Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 9176 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 9176 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 31/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
S.E.
omissis
nato a
omissis
avverso la sentenza del 11/05/2023 della CORTE APPELLO di MESSINA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
Lette le conclusioni scritte per l’udienza senza discussione orale (art. 23 co. 8 dl. 137/2 conv. dalla I. n. 176/2020, come prorogato ex art. 16 d.l. 228/21 conv. con modif. dalla 1. e successivamente ex art. 94, co. 2, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, come sostituito pr dall’art. 5-duodecies della I. 30.12.2022, n. 199, di conversione in legge del d.l. n. 162 poi dall’art. 17 del D.L. 22 giugno 2023, conv. con modif. dalla I. 10.8.2023 n. 112, del P persona del Sost. Proc. Gen. NOME COGNOME, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso e del difensore del ricorrente AVV_NOTAIO che ha insistito per l’accoglimento dello stesso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del Tribunale di Barcellona P.G. in composizione collegiale del 6 luglio 2020, S. E. è stato ritenuto responsabile dei reati di stalking e violenza sessuale, commessi in Milazzo nell’anno 2017, e, riconosciutagli l’attenuante di cui all’art. 609-bis co. 3 cod. pen. in termini di prevalenza sul contestata aggravante ex art. 609-ter n. 5 quater cod. pen., è stato condannato alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione, con l’interdizione dai pubblici uffic per mesi quattro e in perpetuo da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, curatela ed amministrazione di sostegno.
Con sentenza emessa in data 20 settembre 2021, la Corte d’Appello di Messina, pronunciando sull’appello proposto dall’imputato, in parziale riforma della sentenza di primo grado revocava l’interdizione dai pubblici uffici, confermando nel resto la predetta sentenza.
Avverso il rigetto del gravame sulla responsabilità il difensore di fiducia dell’imputato proponeva ricorso per cassazione, chiedendo con l’unico motivo l’annullamento della sentenza impugnata per essere i reati estinti per remissione di querela, come da dichiarazione resa dalla persona offesa ai Carabinieri della Stazione di Milazzo in data 30.9.2021 con contestuale accettazione da parte dell’imputato.
La Terza Sezione Penale di questa Corte, con sentenza n. 34052/2022 del 12 gennaio 2023, preso atto della remissione di querela e della relativa accettazione, annullava la sentenza impugnata in relazione all’art. 612-bis cod. pen. perché estinto per remissione di querela, con eliminazione della relativa pena. Poiché la pena base per il delitto più grave era proprio quella inflitta per il delitto di persecutori, rinviava ad altra sezione della Corte d’appello di Messina limitatamente alla rideterminazione della pena per il reato di cui al capo b), dichiarando inammissibile il ricorso nel resto.
La Corte di Appello di Messina, con sentenza dell’Il maggio 2023, pronunciando in sede di rinvio, rideterminava la pena in anni uno e mesi sette di reclusione, confermando nel resto.
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, lo S. E.
deducendo, quale unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, co. 1, disp. att., cod. proc. pen., la violazione e falsa applicazione degli artt. 133 cod. pen. e 597 cod. proc. pen.
Per il ricorrente la Corte territoriale ha operato una cattiva applicazione delle norme e dei principi di diritto di matrice giurisprudenziale che presidiano la materia
del divieto di reformatio in peius laddove ha determinato la pena, per il solo reato di cui al capo b), in un anno e sette mesi di reclusione.
Tale quantificazione risulterebbe per il ricorrente già a prima vista irragionevole, se solo si considera che la condanna originaria aveva previsto per il reato di cui al capo b) una pena di quattro mesi di reclusione, pur potendo applicare per la continuazione un aumento ben più elevato, fino al triplo della pena base stabilita per il delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen.
L’aver quasi quintuplicato la pena irrogata, in assenza di impugnazione del Pubblico Ministero, si concretizzerebbe in un indebito stravolgimento della valutazione operata dal giudice di primo grado ai sensi dell’art. 133 cod. pen. e in una evidente violazione del “divieto di reformatio in peius” di cui all’art 597, commi 3 e 4, cod. proc. pen.
Si sostiene in ricorso che, anche a voler seguire il più “severo” orientamento giurisprudenziale – citato nella sentenza impugnata, ma disatteso (Sez. 2 n. 2692/2023) – secondo il quale nelle ipotesi di intervenuta estinzione del reato più grave, non può irrogarsi per il reato residuo in continuazione, una pena più elevata della pena base che era stata prevista per il reato estinto, la Corte d’Appello avrebbe dovuto irrogare una pena non superiore ad un anno di reclusione.
Non potrebbe, infatti, considerarsi quella di un anno e quattro mesi di reclusione la “pena base” da avere a riferimento quale limite massimo per il residuo reato, poiché frutto dell’aumento per l’aggravante contestata al capo a), che è ora estinto, mentre con riferimento al capo b), ossia al reato la cui pena va rideterminata, è stata ritenuta – e la statuizione è sul punto irrevocabile – la prevalenza dell’attenuante sulla contestata aggravante.
In ogni caso, pur volendo considerare “pena base” quella di un anno e quattro mesi, la condanna ad un anno e sette mesi irrogata con la sentenza che si impugna, risulterebbe illegittima per violazione dell’art. art. 597, commi 3 e 4, cod proc. pen.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
Il PG presso questa Corte ha reso le conclusioni scritte riportate in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il profilo di doglianza sopra illustrato è infondato e, pertanto, il propost ricorso va rigettato.
Ed invero, come si avrà modo di evidenziare, numerosi sono stati gli errori in cui sono incorsi i giudici di merito in punto di determinazione della pena, ma tutti a favore dell’imputato. E, in quanto tali, in assenza di impugnazione della parte pubblica, non emendabili dai giudici dei gradi successivi.
2. Nel primo errore è incorso il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto nel sentenza di primo grado.
Chiamato a determinare la pena in relazione ai reati per i quali andava a pronunciare condanna e che si apprestava ad unificare quoad poenam legittimamente il giudice di primo grado ha individuato come reato più grave quello di cui all’art. 612bis cod. pen. sul rilievo -come si legge a pag. 7- che «la fattispecie di cui all’art 612 bis cod. pen. prevede un limite edittale superiore rispetto a quello previsto dal combinato disposto dei commi 1 e 3 dell’art. 609ter cod. pen.».
La pena prevista per il reato di stalking all’epoca del fatto era, infatti, quella della reclusione da sei mesi a cinque anni; che, nell’ipotesi aggravata di cui all’art. 612bis comma 2 cod. pen, diveniva quella da mesi otto ad anni 6 e mesi otto di reclusione. Quella per la violenza sessuale, tenuto conto della ritenuta prevalenza sulla contestata aggravante della circostanza attenuante del fatto di minore gravità era compresa in una forbice edittale da anni uno e mesi otto ad anni tre e mesi quattro di reclusione.
Correttamente, dunque, il giudice di primo grado, ha fatto riferimento al reato che prevedeva una pena edittale massima più alta, e dunque a quello di cui all’art. 612bis cod. pen.
Costituisce, infatti, ius receptum, sin dai dicta di S.U. n. 748 del 12/10/1993, dep. 1994, Cassata, Rv 195805 e di Sez. U, n. 4901 del 27/03/1992, COGNOME, Rv. 191128 – 01 il principio per il quale «il criterio cui deve aversi riguardo per determinazione del reato più grave agli effetti della continuazione non è quello della comparazione degli indici di gravità concreta dei reati ex art. 133 cod. pen., bensì quello della più grave pena edittale prevista dal legislatore per ciascun reato da comparare». E che, ai fini della determinazione della pena relativa a più fatti unificati sotto il vincolo della continuazione, è necessario innanzitutto individuare la violazione più grave, desumibile dalla pena da irrogare per i singoli reati, tenendo conto della eventuale applicazione di circostanze aggravanti o attenuanti, dell’eventuale giudizio di comparazione tra circostanze di segno opposto, e di ogni altro elemento di valutazione (Sez. 3, n. 225 del 28/06/2017, dep. 2018, Ahlal, Rv. 272211 – 01).
Tuttavia, altrettanto pacifico è che, in tema di concorso di reati puniti con sanzioni omogenee sia nel genere che nella specie per i quali sia riconosciuto il vincolo della continuazione, l’individuazione del concreto trattamento sanzionatorio per il reato ritenuto dal giudice più grave non può comportare l’irrogazione di una pena inferiore nel minimo a quella prevista per uno dei reati satellite da individuarsi con riferimento al reato ritenuto dal giudice in rapporto alle singole circostanze, svolto l’eventuale giudizio di bilanciamento (così Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, COGNOME, Rv. 255348 – 01 e, nel solco di quelle Sez. 3, n. 6828 del
17/12/2014, dep. 2015, Seck, Rv. 262528 – 01; Sez. 3, n. 18099 del 15/11/2019, dep. 2020, Niang, Rv. 279275; Sez. 5 , n. 854 del 18/11/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284184 – 01 che, in applicazione del principio, ha ritenuto immune da censure la decisione che, nell’individuare la pena per il reato satellite, aveva preso in considerazione, non già il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., punito con la reclu sione minima di anni dieci, bensì la fattispecie aggravata di cui al comma quarto della citata disposizione, per cui è fissata la reclusione minima di anni dodici; prima delle S.U. già Sez. 3, n. 9261 del 28/01/2010 Del Prete Rv. 246236 – 01 e Sez. 2, n. 19156 del 20/04/2007 Cattolico Rv. 236407 – 01 ).
Il giudice di primo grado, dunque, non avrebbe potuto determinare la pena base per lo stalking, aggravato dal fatto di essere stato commesso nei confronti di persona alla quale il colpevole era stato legato da relazione affettiva, in anni uno e mesi quattro di reclusione, ma avrebbe dovuto quantificarla almeno in anni uno e mesi otto di reclusione, pena minima per la violenza sessuale come risultante all’esito del compiuto bilanciamento di circostanze.
La pena base per lo stalking aggravato su cui operare l’aumento per la continuazione veniva, invece, determinata dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto in anni uno e mesi quattro di reclusione (anni uno di reclusione per l’ipotesi base, aumentata di quattro mesi per l’aggravante), cui venivano aggiunti quattro mesi di reclusione per la continuazione con la violenza sessuale lieve, pervenendosi ad una pena finale di anni uno e mesi otto di reclusione.
Con la prima sentenza della Corte di Appello di Messina, intervenuta il 20 settembre 2021, tale errore non era emendabile, in assenza di appello della parte pubblica. E comunque in quella sede il problema non si è posto e, scrutinando il solo gravame nel merito proposto dall’imputato ila Corte siciliana si è limitata a revocare l’interdizione dai pubblici uffici e a confermare l’affermazione di responsabilità dell’imputato, con la pena già quantificata dal giudice di primo grado.
Sennonché, nel successivo grado di giudizio, di fronte alla Terza Sezione Penale di questa Corte, i giudici hanno dovuto prendere atto che era nel frattempo intervenuta la remissione di querela da parte della persona offesa che, come correttamente si legge a pag. 2 della sentenza 8170/2023, poteva ritenersi produttiva di effetti per il solo reato di stalking, in quanto «non può esplicare alcun effetto per il delitto di violenza sessuale, stante lo sbarramento posto dall’art. 609-septies, comma 4, cod. pen. , a tenore del quale la querela proposta ‘è irrevocabile’».
Pertanto, annullata senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al delitto di cui al capo A, perché il reato è estinto per remissione di querela, essendo venuto meno quello che era stato indicato come il reato più grave, il precedente
giudice di legittimità non ha potuto far altro che rinviare alla Corte messinese per la rideterminazione della pena quanto al reato di violenza sessuale.
Ebbene, in sede dì rinvio, la Corte territoriale è incorsa in un ulteriore errore in punto di determinazione della pena, ancora una volta a favore dell’imputato.
Ritiene il Collegio che, chiamata a determinare la pena per il reato di violenza sessuale come risultante all’esito del già operato giudizio di bilanciamento delle circostanze (quindi ritenuta l’ipotesi lieve prevalente sulla contestata aggravante) il giudice del rinvio non poteva irrogare una pena inferiore al minimo edittale, ovvero anni uno e mesi otto di reclusione. Facendolo ha irrogato una pena illegale.
Va evidenziato che la Corte territoriale lo fa consapevolmente, se è vero che, come si legge a pag. 3 del provvedimento impugnato «si stima equa la pena di anni uno e mesi sette di reclusione, pena inferiore al minimo edittale in virtù del divieto di reformatio in pejus in conformità al conforme orientamento di legittimità sul punto»
La Corte territoriale richiama il dictum di Sez. 2 n. 2692/2023 che ha ribadito il principio secondo cui «nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento della condanna per il solo reato più grave, il giudice di rinvio, nei determinare la pena per il reato residuo, meno grave, non è vincolato alla quantità di pena già individuata quale aumento “ex” art. 81, comma secondo, cod. pen., ma, per la regola del divieto di “reformatio in peius “, non può irrogare una pena che, per specie e quantità, costituisca un aggravamento di quella individuata, nel giudizio precedente all’annullamento parziale, quale base per il computo degli aumenti a titolo di continuazione.
Va detto che, anche a voler seguire tale ragionamento -che il Collegio non condivide- della consapevole applicazione di una pena illegale, non si comprende perché la Corte messinese non si sia sentita vincolata ad irrogare la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, che, come ricordato, era stata la pena base per il reato di stalking aggravato su cui era stato determinato l’aumento per la continuazione con la violenza sessuale.
Orbene, l’indirizzo giurisprudenziale richiamato dalla Corte messinese è consolidato e condivisibile.
Questa Corte di legittimità, diversamente da quanto opina il ricorrente, ha da tempo chiarito che, nel giudizio di rinvio, a seguito di annullamento della sola condanna per il reato più grave, il giudice non è vincolato nella determinazione della pena per il reato residuo, ritenuto nel calcolo complessivo meno grave, alla quantità già individuata quale aumento “ex” art. 81 cpv. cod. pen. E che, tuttavia, per la regola del divieto di “reformatio in peius”, non può irrogare una pena che, per
specie e quantità, costituisca un aggravamento di quella individuata, nel giudizio precedente all’annullamento parziale, quale base per il computo degli aumenti a titolo di continuazione (Sez. 2, n. 2692 del 09/12/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284301 – 01; Sez. 4, n. 13806 del 07/03/2023 Clemente Rv. 284601 – 01; Sez. 6, n. 4162 del 07/11/2012, dep. 2013, Ancona ed altri, Rv. 254263 – 01; Sez. 2, n. 5502 del 22/10/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258263 – 01).
Va qui ulteriormente precisato che, quando viene a cadere un reato circostanziato, la pena base su cui sono stati calcolati gli aumenti -e al di sopra della quale non si può andare pena la violazione del divieto di reformatio in peius deve intendersi comprensiva anche degli aumenti per l’aggravante.
Il tema che pone il caso in esame è che una pena determinata in relazione al residuo reato in misura superiore a quella in precedenza determinata quale pena base per il reato più grave venuto meno sarebbe una pena illegittima. Mentre quella irrogata al di sotto del minimo edittale è una pena illegale, affetta, pertanto da un vizio ancora più grave.
La pena può dirsi «illegale», ha chiarito la giurisprudenza di legittimità, nell sua composizione più autorevole (cfr. Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018, R, e Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, COGNOME, entrambe in motivazione), quando, per specie ovvero per quantità, non corrisponde a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice in questione, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale, ovvero qualora, comunque, è stata determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione basato su una cornice edittale inapplicabile, perché dichiarata costituzionalmente illegittima o perché individuata in violazione del principio di irretroattività della legge penal più sfavorevole.
Sul punto ritiene il Collegio che vada ricordato come il principio di legalità della pena vada inquadrato nel sistema delle fonti multilivello, attraverso una breve ricognizione delle fonti che lo richiamano.
7.1. Cardine del sistema, il principio è cristallizzato nell’art. 25 Cost. il qua affermando che «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso», non soltanto vieta la retroattività della norma incriminatrice descrittiva del fatto, ma dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice.
La garanzia del “nullum crimen sine lege”, come declinata nella carta costituzionale, contiene in sé – in un rapporto di necessaria implicazione – il principio “nulla poena sine lege”, benché alla pena la disposizione faccia sintetico riferimento solo attraverso l’uso del verbo “punire”, evocativo sia della affermazione di responsabilità, che delle conseguenze che ne derivano. Si tratta, all’evidenza, di
principi intimamente connessi, perché la pena esprime il disvalore del fatto e, ancor prima, ne connota la rilevanza penale. Dunque, l’esegesi – sia letterale che logica – della norma costituzionale depone per l’esistenza di una riserva di legge assoluta anche in relazione alla pena, della quale la legge deve prevedere tipo, contenuto e misura.
A livello sovranazionale, il principio del “nulla poena”trova poi riconoscimento nell’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Scolpito in termini inequivoci nella rubrica della norma («Nessuna pena senza legge»), esso è esplicato nel secondo comma, per il quale «Non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato», atteso che il mutamento peggiorativo di cui la norma vieta l’applicazione ai fatti commessi anteriormente non può che essere riferito alla legge nazionale o internazionale che prevede la fattispecie di reato. Escludendo l’applicazione estensiva o analogica della legge penale a detrimento dell’imputato, il principio costituisce un presidio di garanzia indefettibile nel sistema di protezione dei diritti umani. Da notare che, nel testo dell’art. 7 il rife mento è operato non alla legge formale ma, genericamente, al “diritto” (law), volendosi evidentemente includere nell’ambito operativo della disposizione anche gli ordinamenti basati su un sistema di precedenti vincolanti cui il giudice ha l’obbligo di conformarsi; sicché anche l’overruling giurisprudenziale, modificativo di una interpretazione costante della norma, equiparabile ad un vero e proprio fenomeno di successione di leggi, può refluire in un deficit di prevedibilità della sanzion penale, lesivo della garanzia convenzionale.
In una declinazione più ampia, il principio di legalità della pena si rinviene nell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New Yo 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881, il quale, oltre a prevedere espressamente il canone del “nullum crimen, nulla poena sine lege”, impone anche l’obbligatoria applicazione della pena sopravvenuta più favorevole (anche se, con la legge di ratifica, lo Stato italiano ha dichiarato di interpretare l’ultima disposizione in termini restrittivi, escludendo che il princip possa trovare applicazione nei casi in cui sia già stata pronunciata una decisione definitiva).
Da ultimo, la proiezione codicistica del principio di legalità è contenuta nell’art. 1 cod. pen., che, nella sua piana formulazione, esplicitamente riferisce la riserva di legge tanto alla norma incriminatrice, quanto alla pena.
7.2. Il tema della legalità della pena è presente anche in numerose pronunce della Corte costituzionale.
I giudici delle leggi hanno offerto contributi non specifici per la soluzione dell questione controversa, ma dai quali è possibile ricostruire importanti direttrici d sistema.
Con la risalente sentenza n. 15 del 1962, la Consulta sancì che la copertura costituzionale di cui all’art. 25, secondo comma, attiene non al solo reato ma anche alla pena e chiarì che la potestà punitiva del giudice si esplica mediante l’applicazione di una pena adeguata al fatto ritenuto antigiuridico, di tal che «non si può contestare che pure la individualizzazione della sanzione da comminare risulta legata al comando della legge».
Ancora, nell’ambito delle sentenze che, in epoca più recente, hanno posto l’accento t 5 fflob sulla necessità di individualizzare il trattamento sanzionatorio, perché sia preservata, tra le altre, la funzione rieducativa assegnata alla pena dall’art. 2 Cost., Corte cost., n. 299 del 1992 ha argomentato che «la determinazione legislativa del minimo e del massimo della pena irrogabile per ciascun tipo di reato non rappresenta soltanto un limite alla discrezionalità giudiziale, ma costituisce anche un indispensabile parametro legislativo per l’esercizio di essa, un criterio guida senza il quale il potere così riconosciuto al giudice non sarebbe riconducibile al principio di legalità. Mediante la determinazione legislativa del minimo e del massimo di pena, infatti, il compito che viene assegnato al giudice è quello di “proporzionare” la sanzione concreta non già al proprio giudizio di disvalore sul fatto previsto dalla legge come reato, ma alla scala di graduazione» come definita dal legislatore.
In particolare, la predeterminazione legislativa del massimo di pena irrogabile per un determinato tipo di reato è considerato dalla Corte un requisito essenziale affinché la discrezionalità giudiziale, in sede di dosimetria della pena, trovi nel legge il suo limite e la sua regola e non si traduca, invece, in arbitrio; e così pu è a dirsi quanto all’ampiezza del divario tra il minimo ed il massimo edittale, che non deve eccedere il margine di elasticità necessario a consentire al giudice di modulare la pena secondo gli indici commisurativi di cui all’art. 133 cod. pen., poiché, diversamente, la predeterminazione legale sarebbe soltanto apparente.
Sempre in relazione al connotato della proporzionalità, Corte cost., n. 391 del 1994, ha ribadito che il finalismo rieducativo è un tratto identitario della pena e implica l’osservanza costante del “principio di proporzione” tra qualità/quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra; tale valore proporzionale, proie zione del principio di uguaglianza, tiene in equilibrio le istanze di difesa sociale di tutela delle posizioni individuali, sottese alla sanzione penale (Corte cost., n 409 del 1989).
A proposito del regime giuridico delle sopravvenute modifiche normative incidenti sulla pena, che pure interferisce, con il tema della sua legalità, Corte cost.
n. 393 del 2006, ha poi sancito che, se il divieto di retroattività della norma più sfavorevole ha un valore costituzionale assoluto e inderogabile in quanto la calco!abilità delle conseguenze giuridiche della propria condotta è condizione della libertà di autodeterminazione individuale, al contrario, il principio di retroattivi della legge penale più favorevole, recepito nell’ordinamento dall’art. 2 cod. pen., non trova analoga copertura nella Carta fondamentale, essendo suscettibile di deroga legislativa. In particolare, eventuali scostamenti dal principio di retroattivi in mitius «possono essere disposti dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione giustificativa» da correlarsi ad interessi di rilievo che, richiamando propri precedenti arresti, la Corte stessa ha individuato, in via esemplificativa, in quelli «dell’efficienza del processo, della salvaguardia dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell’intera collettività nazionale connessi a valori costituzional di primario rilievo».
Corte cost. n. 236 del 2011, sui medesimi temi, invocando l’esigenza di un adeguato bilanciamento degli interessi in gioco, ha puntualizzato che è il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. ad imporre di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice del trattamento penale, non essendo ragionevole non tenere conto del mutato apprezzamento del loro disvalore.
Da notare che, nonostante le sentenze Corte EDU, Grande Camera 17 settembre 2009, COGNOME c. Italia e, in linea di continuità, Corte EDU 27 aprile 2010, COGNOME c. Italia, abbiano attribuito al principio di retroattività della norma favorevole valore di principio fondamentale del diritto penale – alla luce di una interpretazione dinamica ed evolutiva della garanzia – e nonostante l’art. 7 CEDU, che lo prevede, sia norma interposta rispetto al parametro costituzionale di cui all’art. 117 Cost., situandosi nella gerarchia delle fonti ad un livello sovraordinat rispetto alla legge ordinaria, tuttavia esso non ha acquisito maggior grado di rigidità, avendo la stessa Corte di Strasburgo puntualizzato che la retroattività della lex mitior non ha in sé attitudine a scalfire il giudicato.
Ancora, Corte cost. n. 236 del 2016, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 567, secondo comma, cod. pen. per la ritenuta manifesta sproporzione della cornice edittale in rapporto al reale disvalore della condotta, ha riaffermato la valenza ineludibile del principio di proporzionalità della pena di matrice eurounitaria, il quale esige un’articolazione legale del sistema sanzionatorio che renda possibile, a tutela delle posizioni individuali, l’adeguamento della pena alle effettive responsabilità personali.
In assenza di una norma definitoria della pena illegale, la relativa nozione, invero in termini assai problematici, è stata ricostruita dalla interpretazione giuri sprudenziale che, in un percorso evolutivo ancora in divenire, ne ha progressivamente dilatato i confini, così da teorizzare, accanto ad una illegalità originaria, una illegalità sopravvenuta.
8.1. Secondo la concezione tradizionale, è “ah origine” illegale – e ne è consentito il rilievo anche d’ufficio nel giudizio di cassazione – la pena diversa pe specie da quella che la legge stabilisce per ii reato, ovvero inferiore o superiore per quantità ai relativi limiti edittali (Sez. 6, n. 32243 del 15/7/2014, COGNOME, R 260326; Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729), poiché, così caratterizzata, essa si colloca al di fuori dell’assetto normativo vigente.
Di contro, esula dall’ambito della illegalità – con la conseguenza che non ne è consentito il rilievo d’ufficio – il vizio che infici il percorso argomentativo attrav il quale il giudice giunge alla conclusiva determinazione dell’entità della condanna; ossia l’errore – sia esso di fatto o di diritto – che attenga al procedimento di calcol allorquando alla stessa pena finale sarebbe stato possibile giungere attraverso una diversa modulazione delle varie determinazioni intermedie, inerenti alla individuazione della pena base e degli aumenti e diminuzioni da operare a titolo di tentativo, di circostanze, di continuazione. Diversamente opinando – si è argomentato – qualunque errore di diritto compiuto nel computo della pena andrebbe corretto d’ufficio, così da snaturare il meccanismo stesso dell’impugnazione di legittimità, che è invece retto dal principio devolutivo di cui al primo comma dell’art. 609, cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729; Sez. 5, n. 8639 del 20/1/2016, COGNOME, Rv. 266080; Sez. 2, n. 46765 del 09/12/2021, COGNOME, Rv. 282322);
A titolo esemplificativo, è stata ricondotta all’errore di diritto, non prospettab per la prima volta e non rilevabile d’ufficio nel giudizio di legittimità, l’erronea applicazione della regola di cui all’art. 63, quarto comma, cod. pen. nella sentenza di primo grado, nella determinazione dell’incremento di pena a titolo di recidiva, in un caso in cui la pena finale non risultava comunque diversa, né esorbitante, dalla previsione legale (Sez. 2, n. 14307 del 14;03/2017, Musumeci, Rv. 269748).
In relazione alla nozione di illegalità Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, COGNOME, Rv. 265110-1, hanno evidenziato che gli errori commessi nella determinazione di una pena comunque legittima nel suo valore finale più strettamente ineriscono alla c.d. legalità processuale, che fuoriesce dall’ambito del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., chiamando piuttosto in causa i principi regolativi giusto processo ex art. 111 Cost; così come deve escludersi che rientrino nella nozione di pena illegale le pene ingiuste o eccessive, per le quali potrebbe porsi,
semmai, un problema di coerenza con altri parametri costituzionali, quali quelli di uguaglianza, di proporzionalità, di ragionevolezza.
Le coeve Sez. U, n. 47766 del 26/5/2015, Butera, Rv. 265108, in relazione ad una pena “geneticamente” illegale, nell’accezione sopra precisata, hanno ribadito che l’illegalità della pena è deducibile e può essere rilevata ex officio purché il ricorso non sia tardivo (mentre è deducibile davanti al giudice dell’esecuzione, adito ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., quando il ricorso sia stato presentato fuori termine). In particolare, l’illegalità a tal fine rilevante sussiste quando la p irrogata non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale, ma non quando risulti errato il calco attraverso il quale essa è stata determinata, salvo che sia frutto di errore macroscopico (ipotesi che ricorre quando la sanzione sia abnorme, in quanto frutto di errore marchiano non giustificabile e non invece di una argomentata, per quanto discutibile, valutazione, ovvero quando sia il frutto di un palese errore di calcolo) Al di fuori dell’ipotesi di errore macroscopico, la condanna a pena (non illegale, ma solo) illegittima, contenuta in una sentenza non ritualmente impugnata, non può dunque essere rettificata neppure in sede esecutiva.
8.2. Una significativa espansione della categoria della pena illegale ha avuto impulso da alcuni arresti delle Sezioni Unite, che hanno ricostruito ipotesi di ille galità c.d. sopravvenuta, legate alla declaratoria di illegittimità costituzionale norme incidenti sul trattamento sanzionatorio.
Tali pronunce offrono importanti spunti dogmatici e un’innovativa ricostruzione dei poteri del giudice della esecuzione in rapporto al giudicato, ossia di un tema che pure intercetta quello della pena illegale. Ciò perché, dove è ammesso un intervento in executivis, modificativo del giudicato, per porre rimedio alla illegalità della pena, non appare ragionevole – anche per una elementare istanza di economia dei mezzi giuridici – non consentire il rilievo ufficioso di tale illegalità anche parte del giudice della impugnazione inammissibile.
Si ascrive a questo orientamento giurisprudenziale Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258651 e 258649, apripista del processo di revisione critica del dogma della intangibilità del giudicato formale.
Le Sezioni Unite posero in luce argomenti di innegabile solidità che si oppongono all’esecuzione di una sanzione penale divenuta illegale per la violazione dell’art. 7, § 1, della Convenzione Edu, così come accertata dalla Corte EDU nella sentenza 17 settembre 2009, COGNOME c. Italia, riassumibili come segue:
pur nel riconoscimento della innegabile portata valoriale del giudicato, nel quale sono insite ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell’assetto dei rappo giuridici, in uno stato di diritto deve essere costantemente garantita la conformità
a legge della pena, dal momento della sua irrogazione fino a quello della sua esecuzione, giacché il rapporto di esecuzione resta sub iudice fino alla completa espiazione e non può ritenersi ostacolato dal dato formale della c.d. “situazione esaurita”;
l’impossibilità di dare esecuzione ad una sanzione, su cui incide una norma che, come nella specie, è stata anche dichiarata incostituzionale (v. sent. Corte cost., n. 210 del 2013), poggia su due riferimenti normativi: l’art. 30, quart comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, lì dove recita che «Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» e che «quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali», e l’art. 673 cod. proc. pen., che discipl fenomeni dell’abrogazione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale della fattispecie incriminatrice, assegnando al giudice dell’esecuzione il compito di revocare la statuizione di condanna e di adottare i provvedimenti conseguenti;
il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona, quale certamente è la libertà dell’individuo, la cui tutela deve necessariamente prevalere;
sulla base di tale sostrato teorico è ammissibile, dunque, un intervento in executivis sulla pena;
tali situazioni di illegalità devono essere emendate “dallo stigma dell’ingiustizia” e, quindi, eventuali effetti ancora perduranti della violazione devono essere rimossi anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si trovano in una situazione identica a quella oggetto della decisione adottata dal giudice Europeo ne! caso COGNOME.
Il percorso ermeneutico di rilettura del concetto e della funzione del giudicato penale avviato dalla sentenza “COGNOME” proseguì con Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, COGNOME, Rv. 260697, Rv. 260695 e 260700.
In scia con tale decisione, la sentenza “COGNOME“, sempre con riguardo al ruolo del giudice dell’esecuzione nel rideterminare la pena in esito alla declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, ma comunque incidente sul trattamento sanzionatorio, ha ritenuto la necessità che si proceda a rimodulare la pena, non interamente eseguita in favore del condannato; e ciò pure se il provvedimento “correttivo” da adottare non abbia contenuto rigidamente predefinito, dovendosi riconoscere al giudice dell’esecuzione penetranti poteri di accertamento e di valutazione – in linea con i poteri, più o men incidenti sul giudicato, di cui detto giudice dispone, evocati dalla Corte costituzio nale nella sentenza n. 210 del 2013, e che la dottrina ha classificato come selettivi (art. 699 cod. proc. pen.), risolutivi (art. 673 cod. proc. pen.), di conversione (a
2, terzo comma, cod. pen.), modificativi (artt. 672, 676 cod. proc. pen.), ricostruttivi (art. 671 cod. proc. pen. e 188 disp. att. cod. proc. pen.), complementari e supplenti (art. 674 cod. proc. pen.).
Sez. U. COGNOME hanno arricchito di un ulteriore importante tassello la riflessione sui temi in analisi, confermando come l’efficacia del giudicato penale nasca dalla necessità di certezza e stabilità giuridica, cui naturalmente ambisce la giurisdizione, ma anche dalla esigenza garantistica di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera individuale (esigenza che si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem); in ragione di quest’ultima istanza, l’immodificabilità del decisum non può ritenersi assoluta, perché, fino al momento in cui la pena non sia stata interamente espiata, rimane in essere il “rapporto processuale esecutivo” ed il trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna può subire modifiche a tutela dei diritti primari della persona, con la sola salvezza de limiti fissati dalla pronuncia di cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali, o comunque derivanti dai principi in materia di successione di leggi penali nel tempo.
Ebbene, nelle sentenze “COGNOME” e “COGNOME” il potere emendativo del giudicato è stato ancorato alla peculiare natura della causa di illegalità, posto che la declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma costituisce un “evento di pato logia normativa”, che impone di rimuovere dall’universo giuridico tutti gli effett pregiudizievoli che trovino nella norma dichiarata illegittima la propria scaturigine, con la sola eccezione di quelli oramai irreversibili perché esauriti.
8.3. Le Sezioni Unite, proseguendo il percorso già intrapreso dalle sentenze “COGNOME” e “COGNOME“, hanno sviluppato il tema della illegalità sopravvenuta della pena, conseguente alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice o di altra norma incidente sul trattamento sanzionatorio.
Sez U n. 33040 del 26/02/2015, COGNOME, Rv. 264205-6, investite di un quesito afferente alla illegalità della pena, come conseguenza della decisione della Corte costituzionale n. 32 del 2014 in tema di stupefacenti, osservarono che del giudicato penale occorre prendere in considerazione una duplice dimensione: la prima, relativa all’accertamento del fatto, del quale non è consentita, al di fuori del speciali ipotesi rescissorie, una rivalutazione, e ciò essenzialmente a garanzia del reo (garanzia che si traduce nel divieto del bis in idem); la seconda, relativa alla determinazione della pena che, sprovvista di reale copertura costituzionale (o convenzionale), ha un grado di resistenza decisamente inferiore rispetto alle sollecitazioni provenienti ab extra rispetto alla res iudicata.
Secondo le Sezioni unite, se il giudicato sull’accertamento è, e resta, intangibile, non essendone consentito un diverso apprezzamento, il giudicato sulla pena è permeabile ad eventuali modifiche.
In un’ottica di “flessibilizzazione” del giudicato di condanna, non può non ritenersi illegale la pena calcolata sulla base di parametri edittali successivamente dichiarati incostituzionali.
Con la sentenza S.U. COGNOME, la Corte, nella sua più autorevole composizione, osservò che, in linea di massima, la pena deve «risultare correlata alla gravità del fatto di reato, pur potendo risentire di altri imperscrutabili fattori (come, ad esem pio, il bisogno di rassicurazione sociale ovvero le necessità politico-criminali contingenti). In altri termini, la pena è costruita sulla gravità del fatto e giustif da essa, nelle sue componenti oggettive (importanza del bene, modalità di aggressione, grado di anticipazione della tutela) e soggettive (grado di compenetrazione fatto-autore), come sua variabile dipendente: una distonia nel rapporto o addirittura uno iato tra i due fattori sarebbero costituzionalmente intollerabili»; qui la tesi che non possa essere conservata la pena determinata in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma in seguito dichiarata incostituzionale e, quindi, inesistente ex tunc, venendo diversamente ad essere compromessa la stessa funzione, retributiva e rieducativa, cui essa deve assolvere secondo il paradigma dell’art. 27 Cost.
E ciò è tanto vero che ciò deve valere anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa nella forbice edittale prevista dall’originaria formulazione del medesimo articolo, anteriore alla novella del 2006, rivissuto per effetto della declaratoria di incostituzionalità della norma di maggior rigore, perché risultano comunque mutati i parametri di riferimento.
Nell’occasione, analizzando le ricadute della illegalità della pena derivante da pronunce dichiarative di illegittimità costituzionale – oggetto del quesito rimesso le Sezioni Unite sancirono che fa eccezione alla generale rilevanza della pena divenuta illegale la inammissibilità del ricorso derivante dalla tardività della sua pro posizione.
Di qui il principio in forza del quale: «nel giudizio di cassazione l’illegalità de pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo».
Ancora, la coeva Sez. U, n. 37107 del 26/2/2015, COGNOME, Rv. 264857-858859, analizzò l’impatto sulle pene patteggiate della medesima pronuncia dichiarativa di incostituzionalità, Corte cost., n. 32 del 2014, che aveva determinato la reviviscenza del trattamento sanzionatorio di maggior favore per le droghe c.d. leggere.
Nell’occasione la Corte ritenne che anche la pena che sia stata applicata ex art. 444 cod. proc. pen. per uno o più delitti previsti dall’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990
ancorché divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32 del 2014, dovesse essere rideterminata in sede di esecuzione, in quanto costituente pena illegale, a nulla rilevando che fosse compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria f mulazione del medesimo articolo di legge, “rivissuto” per effetto della sentenza di illegittimità.
Il giudice della esecuzione avrebbe dunque dovuto procedere a rideterminare la pena a causa della sua illegalità sopravvenuta, con le modalità di cui al procedimento previsto dall’art. 188 disp. att. cod. proc. pen. e, nel caso di mancato accordo, ovvero di quantificazione concordata inter partes ma ritenuta incongrua, provvedendo autonomamente, in applicazione dei criteri commisurativi di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen.; e ciò ferma restando la intangibilità del giudicato, quanto ai profili relativi alla sussistenza del fatto, alla sua attribuibilità soggettiva e qualificazione giuridica.
Allo stesso ambito concettuale si ascrive, ancora, la sentenza delle Sez. U, 26 febbraio 2015, n. 22471, Sebbar, Rv. 263715, la quale affermò che l’illegalità sopravvenuta per effetto della ridetta dichiarazione di incostituzionalità imponesse di rideterminare la pena inflitta anche per i reati-satellite. In particolare, l’aume di pena a titolo di continuazione per i reati posti in continuazione, pure riconducibil all’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, se relativi alla “droghe leggere”, doveva anch’esso essere oggetto di specifica rivalutazione da parte dei giudici del merito, alla luce del mutato e più favorevole “compasso sanzionatorio”, proprio in ragione del simbiotico rapporto tra legalità e pena.
8.4. Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, COGNOME, Rv. 265111, forniscono a loro volta un ulteriore contributo al quadro ricostruttivo generale, in riferimento tema della modifica in melius del trattamento sanzionatorio.
Ed invero, con tale pronuncia si è affermato il diritto dell’imputato di essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo, alla luce dell’art. 2 cod. pen., anche nel caso in cui la pena inflitta con la leg previgente rientri nella cornice edittale sopravvenuta, per il solo fatto che sono mutati, per effetto della modifica migliorativa, i parametri di apprezzamento del disvalore della condotta. Dunque, nel caso di ricorso inammissibile per qualunque ragione e con il quale non vengano proposti motivi riguardanti il trattamento sanzionatorio, la Corte ben può rilevare d’ufficio che la sentenza impugnata era stata pronunziata prima dei mutamenti normativi che hanno modificato il trattamento sanzionatorio in senso favorevole all’imputato, pronunciando l’annullamento sul punto e demandando al giudice di rinvio la rideterminazione della pena, da compiere alla luce del nuovo quadro di riferimento.
Perciò, utilizzando quale parametro il principio di legalità della pena, le Sezioni Unite hanno colto l’occasione per meglio perimetrare gli spazi cognitivi del giudice di legittimità, operando un distinguo tra pena illegale e pena (solo) ingiusta.
Ne risulta un quadro composito in virtù del quale, all’ambito concettuale della pena illegale si ascrive la sanzione «determinata sulla base di parametri completamente stravolti da una successiva modifica legislativa, ed applicata in modo incompatibile con la disciplina normativa successiva»; mentre tale non è, con le implicazioni che si sono dette quanto alla impossibilità di rilevarne d’ufficio il vi in presenza di un ricorso inammissibile, la “pena ingiusta”, ovverosia quella pena che, rimanendo entro i margini edittali sopravvenuti, sia irrogata:
con riferimento alla gravità di un fatto criminoso il cui disvalore sociale non sia mutato significativamente;
entro limiti ragionevolmente commisurabili, in astratto, anche alla diversa gravità del fatto come previsto dalla nuova normativa;
determinandone in concreto il quantum con riferimento ad un gradiente di gravità non significativamente diverso rispetto a quello del successivo e più favorevole trattamento e chiaramente commisurato ai criteri indicati dall’art. 133 cod. pen.
Nella vicenda all’epoca rimessa alle Sezioni Unite, la forbice edittale del reato di cui al quinto comma dell’art. 73 del d.p.r. n. 309 del 1990 era stata contratta nelle more del processo con la previsione di una cornice edittale (reclusione da sei mesi a quattro anni) meno severa rispetto a quella originaria (reclusione da uno a sei anni) e le Sezioni Unite hanno conclusivamente ritenuto che il diritto dell’imputato di essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo – a prescindere dalla assoluta incompatibilità della pena inflitta con i parametri di nuova introduzione – comportasse per il giudice della cognizione il dovere di applicare comunque la /ex mitior; sia la finalità rieducativa della pena che il rispetto dei principi di uguaglianza e di proporzionalità imponevano l’adeguamento della misura della sanzione, precedentemente individuata sulla base dei parametri edittali modificati dal legislatore in termini di minore gravità.
8.5. In esito a tale percorso Sez. U, n. 38809 del 31/03/2022 COGNOME Rv. 283689 – 01, chiamate a rispondere al quesito se, in presenza di ricorso per cassazione inammissibile per ragioni diverse dalla tardività dello stesso, la Corte di cassazione possa rilevare ex officio la illegalità della pena in quanto di specie diversa rispetto a quella di legge o inflitta in misura superiore al massimo edittale, al di fuori delle ipotesi in cui ciò derivi da sopravvenuta declaratoria di illegitti costituzionale della relativa norma e/o da mutamento normativo in melius della stessa, hanno risposto che spetta alla Corte di cassazione, in attuazione degli artt.
3, 13, 25 e 27 Cost. il potere, esercitabile anche in presenza di ricorso inammissibile, di rilevare l’illegalità della pena determinata dall’applicazione di sanzione ” origine” contraria all’assetto normativo vigente perché di specie diversa da quella di legge o irrogata in misura superiore al massimo edittale (la fattispecie era relativa ad irrogazione della pena detentiva per il reato di cui all’art. 582 cod. pen., luogo delle sanzioni previste, per i reati di competenza del giudice di pace, dall’art. 52, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274).
Sez. U. COGNOME, con specifico riferimento alla nozione di illegalità della pena dettano precise e chiare regole (pag. 8) affermando che: «occorre delimitare il concetto di illegalità della pena, che richiede particolare rigore esegetico, correlato alla esatta delimitazione dei problemi da risolvere, fermo restando che, nel caso di rilievo officioso, la nozione generale è operativamente destinata a misurarsi con il divieto di reformatio in pejus, che impedisce, in assenza di impugnativa del P. M., un intervento sulla pena inferiore al minimo previsto dalla legge. In giurisprudenza è infatti emersa anche un’accezione estesa di ‘pena illegale’, destinata a far riferimento al trattamento sanzionatorio concretamente modulato all’esito del processo. Anche Sez. 6, n. 17119 del 14/03/2019, P., Rv. 275898, chiamata ad occuparsi di una vicenda analoga, ha ritenuto che l’illegalità della pena si riferisc non solo alla pena non conforme a quella stabilita in astratto dalla norma penale, ma anche agli istituti che comunque incidono sul trattamento sanzionatorio e trovano applicazione nella sentenza di condanna».
E, ancora, le medesime S.U. COGNOME, a pag. 23, ricordano che: «In siffatta cornice, si colloca, come si diceva supra, la giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente elaborato il principio in forza del quale, nell’ipotesi in cui il giud abbia irrogato una sanzione superiore ai limiti edittali, ovvero più grave per genere o specie di quella prevista in astratto dalla fattispecie incriminatrice, la Corte cassazione deve -anche di ufficio- annullare la sentenza impugnata, qualora non possa direttamente provvedere a rideterminare la pena (Sez. 2, n. 22494 del 25/05/2021, NOME, Rv. 281453-01, la quale ha sottolineato come si tratti di un potere officioso esercitabile solo in bonam partem, ossia nei casi nei quali l’errore sia avvenuto in danno dell’imputato, posto che la pena favorevole al reo può essere corretta dalla Corte di cassazione solo in presenza di impugnazione del pubblico ministero). In tal modo, viene delineata una nozione circoscritta di pena illegale che, senza investire i modi del concreto esercizio del potere discrezionale assegnato al giudice di merito (e, pertanto, senza coinvolgere i profili di erronea applicazione dei criteri commisurativi), ha riguardo ai confini che segnano, nel quadro della legalità costituzionale, il fondamento della potestà punitiva, imponendo, rispetto al risultato di tutela dei diritti fondamentali, una coerente lettu del sistema processuale. Rientra pertanto in tale nozione la sanzione non prevista
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dall’ordinamento giuridico ovvero superiore ai limiti previsti dalla legge o ancora più grave per genere o specie di quella individuata in astratto dal legislatore.
La conclusione (pag. 24 § 9.3.) è che: «Le Sezioni Unite ritengono che la nozione di pena illegale non possa estendersi sino al punto da includere profili incidenti sul regime applicativo della sanzione, a meno che ciò non comporti la determinazione di una pena estranea all’ordinamento per specie, genere o quantità. In altri termini, la pena è illegale, ai fini qui rilevanti del rilievo officioso anche i di inammissibilità del ricorso, non quando consegua ad una mera erronea applicazione dei criteri di determinazione del trattamento sanzionatorio, alla quale l’ordinamento reagisce approntando i rimedi processuali delle impugnazioni, ma solo quando non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero sia superiore ai limiti previsti dalla legge o sia più grave per genere e specie di quella individuata dal legislatore. In definitiva, è necessario che la nozione di pena illegale, come si diceva in principio, venga calibrata sulla sua funzione di rappresentare l’altro polo del giudizio di bilanciamento da operare in relazione alle garanzie sottese al giudicato, ossia quale limite estremo di tutela della libertà personale esposta al rischio di un arbitrio che travalichi i limiti del potere sanzionatorio riconosciuto al giudice
Per NOME COGNOME (pag. 24) tale conclusione si impone in quanto «irrogare una sanzione diversa per specie e/ o quantità rispetto ai confini edittali impegna il valore costituzionale della legalità della pena di cui all’art. 25 Cost., che resterebb vulnerato se non si potesse porre rimedio, a nche d’ufficio, all’errore del giudice del grado precedente» (Sez. 2, n. 12991 del 19/02/ 2013, COGNOME, Rv. 255197; così anche Sez. 5, n. 44897 del 30/09/ 2015, COGNOME Lima, Rv. 265 529; Sez. 1, n. 33326 del 14/02/ 2017, COGNOME, non mass.; Sez. 1, n. 40896 del 28/03/ 2017, COGNOME, non mass.).
La conclusione, dunque, è nel senso che: «la pena che non sia prevista, nel genere, nella specie o nella quantità, dall’ordinamento, è una pena che attesta un abuso del potere discrezionale attribuito al giudice, con l’usurpazione dei poteri esclusivi del legislatore. Il rilievo dell’illegalità della pena, anche ab origine, deve, pertanto, prevalere sul giudicato sostanziale, in tal modo venendosi ad ampliare la casistica, già elaborata dalla giurisprudenza sopra ricordata, delle eccezioni alla regola dell’intangibilità del giudicato.
Nel solco di tale giurisprudenza, ancora recentemente, si è ulteriormente delineato il profilo dell’illegalità della pena affermando che a seguito della sentenza Corte costituzionale n. 40 del 2019, dichiarativa della illegittimità costituziona dell’art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nella parte relativa al minimo edittale, fissato in anni otto di reclusione piuttosto che in anni sei, deve ritene illegale la pena inflitta sulla base della cornice sanzionatoria previgente, anche con
riferimento ai fatti commessi in epoca precedente al 30 dicembre 2005. (Sez. 1, n. 20878 del 21/03/2023 Galeano) Rv. 284715 – 01 nella cui motivazione, la Corte ha precisato che, pur trovando origine la predetta declaratoria di illegittimità costituzionale nell’assetto sanzionatorio determinatosi per effetto della sentenza Corte cost. n. 32 del 2014, non risultano poste altre limitazioni o condizioni alla sua applicazione). O, ancora, che in tema di ricorso per cassazione avverso una sentenza di patteggiamento, deve ritenersi illegale, e non illegittima, l’applicazione della pena pecuniaria sostitutiva, in luogo della pena detentiva concordata, oltre i limiti fissati dall’art. 20-bis cod. pen. (Sez. 6, n. 45903 del 25/10/2023, Nadi Rv 285451 – 01).
Ancora, si è affermato che costituisce pena illegale l’incremento sanzionatorio per la recidiva in misura eccedente il cumulo delle pene derivanti da precedenti condanne, in quanto il disposto di cui all’art. 99, comma sesto, cod. pen. pone un limite assoluto e inderogabile alla sanzione irrogabile in concreto (Sez. 2, n. 21426 del 15/03/2023, La Barbera, Rv. 284716 – 01).
Come ricorda condivisibilmente Sez. 2 n. 21426/2023 Nella giurisprudenza di legittimità la nozione di pena illegale risulta elaborata anche in relazione a casi simili essendosi affermato che il giudice d’appello, anche in mancanza di uno specifico motivo di gravame, ha il dovere, in forza del principio costituzionale di lega lità della sanzione, di modificare la sentenza che abbia inflitto una pena illegale per eccesso in ordine alla sua quantità; in un primo caso (Sez. 1, n. 8405 del 21/01/2009, Rv. 242973 – 01) tale principio risulta affermato in relazione ad una fattispecie relativa all’irrogazione della pena di trenta anni di reclusione per il rea di omicidio, nonostante l’avvenuto riconoscimento dell’equivalenza tra le contestate aggravanti e le attenuanti generiche. In epoca successiva invece la stessa affermazione della ritualità della statuizione del giudicedi appello pur non investito di motivo di gravame risulta adottata in relazione ad una fattispecie relativa al reato continuato in cui il giudice d’appello aveva provveduto a rideterminare la pena base – fissata dal giudice di primo grado in termini superiori al massimo edittale stabilito per la fattispecie – con conseguente riduzione della pena finale (Sez. 1, n. 7892 del 23/10/2019, Rv.278078 – 01).
«In sostanza, quindi -si legge ancora in Sez. 2 n. 21426/2023- il limite quantitativo massimo stabilito per ciascun reato anche aggravato costituisce un ostacolo superato il quale si configura la pena illegale; orbene, posto che la recidiva è una circostanza anche ad effetto speciale e che l’aumento massimo di pena previsto per detta circostanza è pari alle misure indicate dai commi 1, 2, 3 e 4 della stessa norma (un terzo, la metà o due terzi della pena base) nel rispetto però del limite previsto dall’ultimo comma della stessa norma (art. 99 comma sesto cod. pen.), deve ritenersi che un aumento in misura superiore al combinato disposto
dei diversi commi, costituendo il comma sesto un limite assoluto ed inderogabile all’aumento possibile, costituisce pena illegale».
Diversamente, per Sez. U, n. 47182 del 31/03/2022, COGNOME, Rv. 283818 – 01, in tema di giudizio abbreviato, qualora la pena concretamente irrogata rientri nei limiti edittali, l’erronea applicazione da parte del giudice di merito della misur della diminuente, prevista per un reato contravvenzionale giudicato con rito abbreviato, integra un’ipotesi di pena illegittima e non già di pena illegale (e perci la Corte ha ritenuto preclusa, ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., la relativa questione in quanto non dedotta con i motivi di appello).
10. Applicando i principi derivanti da tale cospicua elaborazione giurisprudenziale al caso che ci occupa, la Corte messinese, una volta che il giudice di legittimità aveva preso atto del venire meno dello stalking per la rimessa querela, aveva dinanzi a sé la prospettiva di compiere un potenziale errore di diritto – e quindi di determinare una pena superiore alla pena base (erroneamente) determinata dai giudici precedenti per calcolare gli aumenti per la continuazione – oppure irrogare, per il reato residuo, una pena pacificamente illegale perché inferiore al minimo edittale.
Ebbene, ritiene il Collegio che, di fronte all’alternativa tra irrogare una pena illegittima ed una illegale, la Corte territoriale avrebbe dovuto scegliere la prima strada. Ed irrogare la pena di anni uno e mesi otto di reclusione, pena minima per la violenza sessuale lieve. Pena che, peraltro, nella sua entità complessiva, finiva per essere la stessa già determinata, sebbene per due reati, dal giudice di primo grado.
Un’opzione ermeneutica in tal senso trova conferma nel principio già in passato affermato da questa Corte secondo cui una volta annullata dalla Corte di cassazione, su ricorso del solo imputato, sentenza di condanna per reato continuato limitatamente alla violazione più grave (nella specie per essere il reato prescritto), il giudice di rinvio non può lasciare inalterata, per il reato residuo, la pena irroga per esso a titolo di continuazione nel giudizio antecedente all’annullamento, ma deve rideterminarla secondo i criteri di cui all’art. 133 cod. pen., commisurandola ai limiti edittali, pena la possibile irrogazione, in caso contrario, di una pena illeg perché inferiore al minimo edittale (Sez. 1, n. 32621 del 16/06/2009 Amoriello Rv. 244299 – 01).
I giudici messinesi, invece, hanno quantificato la pena in anni uno e mesi sette di reclusione. E a fronte di tale pena, erroneamente (ed illegalmente) determinata in senso a lui più favorevole, il ricorrente lamenta oggi di fronte a questa Corte di legittimità che, in ossequio alla giurisprudenza richiamata dalla Corte territoriale e al divieto di reformatio in peius, la stessa doveva essere determinata al massimo
in anni uno di reclusione (pena per lo stalking semplice) o in anni uno e mesi quattro di reclusione (pena per lo stalking aggravato che era stato il riferimento di pena base su cui erano stati operati gli aumenti per la continuazione prima che il reato più grave cadesse).
La richiesta, per le ragioni sopra evidenziate è infondata.
Come detto, il giudice del rinvio ha applicato -e non avrebbe dovuto – una pena illegale. E questa Corte non può rettificarla, essendo pacifico e dovendo essere ribadito il principio sopra ricordato che il giudice dell’impugnazione, in mancanza di uno specifico motivo di gravame da parte del pubblico ministero, non può modificare la sentenza che abbia inflitto una pena illegale di maggior favore per il reo (così Sez. 2, n. 30198 del 10/09/2020, COGNOME Mauro, Rv. 279905 – 01 che, in applicazione del principio, ha annullato con rinvio la decisione che aveva motivato la mancata applicazione della riduzione relativa alle circostanze attenuanti generiche – la cui concessione non era oggetto di contestazione – con l’impossibilità di applicare ulteriori diminuzioni su una pena illegalmente quantificata in primo grado in misura inferiore al minimo edittale, non impugnata dal pubblico ministero; conforme Sez. 3, n. 34139 del 07/06/2018, Xhixha, Rv. 273677 – 01 relativa ad una fattispecie speculare a quella che ci occupa relativa all’irrogazione di una pena detentiva inferiore al minimo edittale).
Ancora, sul punto, si è condivisibilmente affermato, di recente, che, in tema di determinazione della pena, ove il giudice abbia inflitto una pena in contrasto con la previsione di legge ma in senso favorevole all’imputato, si realizza un errore al quale la Corte di cassazione, in difetto di specifico motivo di gravame da parte del pubblico ministero, non può porre riparo né con le formalità di cui agli artt. 130 e 619 cod. proc. pen., versandosi in ipotesi di errore di giudizio e non di errore materiale del computo aritmetico della pena, né in osservanza all’art. 1 cod. pen. e in forza del proprio compito istituzionale di correggere le deviazioni da tale disposizione, in quanto la possibilità di correggere in sede di legittimità l’illega della pena, nella specie o nella quantità, è limitata all’ipotesi in cui l’errore avvenuto a danno dell’imputato, essendo anche in detta sede non superabile il limite del divieto della “reformatio in peius” (Sez. 3, n. 30286 del 09/03/2022 Nardelli, Rv. 283650 – 02; conforme Sez. 6, n. 49858 del 20/11/2013 G. Rv. 257672 – 01).
Se non può modificarla in peius per l’imputato, tuttavia, questa Corte nemmeno può aderire alla richiesta difensive’di ulteriormente ridurla, che pure sarebbe coerente con il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale, perché altrimenti, essa stessa, dovrebbe applicare ex art. 620, comma 1 lett. I, cod. proc. pen. una pena “ancora più” illegale di quella determinata dalla Corte territoriale. E questo per le ragioni sopra evidenziate non è possibile.
Si deve, pertanto, affermare il principio di diritto secondo cui: “Nel giudizio di rinvio, a seguito di annullamento della sola condanna per il reato più grave, il giudice non è vincolato, nella determinazione della pena per il reato residuo (che nel precedente nel calcolo complessivo era stato ritenuto meno grave), che rimanga unico o che diventi il più grave da unificare in continuazione con gli altri reati satellite, alla quantità già individuata quale aumento ex art. 81 cpv. cod. pen. e, peri! divieto di ‘reformatio in peius’, non potrà irrogare una pena che, per specie e quantità, costituisca un aggravamento di quella individuata, nel giudizio precedente all’annullamento parziale, quale base per il computo degli aumenti a titolo di continuazione, ma non potrà mai irrogare una pena che sia inferiore al minimo edittale del reato residuo, che altrimenti si configurerebbe come pena illegale”.
11. Al rigetto del ricorso consegue ex lege la condanna al pagamento del spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03 aggiornato 101/2018 in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese pro suali. Oscuramento dati.
Così deciso in Roma il 31 gennaio 2024
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