Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 791 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 2 Num. 791 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/11/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOMECOGNOME nato a Catania il 15.3,1975, contro la sentenza della Corte d’appello di Catania del 29.5.2024;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 29.9.2022, il Tribunale di Catania aveva riconosciuto NOME COGNOME responsabile del delitto di rapina aggravata in concorso e, escluse le aggravanti dell’uso dell’arma e del travisamento, l’aveva condannato alla pena di anni 6 di reclusione ed euro 2.000 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali;
la Corte d’appello di Catania, con la sentenza qui impugnata, ha dato atto della rinuncia formalizzata dal difensore dell’imputato, munito di procura speciale, ai motivi di gravame salvo quello concernente il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e la conseguente mitigazione della pena, nonché dell’accordo processuale raggiunto con il Procuratore Generale, ed ha rideterminato la pena finale in quella, concordata dalle parti e che ha stimato congrua, di anni 4 di reclusione ed euro 800 di multa, sostituendo perciò la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella temporanea e revocando l’interdizione legale;
ricorre per cassazione NOME COGNOME a mezzo del difensore di fiducia che deduce vizio di motivazione in ordine alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici in quanto fissata nella durata massima prevista dalla legge, ed inosservanza della legge penale: rileva, infatti, che la Corte d’appello, nel sostituire la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella temporanea, ne ha tuttavia fissato la durata nel limite massimo di cinque anni omettendo di motivare sul punto e venendo meno, in tal modo, ad un suo preciso obbligo;
Il ricorso è inammissibile per essere la censura manifestamente infondata.
Ai sensi dell’art. 29, comma 1, cod. pen., infatti, la durata della interdizione dai pubblici uffici è perpetua nel caso di condanna a pena non inferiore a cinque anni di reclusione e di cinque anni laddove sia intervenuta una condanna a pena detentiva superiore ai tre anni ed inferiore ai cinque (cfr., in tal senso, par. 7. della motivazione di Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, COGNOME Rv. 276286 – 01, che, peraltro, sono intervenute dopo la declaratoria di illegittimità costituziorale che aveva investito l’art. 216, u.c., L.F. proprio in relazione al carattere “fisso della pena accessoria ivi prevista).
Ancora più recentemente questa Corte ha giudicato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma primo, cod. pen., nella parte in cui stabilisce in anni cinque la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici laddove venga inflitta una pena superiore ai tre anni ed inferiore ai cinque, sollevata in relazione agli artt. 3, 27, 41, 111 e 117 Cost., 8 Convenzione EDU, trattandosi di sanzione inserita in un meccanismo punitivo graduale che differenzia la durata della pena accessoria in rapporto a due soglie distinte (tre anni di reclusione per l’interdizione temporanea e cinque per l’interdizione perpetua), e che, agganciandosi all’entità della pena principale inflitta, presuppone una valutazione in concreto della gravità del fatto rimessa al potere discrezionale del giudice, sicché, una volta escluso ogni automatismo, la norma non è
irragionevole, né distonica rispetto al principio di personalizzazione ed individualizzazione del trattamento sanzionatorio (cfr., Sez. 6, n. 9062 del 16/12/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284417 – 02).
E’ inoltre pacifico che le pene accessorie, ai sensi del disposto dell’art. 20 cod. pen., conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa, sicché al giudice di secondo grado è consentito applicarle d’ufficio qualora non vi abbia provveduto quello di primo grado, e ciò ancorché la cognizione della specifica questione non gli sia stata devoluta con il gravame del pubblico ministero (Sez. U, Sentenza n. 8411 del 27/05/1998, Rv. 210979 – 01, PM in proc. COGNOME intervenuta proprio in un caso di interdizbne dai pubblici uffici; conf., tra le altre Sez. 2, Sentenza n. 15806 del 03/03/2017, Rv. 269864 – 01, COGNOME; Sez. 6, Sentenza n. 49759 del 27/11/2012, Rv. 254202 – 01, COGNOME, secondo cui non viola il principio della “reformatio in peius” la sentenza del giudice di appello che, in presenza di impugnazione del solo imputato, applichi la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici in luogo di quella temporanea, erroneamente disposta in primo grado; Sez. 6, Sentenza n. 31358 del 14/06/2011, Rv. 250553 – 01, Navarria ed altro; Sez. 3, Sentenza n. 8381 del 22/01/2008, Rv. 239283 – 01, COGNOME; Sez. 5, Sentenza n. 8280 del 22/01/2008, Rv. 239474 – 01, COGNOME).
Il carattere “automatico” della applicazione della pena accessoria stabilita in misura “fissa” ovvero predeterminata in relazione alla durata di quella principale, comporta, dunque, che – come è avvenuto nel caso di specie giudice di appello, in caso di accoglimento dell’accordo delle parti sui motivi con rideterminazione della pena, è tenuto alla sostituzione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, applicata con la sentenza di condanna a pena detentiva non inferiore a cinque anni, con quella dell’interdizione temporanea, ove la pena irrogata sia complessivamente inferiore ad anni cinque di reclusione, anche se la sostituzione non sia stata prevista nell’accordo tra le parti (cfr., Sez. 5 – , Sentenza n. 11940 del 13/02/2020, COGNOME Rv. 278806 -01).
5. L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., della somma – che si stima equa – di euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende, non sussistendo ragioni che consentano di escludere profili di colpevolezza nell’attivare l’impugnazione.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 21.11.2024