Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 18714 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 18714 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 04/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME NOMECOGNOME nata a ROMA il 07/07/1983
avverso la sentenza dei 23/10/2024 della Corte d’appello di Milano vist gi atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato NOME COGNOME in difesa della parte civile che ha concluso associandosi alle richieste del PG e depositando conciusioni scritte unitamente alla nota spese;
udito l’Avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata.
La Corte d’appello di Milano ha confermato al sentenza con cui, in data 09/10/2023, il Tribunale aveva riconosciuto NOME COGNOME responsabile del delitto di appropriazione indebita a lei ascritto al capo A) della rubrica e, con la continuazione interna tra i vari episodi, l’aveva condannata alla pena complessiva di anni 3, mesi 3 e giorni 15 di reclusione ed euro 3.900 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali; il primo giudice aveva inoltre condannato la COGNOME al risarcimento del danno cagionato alla costituita parte civile che aveva liquidato in euro 120.000,00 ed alle relative spese; aveva invece assolto la COGNOME dal delitto di autoriciclaggio ascrittole al capo B) della rubrica perché il fatto non sussiste;
ricorre per cassazione COGNOME COGNOME a mezzo del difensore che deduce:
2.1 violazione di legge processuale per inosservanza di norme stabilite a pena di nullità: eccepisce la nullità della richiesta di rinvio a giudizio e di tutt atti conseguenziali, segnalando che la questione era stata già proposte sia all’udienza preliminare che di fronte al Tribunale dove era stata evidenziata la illegittimità della dichiarazione di assenza non essendo stata acquisita la prova dell’effettiva conoscenza del processo da parte dell’imputata alla luce dei parametri introdotti dalla riforma “Cartabia”;
2.2 erronea applicazione della legge penale in relazione al trattamento sanzionatorio a séguito della sentenza n. 46 del 22/03/2024 della Corte Costituzionale: rileva che la Corte d’appello ha omesso di considerare come, nel marzo del 2024, i giudici delle leggi avessero dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 646 cod. pen. con riferimento alla previsione del minimo edittale; osserva che la Corte d’appello avrebbe allora dovuto rideterminare la pena alla luce dell’intervento demolitorio operato sulla norma, dal momento che il Tribunale aveva motivato il discostamento dal minimo edittale per la sola pena pecuniaria e si era invece attestato sul minimo edittale quanto alla pena detentiva;
2.3 vizio di motivazione in merito ai vizi eccepiti: rileva che la sentenza impugnata è contraddittoria ed illogica, oltre che fondata su congetture e supposizioni prive di riscontro probatorio; ritiene non condivisibile l’assunto del primo giudice, condiviso dalla Corte territoriale, secondo cui le differenze retributive sarebbero state create “ad hoc” dalia ricorrente una volta messa alle strette dal datore di lavoro; rileva, ancora, che le due sentenze non si confrontano con il dato del mancato accertamento circa la sorte delle fatture 87/21, 88/21 e 2/22 residuando un dubbio in ordine all’esistenza a monte del credito vantato dall’imputata; osserva che nessuno dei due giudici di merito si è posto il problema del come un neoassunto avesse potuto avere libero accesso al conto corrente dello
studio con la possibilità di maneggiare importi considerevoli; sostiene sia illogico immaginare che la COGNOME avesse proceduto a falsificare i prospetti contabili sino a trarre in inganno il proposto al controllo di gestione ed i titolari d prestigioso studio tributario;
la Procura Generale ha trasmesso la requisitoria scritta concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato limitatamente al secondo motivo, inammissibile per gli altri perché articolati su censure manifestamente infondate o non consentite in questa sede.
Il primo motivo è generico e, comunque, manifestamente infondato.
Come risulta dalla sentenza di primo grado, il Tribunale aveva proceduto in absentia avendo la COGNOME nominato un difensore di fiducia presso il cui studio aveva ritualmente eletto domicilio.
L’assenza dell’imputata era stata perciò dichiarata ricorrendo i presupposti previsti dal testo dell’art. 420-bis, comma secondo, cod. proc. pen., vigente prima dell’entrata in vigore del D. Lg.vo 150 del 2022; né, va detto, la difesa, come in tal caso sarebbe stato suo preciso onere, ha allegato circostanze tali da concretare una situazione di ignoranza incolpevole dell’esistenza del processo (cfr., così, ad esempio, Sez. 6, n. 46795 del 12/10/2023, Kebe, Rv. 285493 – 01, in cui la Corte – giudicando su una fattispecie antecedente all’entrata in vigore dell’art. 165, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 10, comma 1, lett. s), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 – ha spiegato che l’essere stato il soggetto sottoposto a misura cautelare, durante la cui esecuzione sia evaso – avendo, peraltro, nominato un difensore di fiducia con elezione di domicilio presso il suo studio – costituisce indice di effettiva conoscenza del processo tale da legittimare il giudizio in assenza, in mancanza della allegazione di specifici elementi indicativi di uno stato di “incolpevole ignoranza” del processo medesimo, per la cui sussistenza non è sufficiente evocare la mancata notifica dell’atto di “vocatio in iudicium” contenente l’accusa, invero già cristallizzata nel titolo cautelare).
Il terzo motivo è formulato in termini non consentiti.
La difesa, infatti, deduce vizio di motivazione in punto di responsabilità.
Ed allora il caso di ribadire che il motivo di ricorso fondato sulla lett. b dell’art. 606 cod. proc. pen. deve essere invero articolato sotto il profilo della contestazione della riconducibilità del fatto – così come ricostruito dai giudici di merito – nella fattispecie astratta delineata dal legislatore; e non, invece, come nel caso di specie, mettendo in dubbio o contestando che le emergenze istruttorie acquisite consentano di ricostruire la condotta di cui si discute in termini idonei a ricondurla al paradigma legale, operazione che comporta una rivalutazione delle fonti probatorie e/o un’alternativa ricostruzione dei fatti mediante criteri d valutazione diversi da quelli adottati dal giudice del merito, estranee al sindacato del presente giudizio, essendo preclusa alla Corte di cassazione la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure, in ipotesi, anch’essa logica, dei dati processuali o percorrere una diversa ricostruzione storica dei fatti ovvero formulare un diverso giudizio di rilevanza o di attendibilità delle fonti di prova (cfr., tra le tante, Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, COGNOME, Rv. 216260; Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, COGNOME, Rv. 283370; Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747; Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217; Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, COGNOME, Rv. 235507; cfr., ancora, Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, COGNOME, Rv. 234148).
2.1 NOME COGNOME era stata tratta a giudizio e riconosciuta responsabile, nei due gradi di merito, all’esito di un , :onforme apprezzamento delle medesime emergenze istruttorie, per numerosissimi episodi di appropriazione indebita aggravata in danno dello Studio Tribunale Italiano di cui era consulenza contabile ed amministrativo.
Il primo giudice aveva ritenuto pienamente dimostrata la tesi compendiata nel capo di imputazione ovvero che la ricorrente, nel contesto dell’attività svolta presso lo studio e per la quale percepiva emolumenti pari a 3.000 euro mensili per 12 mensilità, si fosse appropriata di complessivi euro 103.889,37 avvalendosi dell’accesso al conto corrente dello studio e procedendo ad effettuare le disposizioni “incriminate”.
2.2 La Corte d’appello ha preso in esame (cfr., in particolare, pag. 6 della sentenza) i motivi di gravame articolati dalla difesa della COGNOME affermando in primo luogo l’infondatezza della richiesta di assoluzione: ha fatto presente che le doglienze difensive si risolvevano, di fatto, in considerazioni meramente ipotetiche, sprovviste di riscontro ed in difetto di ogni riferimento agli atti d processo; ha inoltre insistito sulla mancata spiegazione delle innumerevoli
operazioni eseguite dall’imputato né della natura delle operazioni “extra” richiamate nelle fatture, non mancando di evidenziare il ricorso ad estratti conto artatamente falsificati per mascherare l’attività di spoliazione progressivamente posta in atto.
Si tratta di considerazioni non manifestamente illogiche ed immuni e coerenti con le emergenze istruttorie di cui, invero, la difesa non denunzia l’avvenuto travisamento.
3. Il secondo motivo è fondato.
3.1 Giova premettere che la pena stabilita dal primo giudice, e confermata dalla Corte d’appello, era stata calcolata (cfr., pag. 13 della sentenza del Tribunale) partendo da quella relativa alla prima condotta di appropriazione indebita del 3 gennaio del 2022 ed individuata in anni 2 di reclusione ed euro 1.500 di multa, ovvero in una misura pari al minimo edittale per la pena detentiva e di poco superiore al minimo per quella pecuniaria.
Come è noto, con sentenza n. 46 del 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 646, primo comma, cod. pen., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. u), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui stabilisce la pena della reclusione «da due a cinque anni» anziché «fino a cinque anni».
I giudici delle leggi avevano infatti evidenziato che “… la disposizione censurata … innalza, con la novella indicata, fino a quarantotto volte il minimo originario, restando del tutto oscura la ragione che ha indotto il legislatore a una scelta così aspra; e ciò a fronte del dato di comune esperienza che il delitto di appropriazione indebita comprende condotte di disvalore assai differenziato”; aveva osservato che “… per effetto dell’innalzamento del limite edittale minimo il trattamento sanzionatorio dell’appropriazione indebita finisce oggi per essere assai più gravoso di quello riservato al furto e alla truffa …” e che “… simili sperequazio sanzionatorie pongono seriamente in discussione il canone della coerenza tra le norme; e ciò proprio in un settore dell’ordinamento così delicato, per lo speciale rilievo costituzionale degli interessi in gioco, come il sistema penale”.
La Corte Costituzionale, dunque, una volta “… accertata la violazione dei parametri costituzionali” aveva operato la reductio ad legitimitatem con la sola ablazione del minimo “… che determina la riespansione della regola generale di cui all’art. 23 cod. pen.”.
Ebbene, l’intervento del giudice delle leggi in materia di “ragionevolezza” della risposta sanzionatoria non è evenienza nuova e, anzi, a ben guardare, e proprio uno dei terreni più delicati ma su cui, oggi, il controllo di legittimi
costituzionale si è affermato con maggiore decisione: è sufficiente richiamare, da ultimo, le sentenze n. 120 del 2023 e 86 del 2024 che, sulla scia della sentenza n. 68 del 2012 considerando la “irragionevolezza” delle pene edittali alla luce di un criterio di “proporzione” con il fatto nel suo complesso, hanno ritenuto di poter rimediare attraverso delle pronunce additive di una specifica attenuante laddove si sia in presenza di un fatto di lieve entità “… per la natura, la specie, i mezzi, modalità e le circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo”.
Con la sentenza n. 32 del 2014 la Corte Costituzionale aveva dichiarato la incostituzionalità degli artt. 4-bis e 4-vicies ter della legge 21 febbraio 2006, n. 49 – di conversione del DL 30 dicembre 2005, n. 272 comportando, anche in tal caso, la reviviscenza della più favorevole disciplina anteriormente vigente; con la sentenza n. 40 del 2019, è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art 73, comma 1, DPR 9 ottobre 1990, n. 309, nella parte in cui prevede un minimo edittale di otto anni di reclusione anziché di anni sei.
Con particolare riguardo a questi ultimi casi – in cui la Corte Costituzionale ha operato un apprezzamento di irragionevolezza della sanzione penale di cui ha dichiarato l’illegittimità senza necessità (per la presenza di una disciplina sanzionatoria previgente che si è in quel modo potuto “recuperare”) di introdurre una ipotesi “lieve” – si è evidentemente posto il problema della sorte dei processi in corso come di quelli definiti con sentenza passata in giudicato sulla scorta della disciplina sanzionatoria di cui era stata certificata l’illegittimità.
Prescindendo dal problema della revoca delle sentenze passate in giudicato, è pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, che la pena, persino quando sia stata concordata dalle parti ai sensi dell’art. 599-bis cod. proc. pen., deve essere oggetto di specifica rivalutazione da parte del giudice del merito, alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile (cfr., tra le tant Sez. 4, n. 31875 del 27/06/2019, GLYPH COGNOME, GLYPH Rv. 276706 GLYPH 01; Sez. 6, n. 45876 del 08/10/2019, GLYPH Sallmani, GLYPH Rv. 277435 GLYPH – GLYPH 01 Sez. 4, n. 21901 del 10/07/2020, Abbrescia, Rv. 279765 – 01).
La rivisitazione della cornice edittale determinatasi con la sentenza n. 32 del 2014 aveva inoltre portato ad affermare che l’aumento di pena calcolato a titolo di continuazione per i reati-satellite in relazione alle così dette “drogh leggere” deve essere oggetto di specifica rivalutazione da parte dei giudici del merito, alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile per tali violazioni a seguito della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, che ha dichiarato !a incostituzionalità degli artt. 4-bis e 4-vicies ter della legge 21 febbraio 2006, n 49 – che ha convertito il d.I.. 30 dicembre 2005, n. 272 – e ha determinato, in
merito, la reviviscenza della più favorevole disciplina anteriormente vigente (cfr., Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263717 – 01).
Le Sezioni Unite di questa Corte avevano inoltre chiarito che la “illegalità” sopravvenuta della pena – concordata sulla base dei parametri edittali dettati per le cosiddette “droghe leggere” dall’art. 73 d.P.R. 309/1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto ma dichiarato successivamente incostituzionale con la sentenza n. 32 del 2014 – determina la nullità dell’accordo e la Corte di cassazione deve annullare senza rinvio la sentenza basata su tale accordo (cfr., Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli Rv. 264206 – 01).
Proprio in quest’occasione, la Corte ebbe modo di spiegare che “… il ripristino della distinzione tra droghe c.d. pesanti e droghe c.d. leggere ha comportato, necessariamente, che il testo normativo dell’art. 73 del d.P.R. 309 del 1990 sia oggi espressione di un diverso esercizio del principio di proporzione da parte del legislatore, di cui è manifestazione il diverso trattamento sanzionatorio vigente rispetto a quello previsto nella norma incostituzionale” in quanto “… il diverso trattamento sanzionatorio conseguente a detta distinzione, presuppone un diverso esercizio del principio di proporzione da parte del legislatore, che finisce per incidere sulla funzione retributiva e rieducativa della pena inflitta sulla base della norma dichiarata incostituzionale, anche nel caso in cui essa rientri nella nuova cornice edittale”; si era dunque sottolineato che “… i diversi parametri incidano sulla valutazione effettuata dal giudice in sede di commisurazione della pena, sicché una volta modificati non è detto che la pena corrisponda al quantum di coipevolezza del reo nel caso concreto” poiché”… in un sistema penale orientato al principio di coipevolezza la sproporzione tra la pena inflitta in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma incostituzionale (nei caso in esame, pena minima=sei anni di reclusione) e quella che, pur rientrando nella cornice edittale ripristinata, è comunque espressione di un diversa valutazione del rapporto tra pena e offesa (…), rivela uno squilibrio della sanzione rispetto al quantum di colpevolezza accertato nel caso concreto e, quindi, compromette la stessa funzione che la pena dovrebbe costituzionalmente assolvere”; se ne dedusse che “… il venir meno per contrarietà alla Costituzione con efficacia ex tunc della cornice edittale che ha guidato il giudicante nella delicata attività di misurazione della responsabilità finisce con il travolgere la stessa pena in concreto inflitta, vale a dire il risultato finale di detta misurazione, perché, non essendo più attuale il giudizio astratto di disvalore del fatto (essendosi modificata la forbice sanzionatoria edittale), la misurazione compiuta non traduce più – per effetto del mutamento dei parametri di riferimento – né coerentemente né correttamente il Corte di Cassazione – copia non ufficiale
giudizio di responsabilità”; in altre parole “… la valutazione di responsabilità d reo non risulta più misurata legalmente, perché la risposta punitiva è stata elaborata sulla base di un compasso sanzionatorio incostituzionale, così da risultare alterato lo stesso giudizio di gravità del reato ai sensi e per gli effetti cui agli artt. 132 e 133 cod. pen.”; in definitiva “… pena concretamente inflitt esprime la valutazione della responsabilità dell’imputato, essa non può considerarsi ancora legale quando sono venuti meno – per effetto di una pronuncia di incostituzionalità – i parametri edittali che hanno guidato e determinato la sua commisurazione” poiché “… impalcatura costruita dalla Costituzione e dal codice penale per l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio viene così completamente travolta e vanificata per il venir meno proprio di uno dei suoi presupposti fondanti, vale a dire la legalità della cornice edittale”.
3.2 Si tratta di considerazioni che ben possono essere invocate per imporre l’annullamento della sentenza qui in esame e quanto alla pena inflitta che, come si è accennato, era stata rivista dal legislatore nel minimo edittale ed aumentata di circa quarantotto volte; una volta che – per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale – sia stato ripristinato il minimo previgente, occorrer procedere ad una nuova valutazione di congruità alla luce della cornice precedente tanto più che, come pure si è accennato, i giudici di merito si erano attestati proprio sul minimo edittale per la pena detentiva ed in misura prossima al minimo per la pena pecuniaria.
Alla rilevata inammissibilità delle censure articolate in punto di responsabilità consegue la condanna della COGNOME alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile RAGIONE_SOCIALE ASSOCIATO, liquidate nella misura indicata in dispositivo e quantificata alla luce della notula e delle tariffe vigenti.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Milano.
Dichiara inammissibile il ricorso nel resto e definitivo il giudizio d responsabilità.
Condanna, inoltre, l’imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Studio Tributario Societario che liquida in complessivi euro 3686,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 04/03/2025.