Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 27123 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 27123 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 01/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a CORLEONE il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 05/10/2023 della CORTE APPELLO di PALERMO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, in persona di NOME COGNOME, che ha chiesto una dichiarazione d’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza sopra indicata, la Corte di appello di Palermo, quale giudice dell’esecuzione, rigettava la richiesta, presentata nell’interesse di NOME COGNOME, di rideterminazione della pena irrogata pari ad anni otto e mesi otto di reclusione, per artt. 81, 416-bis, commi primo e quarto, e 648 (così riqualificata la contestazione originaria di cui all’art. 629, commi primo e secondo, cod. pen.), cod. pen., questo ultimo reato aggravato ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, come da sentenza emessa dalla Corte d’appello di Palermo – in sede di rinvio rispetto all’annullamento intervenuto con la sentenza di questa Corte, Sez. 1, n. 15087 del 2021 – la quale “operando sulla pena base, per il più grave reato di cui all’art. 416-bis, commi 1° e 4°, c.p., di anni dodici di reclusione”, con l’aumento per la continuazione rispetto all’ulteriore delitto, di anni uno di reclusione (anni tredici), poi ridotta per il rito abbreviato di un terzo, perveniva alla pena finale sopra indicata.
In particolare, la Corte d’appello, quale giudice dell’esecuzione, premette che il difensore aveva presentato la richiesta di rideterminazione della pena sull’osservazione che la partecipazione, aggravata, del COGNOME all’associazione di stampo mafioso, pur essendo stata contestata “a partire dall’anno 2011 e, comunque, protratta per facta concludentia, sino alla pronuncia della sentenza di secondo grado (23.7.2019)”, in realtà poteva essere considerata, in virtù dell’ultima intercettazione in cui il COGNOME era stato coinvolto, sino al settembre 2014, come peraltro asseritamente rilevabile dalle effettive condotte a lui contestate.
Da ciò, ne sarebbe conseguito che il giudice, nel condannarlo, avrebbe applicato la pena, già ridotta per il rito, di anni 10 di reclusione, partendo dalla pena base – per il reato ritenuto più grave di cui all’art. 416-bis cod. pen. – di anni 15 di reclusione, laddove la pena massima prevista per il delitto di cui all’art. 416bis cod. pen., prima della riforma introdotta nel 2015, era ricompresa tra i 9 e i 14 anni di reclusione e così aveva sollecitato l’applicazione di un trattamento sanzioNOMErio meno afflittivo di quello effettivamente irrogato in sede di cognizione.
Rispetto alla richiesta così formulata, la Corte d’appello, ricostruita la vicenda processuale, la rigettava ritenendo che il trattamento sanzioNOMErio fosse oramai coperto dal giudicato (sentenza dichiarativa dell’inammissibilità del ricorso della Corte di cassazione, emessa in data 14/02/2022, in relazione alla sentenza della Corte d’appello del 01/10/2021), non essendo stato tempestivamente impugNOME il capo relativo all’avvenuta quantificazione della pena, come ora prospettata. Nel motivare tale rigetto, il giudice dell’esecuzione, peraltro, ha affermato che il
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trattamento sanzioNOMErio effettivamente irrogato non poteva essere considerato quale “pena illegale” dal momento che la pena comminata per il delitto di cui all’art. 416-bis, commi primo e quarto, cod. pen., pari ad anni dodici di reclusione, rientrava comunque nella forbice edittale prevista dalla disciplina anteriore alla riforma introdotta con la legge n. 65 del 2015, infatti, tale reato, come modificato dalla legge n. 125 del 2008, era punito con la pena da 9 a 15 anni di reclusione poi aumentata, a seguito di tale riforma, con la previsione della pena da 12 a 20 anni di reclusione.
NOME COGNOME ricorre per cassazione, tramite rituale ministero difensivo, affidandosi a un unico motivo.
Con tale motivo, il difensore dell’interessato denuncia la violazione di legge e il vizio della motivazione con riferimento al profilo della mancata applicazione della legge più favorevole al reo in relazione all’art. 416-bis cod. pen., come applicabile prima della riforma del 2015 per condotte consumate sino al settembre 2014.
Il Procuratore generale, intervenuto con requisitoria scritta, ha chiesto una dichiarazione d’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è manifestamente infondato, quindi meritevole di una dichiarazione d’inammissibilità.
Premesso che questa Corte, nel pronunciarsi in tema di successione di leggi penali nel tempo in relazione proprio all’art. 416-bis cod. pen., ha già affermato, con Sez. 2, n. 1688 del 26/10/2021, dep. 2022, Giampà, Rv. 282516 – 03, in motivazione, che l’offesa al bene giuridico tutelato dall’art. 416-bis cod. pen. si protrae finché permane l’offerta di contribuzione del singolo partecipe, posto che è l’esistenza stessa del sodalizio a porre in pericolo l’ordine pubblico. Con Sez. 2, n. 37104 del 13/06/2023, COGNOME, Rv. 285414 – 01, inoltre, si è chiarito che nei reati permanenti in cui la contestazione sia effettuata nella forma cd. “aperta” o a “consumazione in atto”, senza indicazione della data di cessazione della condotta illecita, la regola processuale secondo cui la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado non equivale a presunzione di colpevolezza fino a quella data, spettando all’accusa l’onere di fornire la prova a carico dell’imputato in ordine al protrarsi della condotta criminosa fino all’indicato ultimo limite processuale e all’imputato l’onere di allegazione di eventuali fatti interruttivi della partecipazione al sodalizio (fattispecie relativa alla partecipazione
ad associazione per delinquere di tipo mafioso, in cui era necessario individuare il momento dell’eventuale cessazione dell’appartenenza degli imputati al sodalizio criminoso, in particolare nel caso di modifica “in pejus” del trattamento sanzioNOMErio a seguito di successione di leggi nel tempo).
Va, quindi su tale punto, rilevato che non risulta specificatamente dedotto nel giudizio di cognizione né allegato al presente ricorso alcun fatto interruttivo della permanenza della partecipazione (aggravata) del ricorrente all’associazione per delinquere di stampo mafioso in data anteriore alla sentenza di primo grado perché è del tutto generica l’asserzione difensiva secondo la quale le condotte si sarebbero arrestate al 2014, soprattutto alla luce delle conclusioni del giudizio di cognizione e del motivo di ricorso in tale contesto sviluppato che riguardava unicamente la congruità della pena ex art. 133 cod. pen.
3.1. Ancora, è rilevabile dalla lettura del provvedimento oggetto di ricorso che la sua ratio decidendi si sostanzia nella considerazione che la pena irrogata nel giudizio d’appello, ove ritenuta “illegale”, sarebbe dovuta essere oggetto di ricorso per cassazione, a cui segue l’ulteriore affermazione che, comunque, la pena irrogata non poteva essere considerata “pena illegale” poiché rientrante nella cornice edittale della disciplina anteriore alla riforma introdotta con la I. n. 65 del 2015 (da 12 a 20 anni di reclusione) rispetto a quella prevista con la modifica intervenuta con la I. n. 125 del 2008 (da 9 a 15 anni di reclusione).
3.2. Nello sviluppare il motivo di ricorso, infine, si è riconosciuto come il precedente ricorso per cassazione sia stato proposto, “con il motivo n. 10” per “la violazione dell’art. 133 cod. pen. nonché vizio di motivazione in ordine alla determinazione del trattamento sanzioNOMErio”, senza alcun riferimento alla non contestata struttura del reato associativo.
Nel caso in esame, quindi in relazione al motivo di ricorso così come presentato, va ribadito che non integra un’ipotesi di pena illegale, deducibile dinanzi al giudice dell’esecuzione in caso di sentenza divenuta irrevocabile, la determinazione della pena in misura superiore alla media edittale in assenza di adeguata motivazione, costituendo tale “deficit” motivazionale un vizio deducibile esclusivamente in sede di impugnazione (Sez. 1, n. 45193 del 11/07/2023, Cumino, Rv. 285507 – 01).
Ripercorrendo la motivazione espressa in tale ultimo richiamato arresto va pertanto ribadito che, come correttamente richiamato nel provvedimento impugNOME, la pena può dirsi «illegale», secondo la giurisprudenza di legittimità, nella sua composizione più autorevole (cfr. Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018, R, e Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, COGNOME, entrambe in motivazione), quando, per
specie ovvero per quantità, non corrisponde a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice in questione, così collocandosi al di fuori del sistema sanzioNOMErio come delineato dal codice penale, ovvero qualora, comunque, è stata determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione basato su una cornice edittale inapplicabile, perché dichiarata costituzionalmente illegittima o perché individuata in violazione del principio di irretroattività dell legge penale più sfavorevole.
Condizioni, quella appena richiamate, che non è possibile ravvisare nel caso in esame, connotato dall’applicazione, da parte della Corte d’appello in sede di rinvio da parte della Corte di cassazione rispetto al ricorso ove era stato formulato il “motivo n. 10” sul trattamento sanzioNOMErio (ritenuto assorbito), della pena detentiva di anni quindici di reclusione che, come da originaria contestazione, è ricompresa nell’intervallo, compreso tra dodici e venti anni di reclusione, stabilito dalla norma incriminatrice, nel testo vigente al momento di consumazione dell’illecito, come già riportato “a partire dall’anno 2011 e, comunque, protratta per facta concludentia, sino alla pronuncia della sentenza di secondo grado (23.7.2019)”.
Sulla base delle precedenti considerazioni deriva l’inammissibilità del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di euro tremila in favore delle Cassa delle ammende, ritenuta congrua in relazione ai profili di colpa emergenti dal ricorso nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. n. 186 del 2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 01/3/2024