Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 4883 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1   Num. 4883  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 27/10/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a ROMA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 28/02/2023 del TRIBUNALE di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOMECOGNOME lette/seiatite le conclusioni del PG
Il Procuratore generale, NOME COGNOME, chiede il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
 NOME NOME ricorre avverso l’ordinanza del 28 febbraio 2023 del Tribunale di Roma che, quale giudice dell’esecuzione, per quello che qui interessa, ha dichiarato l’inammissibilità della richiesta di rideterminazione della pena di anni cinque di reclusione di cui alla sentenza del Tribunale di Roma del 20 dicembre 2013, definitiva il 28 settembre 2018.
L’interessato aveva evidenziato che il giudice della cognizione non avrebbe potuto a lui applicare la circostanza aggravante della recidiva specifica e reiterata, posto che allo stesso non era mai stata applicata in precedenza la recidiva e che il Tribunale di sorveglianza di Roma, con ordinanza del 24 aprile 2012, aveva dichiarata estinta la pena e gli effetti penali di cui alla condanna per buon esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale.
Il ricorrente denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento agli artt. 1 e 99 cod. pen., 666 e 670 cod. proc. pen., e vizio di motivazione dell’ordinanza impugnata, perché il giudice dell’esecuzione avrebbe omesso di accertare l’illegalità della pena della sentenza del 20 dicembre 2013, posto che il giudice della cognizione non avrebbe potuto applicare a NOME la circostanza aggravante della recidiva, in quanto la pena inflitta in precedenza era stata dichiarata estinta per il buon esito della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale. 
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Giova in diritto evidenziare che, per costante ricognizione interpretativa del sistema processuale, la giurisdizione esecutiva non può essere ritenuta un rimedio con natura di impugnazione e pertanto eventuali errori applicativi di norme di diritto sostanziale o di procedura, verificatisi in cognizione, non sono deducibili in sede esecutiva, dato che tali – ipotetici – vizi sono rilevabili esclusivamente attraverso l’impugnazione dei provvedimenti che definiscono il grado di giudizio in cognizione.
L’incidente di esecuzione, infatti, è un rimedio finalizzato all’esame di questioni concernenti non la legittimità dei titolo, bensì la sua eseguibilità, come chiaramente si desume dall’art. 670 cod. proc. pen., con la conseguenza F ‘ he la
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possibilità di far valere con tale strumento processuale delle nullità verificatesi nel giudizio di cognizione, che investono la sentenza che lo conclude, trova ostacolo insuperabile nelle regole che disciplinano gli effetti del giudicato (Sez. 1, n. 3246 del 25/05/1995, COGNOME, Rv. 202129).
Sul tema, va considerato che le competenze attribuite al giudice della esecuzione – pur ampie – risultano tassativamente predeterminate dal legislatore nell’ambito di un disegno sistematico che prende in esame la ovvia necessità di dirimere dubbi, applicare benefici correlati a norme sopravvenute o risolvere conflitti intersoggettivi insorti nella fase successiva al giudicato (cfr. artt. 667, 66 672 e 674 cod. proc. pen.) e che non consente – in via generale – al giudice della fase esecutiva di rilevare vizi del procedimento o della decisione ma, al più, di integrare la decisione incompleta (cfr. artt. 675, 676 cod. proc. pen. e 183 disp. att. cod. proc. pen.) o di prendere atto di aspetti non trattati in cognizione ed inerenti il riconoscimento del reato continuato, tra fatti posti a base di più decisioni irrevocabili (cfr. art. 671 cod. proc. pen.).
In forza di quanto sopra, pur nell’ambito di una riconoscibile e condivisa tendenza espansiva delle attribuzioni della giurisdizione esecutiva, non è possibile sostenere esistente un generale potere di intervento da parte di tale giudice su ipotetici vizi interpretativi o applicativi di norme, in tesi verificatisi in cogniz ed incidenti sul trattamento sanzionatorio.
La stessa possibilità di rimediare – in sede esecutiva – all’avvenuta determinazione di una «pena illegale» non va letta come ricognizione di un potere ordinario, tale da consentire un sindacato in sede esecutiva in ogni caso di potenziale erroneità di statuizioni e/o argomentazioni concorrenti a determinare la sanzione, ma rappresenta una valvola di sicurezza del sistema a fronte di un trattamento sanzionatorio elaborato, anche in parte, sulla base di norme dichiarate incostituzionali o contrastante con l’interpretazione della Convenzione Europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali fornita dalla CEDU o ancora frutto di palesi errori giuridici o materiali commessi dal giudice della cognizione.
Infatti, l’illegalità della pena, derivante da palese errore giuridico o materiale da parte del giudice della cognizione, privo di argomentata valutazione, ove non sia rilevabile d’ufficio in sede di legittimità per tardività del ricorso, è deducib davanti al giudice dell’esecuzione, adito ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265108).
Nel caso di specie, la questione denunciata con il ricorso non poteva essere accolta dal giudice dell’esecuzione, come correttamente motivato nel provvedimento impugnato, posto che la stessa aveva formato oggetto di precedente motivo di ricorso avverso la sentenza del giudice della cognizione ed
era, quindi, già stata valutata da tale ultimo giudice, il quale aveva tenuto conto dei numerosi precedenti penali in capo al condannato.
Pertanto, le questioni sollevate con il ricorso trattano di un profilo di mera illegittimità della pena così applicata e non anche un profilo di illegalità della pena e, in forza di quanto sopra, non possono essere accolte in sede di legittimità.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma determinata, equamente, in euro 3.000,00, tenuto conto che non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità» (Corte cost. n. 186 del 13/06/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 27/10/2023