Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 19134 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 19134 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 14/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME, nato a Taranto il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 12/06/2023 della Corte d’appello di Lecce visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME, la quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
letta la memoria dell’AVV_NOTAIO, difensore di COGNOME NOME, di replica alle conclusioni del Pubblico Ministero;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza n. 12535 del 12/12/2019, dep. 2020, la Sesta sezione penale della Corte di cassazione annullava con rinvio la sentenza del 12/07/2019 della Corte d’appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto – che aveva confermato la sentenza del 09/04/2018 del Tribunale di Taranto con la quale NOME COGNOME era stato condannato per i reati di peculato e di truffa aggravata limitatamente all’aumento di pena che era stato irrogato dalla stessa Corte d’appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, per la continuazione “esterna” con il reato di appropriazione indebita già accertato in un altro procedimento
definito con il decreto penale di condanna del 30/09/2015, divenuto irrevocabile il 11/02/2016.
Dopo avere rilevato che, per il suddetto reato di appropriazione indebita, con tale decreto penale di condanna era stata irrogata al COGNOME la pena di 45 giorni di reclusione, sostituita con la pena pecuniaria, la Sesta sezione penale ha ritenuto che la Corte d’appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, con l’irrogare, per la continuazione “esterna” con lo stesso reato, un aumento di pena di 4 mesi di reclusione, aveva violato il divieto di reformatio in peius.
Con sentenza del 12/06/2023, la Corte d’appello di Lecce, giudicando in sede di rinvio, irrogava, per la continuazione con il menzionato reato di appropriazione indebita – per il quale precisava che, con il decreto penale di condanna del 30/09/2015, era stata irrogata la pena di un mese e 15 giorni di reclusione, sostituita con quella della multa di C 11.250,00, ed C 500,00 di multa – «in considerazione della non eccessiva gravità dei fatti», l’aumento di pena di 20 giorni di reclusione.
Avverso tale sentenza del 12/06/2023 della Corte d’appello di Lecce, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore, NOME COGNOME, affidato a due motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione dell’art. 81, secondo comma, cod. pen., anche alla luce dei principi affermati dalla sentenza COGNOME delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U, n. 40983 del 21/06/2018, COGNOME, Rv. 27375101), per non avere la Corte d’appello di Lecce sostituito la pena di 20 giorni di reclusione irrogata per la continuazione “esterna” con il reato di appropriazione indebita con la pena pecuniaria, mediante ragguaglio ai sensi dell’art. 135 cod. pen.
Nel rammentare che, con il decreto penale di condanna del 30/09/2015, la pena detentiva di un mese e 15 giorni di reclusione era stata sostituita dal G.i.p. del Tribunale di Taranto con la pena pecuniaria di C 11.250,00, il ricorrente deduce che, in analogia con i suddetti principi affermati dalla sentenza COGNOME delle Sezioni unite della Corte di cassazione e in ossequio ai principi del divieto di reformatio in peius e del favor rei, la Corte d’appello di Lecce avrebbe dovuto sostituire l’irrogata pena detentiva di 20 giorni di reclusione con la pena pecuniaria, mediante ragguaglio ai sensi dell’art. 135 cod. pen., atteso che la pena pecuniaria originariamente irrogata dal G.i.p. è meno afflittiva di quella detentiva, con la conseguenza che, non operando l’invocata sostituzione, si sarebbe determinato «un peggioramento della complessiva decisione finale».
Il ricorrente rappresenta di avere richiesto tale sostituzione in sede di conclusioni nel giudizio di appello e lamenta che la Corte d’appello di Lecce avrebbe omesso qualsiasi motivazione in ordine a tale richiesta.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., «nonché ai sensi dell’art. 111 Cost.», la violazione degli artt. 28, 29, 37 e 317-bis cod. pen., per avere i giudici di merit applicato la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni «fuori dai limiti previsti dalla legge, pertanto sanzione illegale», come aveva già lamentato nel proprio atto di appello e a pag. 7 del primo ricorso per cassazione.
Nell’affermare che l’illegalità della pena accessoria, erroneamente applicata, è ritenuta rilevabile d’ufficio nel giudizio di cassazione anche nel caso in cui ricorso sia inammissibile, il ricorrente premette che, ai fini dell’applicazione dell pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, nel caso di più reati unific dal vincolo della continuazione, occorre fare riferimento alla misura della pena base determinata in concreto per il reato più grave, e non alla misura della pena complessiva che risulta dall’aumento per la continuazione, con la conseguenza che, nel caso di specie, occorreva fare riferimento alla pena base di 2 anni e 8 mesi di reclusione che era stata determinata per il più grave reato di peculato.
Da ciò conseguirebbe che, diversamente da quanto era stato ritenuto dal Tribunale di Taranto, l’interdizione temporanea dai pubblici uffici non poteva essere irrogata ai sensi dell’art. 29 cod. pen., atteso che tale disposizione prevede la suddetta pena accessoria in caso di condanna alla reclusione «per un tempo non inferiore a tre anni».
Il ricorrente rappresenta poi che, piuttosto, si sarebbe potuto fare applicazione della disposizione speciale dell’art. 317-bis cod. pen., il quale, peraltro, tenuto conto del tempus commissi delicti (quanto al peculato, fino al 21 settembre 2014), avrebbe dovuto essere applicato non nel testo attualmente vigente, come sostituito dall’art. 1, comma 1, lett. m), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, ma nella più favorevole formulazione, vigente al momento del fatto, risultante dalle modificazioni apportate al testo originario dall’art. 1, comma 75, lett. e), della legge 6 novembre 2012, n. 190; formulazione secondo cui: «a condanna per i reati di cui agli articoli 314, 317, 319 e 319-ter comporta l’interdizio perpetua dai pubblici uffici. Nondimeno, se per circostanze attenuanti viene inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni, la condanna importa l’interdizione temporanea»).
Posta, perciò, la necessità di applicare la disposizione appena riportata, il ricorrente deduce che, poiché tale disposizione non determina la durata dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, a norma dell’art. 37 cod. pen., l stessa interdizione avrebbe dovuto avere «una durata eguale a quella della pena
detentiva inflitta» e, quindi, una durata di 2 anni e 8 mesi e non di 5 anni come illegalmente stabilito dai giudici di merito.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è fondato.
Si deve premettere che la pena detentiva, una volta sostituita con la pena pecuniaria, si “tramuta” definitivamente in quest’ultima.
Depone infatti chiaramente in tale senso il disposto del secondo comma dell’art. 57 della legge 24 novembre 1981, n. 689 – comma che è rimasto immutato anche a seguito della sostituzione di tale articolo a opera dell’art. 71, comma 1, lett. e), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 – a norma del quale «a pena pecuniaria si considera sempre come tale, anche se sostitutiva della pena detentiva».
Pertanto, nel caso di applicazione di una pena pecuniaria sostitutiva, come è avvenuto nel caso di specie, è questa la sanzione che occorre prendere a riferimento anche ai fini dell’applicazione dell’istituto della continuazione tra reati
Ciò posto, come è già stato affermato dalla Corte di cassazione con riguardo a una fattispecie analoga a quella in esame (Sez. 3, n. 33420 del 01/06/2023, Tosi, Rv. 284998-01, relativa anch’essa a un caso in cui, per il meno grave reato poi ritenuto come “satellite”, era stato emesso decreto penale di condanna irrevocabile a una pena detentiva commutata in pena pecuniaria, oltre che a una pena già originariamente pecuniaria), nel caso in cui, come nella specie, la pena inflitta per il reato poi ritenuto come “satellite” sia già stata irrevocabilmen convertita in pena pecuniaria sostitutiva, l’aumento sanzionatorio per tale reato non può essere operato in termini di pena detentiva ma deve necessariamente essere determinato in pena pecuniaria, anche quando il reato più grave sia punito con la pena detentiva.
Ciò alla luce del principio, che è stato enunciato dalla già citata sentenza COGNOME delle Sezioni unite della Corte di cassazione, secondo cui, in tema di concorso di reati puniti con sanzioni eterogenee sia nel genere che nella specie per i quali sia riconosciuto il vincolo della continuazione, l’aumento di pena per il reato “satellite” va effettuato secondo il criterio della pena unica progressiva per “moltiplicazione”, rispettando tuttavia, per il principio di legalità della pena e del favor rei, il genere della pena prevista per il reato “satellite”, nel senso che l’aumento della pena detentiva del reato più grave dovrà essere ragguagliato a pena pecuniaria ai sensi dell’art. 135 cod.pen.
Per raggiungere l’obiettivo del necessario rispetto del genere pecuniario della pena del reato “satellite” (l’appropriazione indebita), in quanto già irrevocabilmente convertita in pena, appunto, pecuniaria, occorre perciò, sempre
alla luce del principio enunciato dalla sentenza COGNOME, che l’aumento di pena che è stato effettuato dalla Corte d’appello di Lecce sub specie di pena detentiva sulla pena detentiva del reato base (il peculato), cioè l’aumento di 20 giorni di reclusione, sia ragguagliato a pena pecuniaria, a norma dell’art. 135 cod. pen.
A tale operazione si può senz’altro provvedere in questa sede, ex art. 620, comma 1, lett. I), cod. proc. pen., con il conseguente annullamento senza rinvio, in parte qua, della sentenza impugnata, dovendosi rideterminare la pena principale complessiva in 3 anni e 2 mesi di reclusione ed C 5.000,00 di multa, così calcolata: pena base per il più grave reato di peculato 4 anni di reclusione; ridotta per le concesse circostanze attenuanti generiche a 2 anni e 8 mesi di reclusione; aumentata, per la continuazione con il reato di truffa, di 6 mesi di reclusione e, quindi, a 3 anni e 2 mesi di reclusione; aumentata, per la continuazione “esterna” con il reato di appropriazione indebita, di 20 giorni di reclusione, con ragguaglio di quest’ultimo aumento alla pena di C 5.000,00 di multa, ottenuta calcolando, per ciascuno dei 20 giorni di pena detentiva, C 250,00 di pena pecuniaria.
Il secondo motivo è fondato.
È opportuno rammentare che, come è stato esattamente rilevato dal ricorrente, l’illegalità della pena accessoria, erroneamente applicata, è rilevabile d’ufficio nel giudizio di cassazione, anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile (Sez. 2, n. 7188 del 11/10/2018, dep. 2019, NOME AVV_NOTAIO, Rv. 276320-01, concernente una fattispecie relativa a interdizione temporanea dai pubblici uffici applicata sulla base della pena individuata dopo avere praticato gli aumenti per la continuazione, anziché sulla base della pena principale indicata per il reato più grave, inferiore nel caso di specie al limite di tre anni di reclusione; Sez. 3, n. 6997 del 22/11/2017, dep. 2018, C., Rv. 272090-01, concernente una fattispecie in cui la Corte di cassazione, rigettando il ricorso, ha eliminato la pena accessoria di cui all’art. 609-nonies, secondo comma, cod. pen., illegalmente applicata poiché il reato di violenza sessuale non risultava commesso nei confronti di minori. In tema di pena principale: Sez. U, n. 38809 del 31/03/2022, COGNOME, Rv. 283689-01; Sez. 5, n. 46122 del 13/06/2014, COGNOME, Rv. 262108-01).
Nel caso in esame, peraltro, il ricorso non è inammissibile, atteso l’accoglimento del suo primo motivo.
Ciò posto, la Corte di cassazione ha costantemente chiarito che, nel caso di più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, ai fini dell’applicazione de pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, occorre fare riferimento alla misura della pena base stabilita in concreto per il reato più grave, come risultante a seguito dell’incidenza delle circostanze attenuanti e del bilanciamento eventualmente operato, nonché a seguito dell’eventuale diminuzione per la scelta del rito, e non a quella complessiva risultante dall’aumento per la continuazione
(Sez. 5, n. 28584 del 14/03/2017, COGNOME, Rv. 270240-01; Sez. 7, n. 48787 del 29/10/2014, COGNOME, Rv. 264478-01; Sez. 1, n. 7346 del 30/01/2013, COGNOME, Rv. 254551-01; Sez. 1, n. 12894 del 06/03/2009, COGNOME, Rv. 243045-01; Sez. 6, n. 17616 del 27/03/2008, COGNOME, Rv. 240067-01).
Peraltro, secondo un orientamento della stessa Corte di cassazione, il principio secondo cui, nel caso di reati unificati dal vincolo della continuazione, la durata della pena accessoria secondo il criterio fissato dall’art. 37 cod. pen. va determinata con riferimento alla pena principale inflitta per la violazione più grave subisce un’eccezione nell’ipotesi di continuazione tra reati omogenei, nella quale l’identità dei reati unificati comporta necessariamente l’applicazione di una pena accessoria per ciascuno di essi, di modo che la durata complessiva va commisurata all’intera pena principale inflitta con la condanna, ivi compreso l’aumento per la continuazione (Sez. 6, n. 17564 del 06/04/2023, COGNOME, Rv. 284593-01, relativa a una fattispecie in tema di interdizione dai pubblici uffici; Sez. 3, n. 14954 del 02/12/2014, COGNOME, Rv. 263045-01; Sez. 3, n. 29746 del 05/06/2014, COGNOME., Rv. 261512-01).
Tale eccezione, tuttavia, non ricorre nel caso di specie, nel quale la continuazione non è, come si è visto, tra reati omogenei (ma tra quelli di peculato, truffa e appropriazione indebita).
Da tanto discende che, nel caso in esame, la pena principale alla quale occorreva fare riferimento ai fini dell’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici era quella stabilita in concreto per il più gr reato di peculato, cioè la pena di 2 anni e 8 mesi di reclusione (così diminuita, per le concesse circostanze attenuanti generiche, la pena base 4 anni di reclusione).
Alla luce di ciò, non poteva trovare applicazione l’art. 29 cod. pen., giacché tale disposizione prevede la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici in caso di condanna alla reclusione «per un tempo non inferiore a tre anni».
Si deve invece fare applicazione della speciale disposizione di cui all’art. 317bis cod. pen., nel testo, più favorevole, che vigeva al momento del fatto – cioè nel testo, risultante dalle modificazioni apportate al testo originario dall’art. 1, comma 75, lett. e), della legge n. 190 del 2012, secondo cui: «[ha condanna per i reati di cui agli articoli 314, 317, 319 e 319-ter comporta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nondimeno, se per circostanze attenuanti viene inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni, la condanna importa l’interdizione temporanea» – nonché, stante la mancata determinazione espressa di tale pena accessoria temporanea, della disposizione residuale dell’art. 37 cod. pen., secondo cui, nel caso, appunto, di mancata determinazione espressa della durata di una pena accessoria temporanea, questa «ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta».
Ne discende che i giudici di merito avrebbero dovuto disporre l’interdizione del COGNOME dai pubblici uffici non per 5 anni, come hanno fatto, ma per 2 anni e 8 mesi, così perequati alla pena principale.
A ciò si può senz’altro provvedere in questa sede, sempre ex art. 620, comma 1, lett. I), cod. proc. pen., con il conseguente annullamento senza rinvio, anche in parte qua, della sentenza impugnata, dovendosi, quindi, rideterminare la durata della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici nella misura di 2 anni e 8 mesi.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente: a) alla misura della pena principale, la quale deve essere rideterminata in 3 anni e 2 mesi di reclusione ed C 5.000,00 di multa; b) alla durata della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, la quale deve essere rideterminata in 2 anni e 8 mesi.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena che ridetermina in anni 3 mesi 2 di reclusione ed euro 5.000,00 di multa e limitatamente alla durata della sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici che determina in anni 2 e mesi 8.
Così deciso il 14/03/2024.