Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 30278 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 30278 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 03/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a BOVALINO il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 07/11/2023 della CORTE APPELLO di BARI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del PG in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 7 novembre 2023 la Corte di appello di Bari, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha rigettato l’opposizione proposta nell’interesse di NOME COGNOME avverso l’ordinanza del 13 aprile 2023 dello stesso giudice, avente ad oggetto la restituzione della patente di guida sospesa dalla Prefettura di Reggio Calabria in conseguenza della condanna di COGNOME per il delitto di cui all’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
Il giudice dell’esecuzione, in prima istanza, aveva rigettato la richiesta avanzata da COGNOME evidenziando come la pena accessoria fosse stata applicata dal giudice penale che aveva disposto il divieto di espatrio e il ritiro della patente per tre anni, con esclusione dell’applicabilità dell’art. 120 C.d.S. e come non assumesse rilievo la circostanza che la pena principale fosse stata rideterminata per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, avendo riguardo tale statuizione alla sola pena principale.
I motivi di reclamo sono stati rigettati ritenendo priva di fondamento la censura riferita alla presunta duplicazione della sanzione, per essere stato NOME privato della patente di guida o autorizzato alla guida di autoveicoli solo per esigenze lavorative nel periodo di sua sottoposizione a libertà controllata.
Sul punto, il giudice dell’esecuzione ha rilevato la diversità dei titoli esecutiv riferiti alla sanzione dalla quale è originato il provvedimento impugnato (sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari del 15 marzo 2011) e quello relativo alla sanzione sostitutiva (sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria del 23 ottobre 2016).
La Corte barese ha, altresì, ribadito l’inconferenza di qualsiasi riferimento all’art. 120 C.d.S. e segnalato, ai fini della determinazione della durata della pena accessoria, l’irrilevanza della riquantificazione, in sede esecutiva, della pena principale per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, non determinandosi, alla luce di tale nuova quantificazione, alcuna trasformazione della pena accessoria in sanzione extra o contra legem.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME, per mezzo del proprio difensore AVV_NOTAIO, articolando tre motivi.
2.1. Con il primo ha eccepito la nullità dell’ordinanza per mancanza di motivazione in ordine alle censure sollevate dalla difesa.
In particolare, ha ribadito di essere stato sottoposto alla privazione della patente di guida nel periodo di esecuzione della pena in misura alternativa e che il titolo abilitante alla guida gli era stato, poi, sospeso a distanza di oltre tre a
dall’irrevocabilità della sentenza di condanna.
2.2. Con il secondo motivo ha eccepito la nullità dell’ordinanza impugnata per violazione dell’art. 7 CEDU, 656 cod. proc. pen., 37 e 85 cod. pen.
In sostanza, per effetto della rideterminazione della pena in sede esecutiva, la durata della pena accessoria, rimasta immutata in tre anni, così come stabilito in sede di cognizione, non sarebbe stata più commisurata a quella della pena principale.
La rideterminazione di quest’ultima da otto anni di reclusione a tre anni e otto mesi, avrebbe imposto la rinnovata quantificazione anche di quella accessoria e ciò sulla scorta del principio stabilito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 2018 in relazione all’art. 120, comma 2, C.d.S.
2.3. Con il terzo motivo ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 d.P.R. n. 309 del 1990 nella parte in cui prevede l’applicazione automatica della sanzione accessoria della sospensione della patente di guida in caso di condanna per uno dei delitti di cui all’art. 73 dello stesso d.P.R.
Richiamando le considerazioni svolte dalla citata sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 2018, è stato evidenziato come, nel caso di specie, sia stata applicata la pena accessoria a distanza di oltre venti anni dai fatti, senza la preventiva verifica della sussistenza dei presupposti, al momento dell’applicazione della stessa, per la conservazione del titolo di guida.
Il Procuratore generale ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo è manifestamente infondato.
Non sussiste alcun difetto di motivazione sul punto indicato dal ricorrente che risulta smentito dalla stessa ricostruzione fattuale dell’ordinanza impugnata che non è stata, a sua volta, contestata nell’atto introduttivo del presente giudizio.
La privazione della patente di guida nel corso dell’esecuzione della sanzione sostitutiva, infatti, è stata determinata da un titolo diverso da quello qui rilevante e per il quale è stata ottenuta la rideterminazione della pena in sede esecutiva.
Risulta, pertanto, smentita la stessa ricostruzione fattuale posta a fondamento del primo motivo.
A pag. 4 dell’ordinanza impugnata è spiegato che a carico di NOME è stata eseguita la pena pecuniaria di 28.000 euro di multa derivata dalla sentenza del 23 ottobre 2006 della Corte di appello di Reggio Calabria e che tale pena è stata convertita in libertà controllata a seguito di ordinanza del Magistrato di sorveglianza di Reggio Calabria del 31 dicembre 2020, con conseguente sospensione della patente di guida e autorizzazione alla sua utilizzazione esclusivamente per esigenze lavorative.
Pertanto, la sospensione della patente di guida ex art. 85 d.P.R. n. 309 del 1990 della quale si controverte è diversa da quella ora descritta derivando dal provvedimento del Prefetto di Reggio Calabria del 18 luglio 2022, notificato il 23 ottobre 2022 in conseguenza della condanna con sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari del 15 marzo 2011, confermata dalla Corte di appello di Bari e divenuta irrevocabile il 21 marzo 2019.
Si tratta, quindi, di profili esecutivi diversi che non interferiscono in alcu modo l’uno sull’altro.
Da ciò discende l’inammissibilità del motivo di ricorso.
3. Il secondo motivo è, anch’esso, manifestamente infondato.
Dalla rideterminazione in sede esecutiva della pena principale per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019 non deriva automaticamente il diritto del condannato alla riduzione anche della pena accessoria della sospensione della patente di guida di cui all’art. 85 d.P.R. n. 309 del 1990.
Il ricorso non si sofferma sulla censura di vizi motivazionali sul punto, bensì si struttura sulla base di un presunto automatismo che imporrebbe l’invocata rideterminazione in ogni caso in cui il giudice dell’esecuzione abbia rimodulato la pena principale per effetto della citata sentenza della Corte costituzionale.
L’assunto è stato già smentito dalla giurisprudenza di questa Corte che, in termini qui condivisi, ha affermato, in relazione ad altro intervento della Corte costituzionale in materia di trattamento sanzionatorio per reati relativi agli stupefacenti, che «il giudice dell’esecuzione che procede alla rideterminazione della pena in applicazione della disciplina più favorevole determinatasi per le c.d. “droghe leggere” per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, non può revocare la sanzione accessoria del ritiro della patente di guida inflitta ai sensi dell’art. 85 d.P.R. 309 del 1990, disposizione attualmente in vigore nella sua originaria formulazione, né può modificare la suddetta sanzione accessoria qualora nella sentenza di condanna il giudice della cognizione abbia adeguatamente motivato il proprio convincimento in ordine alla specie e alla durata della sanzione accessoria e questa sia, in relazione alla pena principale
rideterminata, conforme al parametro legale» (Sez. 1, n. 26557 del 10/02/2016, COGNOME, Rv. 267254).
Non essendo stata formulata alcuna censura sul profilo della motivazione sulla base della quale è stata operata la determinazione della durata della pena accessoria, il motivo di ricorso è, quindi, inammissibile.
Pertinente, peraltro, il richiamo operato anche dal Procuratore generale all’arresto secondo cui, «la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 cod. pen. (In applicazione del principio, l Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva irrogato agli imputati le pene accessorie conseguenti al reato di bancarotta fraudolenta per il periodo fisso di dieci anni richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018)». (Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, Suraci, Rv. 276286)
4. L’eccepita illegittimità costituzionale dell’art. 85 d.P.R. n. 309 del 1990 è manifestamente infondata.
Il ricorrente assume la frizione con il principio costituzionale di uguaglianza del meccanismo per cui il giudice, nel pronunciare la condanna per i delitti di cui agli artt. 73 e 74 del citato d.P.R. applica la pena accessoria della sospensione della patente.
A supporto richiama quanto deciso dalla sentenza n. 22 del 2018 della Corte costituzionale in relazione al meccanismo di revoca della patente da parte del Prefetto ai sensi dell’art. 120, comma 2, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285.
Con tale sentenza è stata dichiarata l’illegittimità di tale norma «nella parte in cui – con riguardo all’ipotesi di condanna per reati di cui agli artt. 73 e 74 de decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), che intervenga in data successiva a quella di rilascio della patente di guida – dispone che il prefetto «provvede» – invece che «può provvedere» – alla revoca della patente».
E’ stato così introdotta la facoltatività della revoca analogamente a quanto previsto dall’art. 85 d.P.R. n. 309 del 1990 qui in rilievo, atteso che tale disposizione assegna al giudice la facoltà di disporre la pena accessoria («può disporre») e non l’obbligo.
Né risultano esplicitate le ragioni per cui tale meccanismo contrasterebbe con l’art. 3 Cost. e con il principio di uguaglianza ivi affermato laddove consente
l’applicazione della pena accessoria anche a prescindere dalla nuova valutazione circa la sussistenza della permanenza o meno dei requisiti morali da parte delle autorità competenti, una volta avvenuta l’espiazione della pena.
L’assunto dal quale muove il proprio ragionamento il ricorrente è, come detto, insussistente, atteso che la norma non prevede, in alcun modo, alcun automatismo giacché stabilisce che il giudice può disporre la sospensione ma non è obbligato, dovendo, in ogni caso, fornire una motivazione della decisione sul punto e risedendo in ciò la garanzia per il destinatario della sanzione.
Tale profilo è stato messo in evidenza nella sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 2018 nella quale sono state evidenziate le diverse finalità assolte dalle due diverse sanzioni, segnalando la diversa natura dei provvedimenti (facoltativo quello del giudice penale, obbligatorio – e per questo costituzionalmente illegittimo – quello del Prefetto).
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile.
Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuale e, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186 della Corte costituzionale e in mancanza di elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità» al versamento della somma, equitativamente fissata in euro tremila, in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 03/05/2024