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Pena delitto tentato: il calcolo diretto è legittimo

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato che contestava il calcolo della pena per un delitto tentato, applicata in sede di patteggiamento. La Suprema Corte ha stabilito che la determinazione della pena delitto tentato può avvenire con un metodo ‘diretto’ o ‘sintetico’, senza la necessità di esplicitare la diminuzione rispetto alla pena per il reato consumato. Poiché la pena non era ‘illegale’, il ricorso è stato giudicato inammissibile ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis c.p.p.

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Pubblicato il 13 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Calcolo della Pena Delitto Tentato: La Cassazione Ammette il Metodo Sintetico

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione affronta un’importante questione procedurale riguardante il calcolo della pena delitto tentato nell’ambito di una sentenza di patteggiamento. La decisione chiarisce i limiti del sindacato di legittimità sul metodo di calcolo della pena utilizzato dal giudice, ribadendo la validità del cosiddetto ‘metodo diretto o sintetico’.

I Fatti del Caso

Un imputato, a seguito di un accordo di patteggiamento, veniva condannato dal Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Como alla pena di tre anni di reclusione e 1.200,00 euro di multa per una serie di reati, tra cui una tentata rapina pluriaggravata in concorso.

La difesa dell’imputato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando un’errata applicazione della legge penale. Nello specifico, con un unico motivo di ricorso, si sosteneva che la pena relativa al delitto di tentata rapina non fosse stata correttamente diminuita di un terzo, come invece previsto dall’articolo 56 del codice penale per l’ipotesi del tentativo.

La Decisione della Corte e la pena delitto tentato

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile. Il fulcro della decisione risiede nella distinzione tra una pena ‘illegale’ e una pena semplicemente determinata con un metodo di calcolo che la difesa non condivide.

I giudici di legittimità hanno chiarito che, nel caso di specie, non si era in presenza di una pena illegale, poiché quella concordata tra le parti e applicata dal giudice teneva già conto della qualificazione giuridica del fatto come ‘tentato’.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte ha spiegato che la determinazione della pena per il delitto tentato non deve necessariamente seguire un rigido percorso bifasico, che prevede prima la quantificazione della pena per il reato consumato e poi la sua diminuzione. È infatti pacificamente ammesso in giurisprudenza il ‘metodo diretto o sintetico’.

Questo metodo consente al giudice di determinare la pena direttamente per l’ipotesi tentata, senza esplicitare l’operazione di diminuzione. In pratica, la pena finale indicata per il reato tentato – nel caso specifico, dieci mesi di reclusione e 500,00 euro di multa – è da considerarsi già comprensiva della riduzione prevista dall’art. 56 c.p. La scelta di questo metodo rientra nel potere discrezionale del giudice e non rende la pena ‘illegale’.

Una pena è da considerarsi illegale solo quando non è prevista dall’ordinamento per quel reato o quando supera i limiti edittali massimi o minimi. Un vizio nel metodo di calcolo, invece, non costituisce motivo di ricorso contro una sentenza di patteggiamento, i cui motivi di impugnazione sono tassativamente indicati dall’art. 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale.

Poiché la doglianza della difesa non rientrava tra i casi consentiti, il ricorso è stato dichiarato inammissibile.

Le Conclusioni

Questa ordinanza consolida un principio fondamentale in materia di determinazione della pena delitto tentato. In primo luogo, conferma l’ampia discrezionalità del giudice nella scelta del metodo di calcolo, legittimando l’approccio sintetico che non richiede un’esplicita operazione aritmetica di riduzione.

In secondo luogo, ribadisce la natura ‘chiusa’ dei motivi di ricorso avverso le sentenze di patteggiamento. Le contestazioni relative al percorso logico-giuridico seguito dal giudice per la quantificazione della pena non sono ammesse, a meno che non si traducano in una pena concretamente illegale. Di conseguenza, l’inammissibilità del ricorso ha comportato la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende.

Come si calcola la pena per un delitto tentato?
La legge prevede che la pena sia diminuita rispetto a quella del reato consumato. La sentenza chiarisce che il giudice può calcolarla in due modi: o partendo dalla pena base del reato consumato e applicando una riduzione, oppure utilizzando un ‘metodo diretto o sintetico’, stabilendo una pena finale che già tiene conto della natura solo tentata del reato, senza esplicitare il calcolo della diminuzione.

È possibile contestare in Cassazione il calcolo della pena stabilito in un patteggiamento?
No, non è possibile contestare il metodo di calcolo o il ragionamento del giudice. Il ricorso contro una sentenza di patteggiamento è consentito solo per motivi specifici, tra cui l’applicazione di una ‘pena illegale’, cioè una pena non prevista dalla legge per quel reato o quantificata al di fuori dei limiti minimi e massimi stabiliti.

Cosa si intende quando la Cassazione afferma che la pena per il tentativo era ‘già comprensiva della diminuzione’?
Significa che, secondo la Corte, la pena concordata tra le parti e applicata dal giudice (dieci mesi di reclusione e 500 euro di multa per il reato in questione) è stata ritenuta equa proprio perché si trattava di un tentativo. Anche se il giudice non ha scritto ‘parto da X e riduco a Y’, la cifra finale (Y) è considerata il risultato di una valutazione che ha già inglobato lo ‘sconto’ per il mancato compimento del reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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