Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 2228 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 2228 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 24/09/2024
SENTENZA
sul ricorso di NOME COGNOME nato a Palermo il 23/06/1972, avverso la sentenza in data 28/03/2024 del Tribunale di Palermo, visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza in data 28 marzo 2024 il Tribunale di Palermo ha applicato a NOME COGNOME la pena concordata dalle parti per il reato dell’art. 10, comma 2, d.l. n. 14 del 2017 perché non aveva ottemperato all’ordine del Questore di Palermo in data 13 settembre 2019 con il quale gli era stato imposto il divieto di accedere o stazionare, per un periodo di dodici mesi, nell’area di INDIRIZZO in Palermo.
Ricorre per cassazione l’imputato per violazione di legge perché il Giudice aveva convertito la pena detentiva di mesi quattro di arresto nella esorbitante pena pecuniaria di euro 30.000, secondo il criterio di ragguaglio dell’art. 135 cod. pen. e non secondo quello stabilito dalla legge n. 689 del 1981 come novellata
dalla cosiddetta Riforma Cartabia che ha introdotto l’art. 56-quater che prevede che il valore giornaliero di conversione non possa essere inferiore a cinque euro e superiore a 2.500 euro e deve tener conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Ai sensi dell’art. 448, comma 2 bis, cod. proc. pen. – disposizione introdotta dalla I. 23 giugno 2017, n. 103 -, il pubblico ministero e l’imputato possono ricorrere per cassazione contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato stesso, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura sicurezza.
Secondo le Sezioni Unite, la pena è illegale se sia di specie più grave di quella prevista dalla norma incriminatrice o superiore ai limiti edittali indicati dalla stessa (Sez. U, n. 7578 del 17/12/2020, dep. 2021, Acquistapace, in motivazione, che richiama a pag. 12, Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, COGNOME, Rv. 264207; Sez. 4, n. 19765 del 21/01/2015, COGNOME, Rv. 263476; Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, COGNOME, Rv. 256879; Sez. 5, n. 3945 del 13/11/2002, dep. 2003, De Salvo, Rv. 224220; Sez. 3, n. 3877 del 14/11/1995, Prati, Rv. 203205). Ogni altra violazione delle regole che occorre applicare per la definizione della pena da infliggere integra invece un errato esercizio del potere commisurativo e dà luogo a una pena illegittima: si veda, tra le più recenti, Sez. U, Sentenza n. 47182 del 31/03/2022, COGNOME, Rv. 283818 che ha confermato la fondatezza del principio secondo il quale gli errori nell’applicazione delle diverse discipline che entrano in gioco nella commisurazione della pena danno luogo ad una pena illegale solo se la risultante (ovvero la pena indicata in dispositivo) è per genere, specie o per valore minimo o massimo diversa da quella che il legislatore ha previsto per il tipo (o sottotipo) astratto al quale viene ricondotto il fatto storico reato, mentre fuori da tale caso, la pena è illegittima, ove commisurata sulla base della errata applicazione della legge o non giustificata secondo il modello argomentativo normativamente previsto.
Il vizio dedotto dall’imputato non rientra nell’illegalità della pena e riguarda piuttosto la motivazione della conversione che il Giudice non ha specificato se ha eseguito ai sensi dell’art. 135 cod. pen. o ai sensi dell’art. 56-quater legge n. 689 del 1981.
Si tratta di una censura che quindi esula dalla cognizione del giudice di legittimità.
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso, il 24 settembre 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente