 14863 del 21/12/2020, dep. 2021, Bruni, Rv. 281138 – 02).
Svolte queste notazioni e richiamata la constatazione che tutti i reati, in relazione alla commissione dei quali COGNOME ha chiesto la rideterminazione delle pene a lui corrispondentemente inflitte, sono stati commessi nel 2009, doveva e deve osservarsi che la deduzione del condanNOME della rilevanza la pronuncia della Corte costituzionale n. 40 del 2019 – che invece ha dispiegato effetti soltanto per i reati di cui all’art. 73 cit. relativi a droghe definite pe commessi nel periodo sopra identificato – ha fornito la base a una domanda che si dimostra, all’evidenza, eccentrica.
Le violazioni dell’art. 73 cit., aventi ad oggetto droghe definite pesanti (pe quelle relative alle droghe definite leggere, in relazione alla sentenza n. 32 del 2015 della Corte costituzionale, la domanda di rideterminazione essendo stata scrutinata nel giudizio di cognizione), riguardando fatti del 2009, non davano, né
danno titolo ad alcuna rideterminazione, in quanto la cornice edittale applicabile per questi reati aveva sempre contemplato il minimo della pena detentiva pari ad anni sei di reclusione.
Di conseguenza, non avendo – la sopravvenienza determinata dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 40 del 2019 – influito sul regime giuridico sanzioNOMErio riguardante i delitti ascritti ad NOME, questi non aveva, né ha alcuna giuridica possibilità di domandare la rideterminazione della pena detentiva a lui inflitta nel succitato giudizio di cognizione.
Per il resto, al di fuori del corretto ambito di incidenza dell’indicata decision del giudice delle leggi, in ordine a ogni altra doglianza che egli avesse voluto dedurre in merito al trattamento sanzioNOMErio e al modo di determinare l’entità della pena detentiva, comunque irrogatagli in misura legale, COGNOME avrebbe dovuto prospettarla, anche mediante i mezzi di impugnazione, al giudice dell’accertamento cognitivo.
Peraltro e ad abundantiam, esaminando l’esposizione fatta nella sentenza della Corte di appello (richiamata dal giudice dell’esecuzione) per giustificare il calcolo della pena complessivamente irrogata all’imputato, si trae la conferma che quel giudice del merito cognitivo aveva operato il computo tenendo presente l’esatta cornice edittale applicabile, contemplante per la pena detentiva il minimo di anni sei di reclusione, giacché, nello stabilire la pena base per il reato pi grave, aveva individuato la pena detentiva di anni sette di reclusione (non corrispondente al minimo edittale, come è sembrato opinare il ricorrente, ma) comunque ed evidentemente incompatibile con il minimo edittale di anni otto di reclusione proprio della cornice edittale che COGNOME ha assunto essere stata presa in concreta considerazione da quella Corte di merito.
L’analisi effettuata dal giudice dell’esecuzione, che è pervenuto a conclusione conforme a quella implicata dai principi qui ribaditi, non si presta, pertanto, a censura alcuna, sia in riferimento alla denunciata violazione di legge, sia con riguardo al dedotto vizio della motivazione, e l’impugnazione risulta manifestamente priva di giuridico fondamento.
Discende da tali considerazioni l’inammissibilità del ricorso, con la condanna del ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazi (Corte cost., sent. n. 186 del 2000) – di una somma alla Cassa delle ammende in misura che, per il contenuto del motivo dedotto, si stima equo fissare in euro tremila.
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P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 6 giugno 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente ,