Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 381 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 381 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 07/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a PALERMO il 03/03/1971
avverso l’ordinanza del 23/03/2023 del TRIBUNALE di CAGLIARI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG, dott. P. COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Ritenuto in fatto
1. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cagliari, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha respinto l’opposizione avverso il provvedimento con cui è stata rigettata la richiesta di NOME COGNOME di revoca della pena accessoria della estinzione del rapporto di impiego, applicata con sentenza di patteggiamento.
La sentenza è stata pronunciata in ordine ai reati di associazione per delinquere e corruzione. La pena detentiva applicata, computata sul più grave reato di corruzione, è pari ad anni tre e mesi sei di reclusione. La pena è stata determinata mediante: il riconoscimento della attenuante di cui all’art. 323-bis cod. pen., il riconoscimento delle attenuanti generiche e l’applicazione della diminuente per il rito, oltre che con gli aumenti per continuazione.
La pena base per il più grave delitto di corruzione è stata determinata in anni sette e mesi sei di reclusione, diminuita ad anni cinque ai sensi dell’art. 323bis cod. pen., e ulteriormente ad anni tre e mesi quattro cli reclusione per le attenuanti generiche.
Su tale misura è stato poi operato l’aumento per continuazione, giungendo alla pena di anni cinque e mesi sei di reclusione, ridotta nella misura finale per effetto della scelta del rito.
La pena minima, dato che gli episodi di corruzione erano plurimi, non può essere stata inferiore al minimo edittale di anni sei di reclusione, che è stata evidentemente aumentata, per continuazione interna, in ragione degli altri sedici episodi di corruzione, nella misura di anni sette e mesi sei di reclusione. Si è dunque trattato di una pena base che, pur diminuita per effetto delle attenuanti, era superiore ad anni due di reclusione, e quindi alla soglia di legge per l’applicazione della pena accessoria.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il difensore di NOME COGNOME che ha dedotto vizio di violazione di legge e difetto di motivazione. La pena accessoria dell’estinzione del rapporto di pubblico impiego è stata applicata nonostante la pena base del reato più grave, al netto degli aumenti di continuazione e computate le riduzioni per attenuanti e scelta del rito, sia inferiore al limite di legge dei due anni di reclusione. Movendo, infatti, dalla pena base di anni sei, computate le diminuzioni per attenuanti e scelta dei rito, si giunge ad una misura inferiore, pari ad anni uno, mesi nove e giorni dieci.
Il Procuratore generale, intervenuto con requisitoria scritta, ha c ) hiesto il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
Il ricorso non merita accoglimento per le ragioni di seguito esposte.
Il giudice dell’esecuzione può intervenire sul giudicato di condanna con pena accessoria che non avrebbe dovuto essere applicata in ragione dei limiti di pena detentiva irrogata, a condizione che l’errore del giudice della cognizione sia qualificabile come percettivo e non come valutativo. Non può infatti il giudizio di esecuzione atteggiarsi ad anomalo grado di controllo della decisione assunta in cognizione e ormai intangibile ed impermeabili a correzioni che avrebbero dovuto essere sollecitate con gli ordinari strumenti di impugnazione. In tal senso si sono pronunciate le Sezioni unite statuendo che “l’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione” (Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, Rv. 262327).
Nel caso in esame, la pena accessoria dell’estinzione del rapporto di impiego è stata applicata nonostante la pena detentiva per il reato più grave, computate le circostanze attenuanti e le diminuenti, al netto degli aumenti di continuazione – anche interna ossia per i numerosi episodi di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio raggruppati nel medesimo capo, il capo B) – sia inferiore alla misura di due anni di reclusione, che definisce, in ragione del tempo di commissione dei reati, il campo di applicabilità della pena accessoria. Su quest’ultimo punto è appena il caso di ricordare che il limite di pena irrogata era, prima della novella introdotta dalla legge n. 69 del 2015, tre anni di reclusione, diminuito appunto a due anni.
Ha affermato il giudice dell’esecuzione che per il reato di cui al capo B) il giudice della condanna ha individuato la pena, considerata pena base per la continuazione con il gli altri reati contestati in altri capi, di anni sette e mesi sei reclusione; ha in merito chiarito che, prendendo quale riferimento il reato di cui al capo B), inteso appunto quale reato più grave, la pena base minima in concreto individuata è stata quella di sei anni di reclusione, corrispondente al minimo edittale, poi aumentata nella misura indicata in ragione della continuazione tte con gli altri, ben diciassette, episodi di corruzione raggruppati in quel capo. Se, allora, si tiene conto che il giudice della cognizione ha riconosciuto l’attenuante di cui all’art. 323-bis cod. pen. e le attenuanti generiche, entrambe con la massima
estensione della diminuente, e che per quanto attiene alla riduzione per il rito ha parimenti applicato quella massima di legge, è logica e obbligata la conclusione che per il reato più grave, al netto di tutti gli aumenti di continuazione e computate tutte le diminuzioni per attenuanti e per il rito, la pena sia stata inferiore ai du anni di reclusione.
4. L’orientamento prevalente, formatosi nella giurisprudenza di legittimità in tema di pene accessorie, specificamente della pena dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, della pena dell’interdizione legale (Sez. 1, n. 2560 del 21/11/1985, dep. 1986, COGNOME, Rv. 172279) e ritenuto estensibile alla pena dell’estinzione del rapporto di impiego, ora di specifico interesse, – oggetto di obbligatoria applicazione e predeterminata nella specie dalla previsione normativa – (Sez. 1, n. 1230 del 11/11/2020, dep. 2021, Rv. 280228) è che ai fini della loro applicazione debba farsi riferimento, in caso di continuazione tra più reati, alla determinazione in concreto della pena, quale individuata per il reato più grave, e non a quella globale, comprensiva anche degli aumenti per la continuazione (Sez. 6, n. 3633 del 20/12/2016, dep. 2017, COGNOME e altro, Rv. 269425; Sez. 5, n. 28584 del 14/03/2017, COGNOME, Rv. 270240; Sez. 7, n. 48787 del 29/10/2014, COGNOME, Rv. 264478; Sez. 1, n. 14375 del 05/03/2013, Aquila, Rv. 255407); tenendo conto della incidenza delle diminuenti dipendenti dall’accesso ad un rito speciale, sia il patteggiamento o il giudizio abbreviato, delle circostanze attenuanti e del bilanciamento eventualmente operato con le circostanze aggravanti (ex multis: Sez. U, n. 8411 del 27/05/1998, Ishaka, Rv. 210980; Sez. 1, n. 8126 del 6/12/2017, dep. 2018, Ngwoke, Rv. 272408; Sez. 1, n. 18149 del 04/04/2014, COGNOME, Rv. 259749; Sez. 6, n. 22508 del 24/05/2011, COGNOME, Rv. 250500; Sez. 1, n. 12894 del 06/03/2009, COGNOME, Rv. 243045; Sez. 6, n. 21113 del 25/03/2004, Rv. 229126). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Accanto a questo indirizzo interpretativo se ne è però sviluppato altro con riguardo ad un ristretto caso, per il quale “nel caso di pluralità di reati unificati da vincolo della continuazione, la durata della pena accessoria secondo il criterio fissato dall’art. 37 cod. pen. va determinata con riferimento alla pena principale inflitta per la violazione più grave, con l’eccezione dell’ipotesi di continuazione fra reati omogenei, nella quale l’identità dei reati unificati comporta necessariamente l’applicazione di una pena accessoria per ciascuno di essi, di modo che la durata complessiva va commisurata all’intera pena principale inflitta con la condanna, ivi compreso l’aumento per la continuazione” (Sez. 6, n. 17564 del 06/04/2023, Rv. 284593; Sez. 3, n. 14954 del 02/12/2014, dep. 2015, Rv. 263045; Sez. 3, n. 29746 del 05/06/2014, Rv. 261512).
Non può sfuggire, allora, che l’esistenza di un orientamento che impone di considerare, per la individuazione del limite di pena detentiva irrogata, anche gli aumenti di continuazione per reati omogenei, impedisce di ravvisare, per la vicenda in esame, un errore esclusivamente percettivo nella statuizione del giudice della cognizione, come se quel giudice non si fosse avveduto nel fare applicazione della pena accessoria, che la pena detentiva in concreto irrogata era inferiore al limite di legge. Non può infatti affermarsi che non abbia invece inteso aderire ad altra impostazione interpretativa, della cui correttezza non è qui dato discutere, in tal modo operando una valutazione che, ove pure in ipotesi fosse errata, non potrebbe e non può essere sindacata in sede esecutiva.
Come in premessa ricordato, l’eventuale errore valutativo del giudice della cognizione, che abbia fatto applicazione di una pena accessoria obbligatoria, non può essere rilevato una volta divenuta irrevocabile la sentenza che quella pena accessoria ha applicato.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 7 novembre 2023.