Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 16981 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 16981 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 19/02/2025
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Bari con sentenza del 19 dicembre 2023, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Trani del 9 gennaio 2019, ha dichiarato non
doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME in relazione al reato di peculato (art. 314 cod. pen.), quanto ai versamenti tardivi di cui al capo A) scaduti al 20 ottobre 2008, perché il reato è estinto per prescrizione e, quanto alla residua condotta di peculato, ha rideterminato la pena, applicate le circostanze attenuanti generiche, in anni quattro e mesi tre di reclusione. L’imputato, confermata l’interdizione dai pubblici uffici in perpetuo, è stato dichiarato, altresì, incapace contrattare con la pubblica amministrazione in perpetuo. Sono state confermate le statuzioni civili a favore del Comune di Terlizzi e dell’Associazione “RAGIONE_SOCIALE“, con liquidazione rimessa al competente giudice civile, previa condanna al pagamento di una provvisionale, dell’importo di centomila euro, in favore del Comune di Terlizzi. In particolare, sulla pena base di anni tre e mesi quattro di reclusione – determinata in relazione alla condotta di peculato della somma di euro 1.115.084,30 – sono stati applicati, dapprima, la diminuzione per le circostanze attenuanti generiche e, poi, l’aumento di mesi sette di reclusione, per le residue condotte di peculato riferibili al ritardo nel versamento e l’aumento di mesi quattro di reclusione con riguardo al delitto di peculato commesso tramite RAGIONE_SOCIALE.
NOME COGNOME è stato ritenuto responsabile del reato di peculato, commesso in Terlizzi dal 21 giugno 2008 al 7 febbraio 2013, in qualità di presidente del consiglio di amministrazione della società RAGIONE_SOCIALE dal 18 marzo 2008, di presidente del consiglio di amministrazione della società RAGIONE_SOCIALE dal 15 maggio 2009 nonché presidente del consiglio di amministrazione nella stessa società dal 30 dicembre 2010. Ritenuta la qualifica di pubblico ufficiale in ragione della qualità rivestita nelle predette società concessionarie del servizio di riscossione dei tributi del Comune di Terlizzi, all’imputato sono ascritte tre condotte di appropriazione e, in particolare:
il ritardato versamento, in violazione dell’art. 22 del capitolato speciale allegato al contratto in forza del quale le somme dovevano essere versate entro il 20 del mese successivo al trimestre solare di riferimento, dei tributi incassati negli anni 2008, 2009 e 2010, per un totale di euro 887.153,50, per il periodo dal luglio 2008 all’anno 2010;
l’omesso versamento per l’anno 2011 e sino al terzo trimestre del 2012 della complessiva somma di euro 1.115.084,30;
l’appropriazione, nel periodo dal 29 aprile 2010 all’8 giugno 2011, quantomeno della somma di euro 248.821 (sul totale di euro 2.283.517), poiché aveva delegato alla riscossione, con il cosiddetto sistema “Qui Risolto”, la società RAGIONE_SOCIALE avente quale socio unico RAGIONE_SOCIALE, modalità di pagamento che faceva rifluire le somme riscosse sul conto corrente numero 401069473 intrattenuto presso la Unicredit della Censum, così consentendo a tale società di continuare a beneficiare sul proprio conto corrente di ingenti disponibilità liquide
che avrebbero dovuto, invece, essere accreditate sugli appositi conti correnti a servizio esclusivo del Comune di Terlizzi.
Le fonti di prova a carico del ricorrente rinvengono, essenzialmente, dalla documentazione contabile acquisita dalla Guardia di Finanza; dalla consulenza tecnica amministrativo-contabile disposta dal Pubblico ministero che aveva avuto ad oggetto l’esame delle procedure di riscossione per gli anni 2008-2009 e 2010 e dalle relazioni redatte dal collegio dei revisori dei conti nominato dal Comune di Terlizzi il cui presidente, NOME COGNOME, veniva escusso all’udienza del 20 settembre 2017.
Sono stati proposti due ricorsi l’uno a firma dell’avvocato NOME COGNOME l’altro a firma dell’avvocato NOME COGNOME
2.1. L’avvocato NOME COGNOME denuncia:
2.1.1. cumulativi vizi di motivazione nella parte in cui la Corte d’appello ha rigettato la richiesta di diminuzione della pena di un terzo avendo l’imputato chiesto la definizione con il rito abbreviato subordinato all’acquisizione della consulenza tecnica di parte redatta dal dottor NOME COGNOME L’esame condotto dal Corte d’appello sul contenuto della consulenza è estremamente superficiale poiché la Corte si è limitata ad affermare che era compito del consulente individuare la tipologia dei contratti e rapporti intercorsi tra il Comune di Terlizzi e la Censum;
2.1.2. cumulativi vizi di motivazione della sentenza impugnata sulla misura della diminuzione praticata per effetto dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche omettendo la valutazione del contenuto della consulenza del dottor NOME COGNOME incidente sulla determinazione dell’importo della somma di cui l’imputato si sarebbe appropriato sulla base di osservazioni che attengono alla natura e rilevanza del sottostante rapporto di concessione/appalto tra le parti.
Osserva, in particolare, che la Corte di merito ha ignorato gli argomenti trattati nella consulenza tecnica di parte secondo i quali era da accertare la consistenza del debito del Comune di Terlizzi che avrebbe dovuto essere posto in compensazione con il debito della società concessionaria riconducibile alla riscossione. Erano stati trascurati i rilievi difensivi secondo cui, in esecuzione di quanto stabilito, la Censum aveva predisposto, fin dal mese di agosto 2012, quanto necessario per procedere agli accertamenti ICI e Tarsu, relativi alle annualità dal 2008 al 2011, seguiti dalla consegna e predisposizione degli atti per la emissione degli atti di accertamento e di ingiunzione del Comune che non aveva attivato le procedure per la riscossione del credito e, così, aveva impedito alla società affidataria del servizio di conseguire il risultato economico delle attivit espletate per le quali non rilevano i costi sopportati bensì il credito che alla stessa dovrebbe essere riconosciuto in forza del servizio svolto a favore del Comune. Di
conseguenza la società avrebbe avuto diritto all’importo corrispondente alla stima del potenziale introito derivante dagli accertamenti, importo il cui corrispettivo era fissato (nel capitolato) in misura pari al 13,73% da applicare sulle basi imponibili.
Ai fini della determinazione dell’importo di cui l’imputato si sarebbe appropriato in danno del Comune, deve essere scorporato quello dell’aggio potenziale dovuto sulle somme in questione, anche se maturato negli anni successivi, e ascendente a ca. un milione di euro.
2.2. L’avvocato NOME COGNOME denuncia:
2.2.1. carenza di motivazione della sentenza per l’omessa valutazione della consulenza tecnica del dottor NOME COGNOME ignorata dalla sentenza impugnata che si è limitata, a dare atto delle deduzioni svolte dal consulente del pubblico ministero sulla base dell’erroneo presupposto” che non fosse contestato dalla difesa il contenuto di tale relazione. L’omessa valutazione della prova tecnica offerta dall’imputato alla ricostruzione del consulente contabile della pubblica accusa vizia irrimediabilmente la tenuta logica della sentenza impugnata fondata sulle (incontestate) conclusioni rassegnate dal consulente del pubblico ministero;
2.2.2. erronea applicazione della legge penale in relazione alla configurabilità del delitto di peculato con riguardo alla condotta di ritardo nei versamenti. Secondo la giurisprudenza il reato di peculato non si perfeziona allo spirare del termine fissato per l’adempimento giacché la responsabilità consegue solo quando sia raggiunta dell’intervenuta interversione del titolo di possesso sulla scorta della verifica che va condotta caso per caso e sulla base dell’attenta considerazione delle circostanze di fatto evitando semplificazioni probatorie che trasformerebbero la fattispecie di peculato in un reato formale. Gli stessi accertamenti svolti dal pubblico ministero avevano evidenziato come il Comune di Terlizzi tenesse la documentazione in maniera “disordinata e superficiale” e, quindi, la Corte territoriale ha omesso di valutare che il grave e documentato ritardo con cui il Comune liquidava al concessionario “aggio e spese” aveva generato la crisi di liquidità, che a sua volta aveva impedito il tempestivo riversamento da parte di Censum delle somme incassate. Pur a fronte di un eclatante ritardo è irragionevole desumere il dolo di appropriazione di quelle somme dalla mancata risoluzione del contratto. In via gradata deve essere, in ogni caso, rilevata la prescrizione delle ulteriori condotte successive al 20 ottobre 2008 e fino al primo trimestre 2010;
2.2.3. erronea applicazione della legge penale con riferimento alla individuazione delle somme oggetto di appropriazione. L’importo di euro 1.115.084 è stato determinato come mera differenza aritmetica tra incassato e riversato, omettendo ogni ulteriore accertamento. Si è omesso di accertare, nonostante le contestazioni al riguardo, a quale titolo siano state incassate le
somme, mancando in atti un accertamento analitico con la impossibilità di ricondurre a posteriori gli importi ad un preciso contribuente e per un preciso anno di imposta, con la conseguente difficoltà di quantificare l’esatta entità delle somme da riversare all’ente a titolo di tributo e, quindi, la ipotizzabilità del rea peculato. Né la somma è stata determinata avuto riguardo all’aggio e alle spese sostenute di cui il contratto (art. 22 del Capitolato) ammette la compensazione.
Infine, richiamato il contenuto della “consulenza COGNOME” e la complessità del rapporto esistente con il Comune, anche per altri concorrenti affidamenti realizzati nel tempo, e, quindi, la complessità del rapporto credito/debito, il ricorrente sostiene che deve essere escluso il dolo di appropriazione che consiste nella consapevolezza di detenere a titolo qualificato il denaro altrui e nella volontà di disporne “uti dominus”, il che è incompatibile, da un lato, con la previsione normativa (art. 5, comma 8-bis, d. I. n. 16 del 2012) che consente di effettuare i riversamenti al netto dell’aggio e delle spese sostenute e, dall’altro, con l’ingente credito che il concessionario vantava verso il Comune. Le somme, poi, erano rimaste giacenti sui conti del Comune e, quindi, a disposizione dell’ente. Tale situazione, in ogni caso, integra un errore scusabile sulla legge extrapenale, natura che deve riconoscersi alla disciplina in materia di riscossione;
2.2.4. erronea applicazione della legge penale con riferimento alla condotta appropriativa in relazione alla utilizzazione del canale di pagamento “Qui Risolto”. La sentenza impugnata, che, peraltro, richiama solo tre pagamenti si incentra unicamente sulla violazione del divieto di affidamento in subcontratto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono in parte fondati, come di seguito precisato.
Il primo motivo di ricorso proposto dall’avvocato NOME COGNOME è generico e manifestamente infondato.
Il ricorrente censura la motivazione con la quale la Corte di appello ha respinto, nella sentenza impugnata, la richiesta di riduzione della pena per effetto della diminuente del rito abbreviato e sostiene che l’imputato correttamente aveva rinnovato al Tribunale la richiesta di definizione del procedimento con rito abbreviato subordinata all’acquisizione della prova costituita dalla consulenza tecnica “amministrativo-contabile” redatta dal consulente NOME COGNOME in ordine al rapporto intercorso tra la il RAGIONE_SOCIALE Terlizzi e la società RAGIONE_SOCIALE richiesta che illegittimamente il Tribunale aveva respinto con ordinanza del 30 settembre 2015.
Il sistema vigente al momento della richiesta di abbreviato condizionato e della sua rinnovazione (intervenute rispettivamente il 3 giugno 2015 e 30
settembre 2015) prevedeva, dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 169 del 2013, che la richiesta di rito abbreviato condizionato – ai sensi degli artt. 438, comma 6, cod. proc. pen. – poteva essere “riproposta” al giudice del dibattimento, e che questi potesse sindacare la decisione del giudice dell’udienza preliminare ed ammettere il rito chiesto dall’imputato.
Il sistema non comportava la possibilità, prevista dall’art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen., introdotta solo con la I. n. 33 del 12 aprile 2019 (successiva alla sentenza di primo grado), secondo cui «Qualora la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile ai sensi del comma 1-bis, il giudice, se all’esito del dibattimento ritiene che per il fatto accertato sia ammissibile il giudizio abbreviato, applica la riduzione della pena ai sensi dell’articolo 442, comma 2».
Importanti precisazioni, relative ad una situazione affatto peculiare perché concernenti il caso in cui fosse già intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento alla data di pubblicazione della sentenza costituzionale 23 maggio 2003 n. 169, erano state enunciate nella sentenza di questa Corte (Sez. U., n. 44711 del 27/10/2044, Wajib, Rv. 229174), precisando che, qualora il giudice dibattimentale il quale abbia respinto “in limine litis” la richiesta di accesso al ri abbreviato – “rinnovata” dopo il precedente rigetto del giudice per le indagini preliminari ovvero proposta per la prima volta, in caso di giudizio direttissimo o per citazione diretta – deve applicare anche d’ufficio la riduzione di un terzo prevista dall’art. 442 cod. proc. pen., se riconosca (pure alla luce dell’istruttori espletata) che quel rito si sarebbe dovuto, invece, celebrare.
I riflessi sul piano sostanziale della ingiustificata o erronea determinazione in senso negativo del giudice preliminare, siccome incidente sostanzialmente sulla legalità della pena da irrogare in caso di condanna, avevano determinato le Sezioni Unite a ritenere sindacabile, su esplicita e documentata sollecitazione dell’imputato da parte del giudice di primo grado o, in forza di specifico motivo di gravame, dal giudice dell’impugnazione, il parametro della oggettiva ed effettiva necessità dell’integrazione probatoria richiesta al limitato fine non di consentire il “regresso”, ormai impossibile, nelle forme del rito alternativo bensì di applicare lo sconto di pena previsto dall’art. 438, comma 2, cod. proc. pen..
2.2. Rileva il Collegio, sulla scorta degli atti consultabili in ragione della natur processuale della questione devoluta, che la richiesta di definizione del procedimento con rito abbreviato c.d. condizionato era stata proposta dall’imputato all’udienza preliminare del 3 giugno 2015.
La richiesta, come sintetizzata nella memoria difensiva che la difesa aveva prodotto all’udienza del Tribunale tenutasi il 30 settembre 2015, era stata
avanzata “condizionata alla produzione della consulenza tecnica del consulente Soave”.
La richiesta era stata respinta dal giudice dell’udienza preliminare sul rilievo che “la richiesta, così come proposta, comporterebbe una sostanziale limitazione della celerità di definizione del procedimento. Ciò anche in considerazione del peculiare tipo di produzione documentale indicata dalla difesa”.
Il ricorso attacca la motivazione del diniego di ammissione al rito abbreviato compiuta dal Tribunale con l’ordinanza del 30 settembre 2015, in sede di rinnovazione della richiesta già proposta al giudice dell’udienza preliminare, e sostiene che la valutazione compiuta dai giudici di appello è erronea in quanto limitata ad un unico quesito concernente la qualificazione e la natura del rapporto che era intervenuto tra la RAGIONE_SOCIALE e il Comune di Terlizzi poiché, invece, al consulente erano stati devoluti accertamenti concernenti la ricostruzione della dinamica del rapporto intercorso evidenziando i reciproci inadempimenti.
Non ritiene il Collegio che la proposta lettura dell’ordinanza e della decisione della Corte di appello siano fondati.
E’, infatti, agevole rilevare, al confronto tra la richiesta avanzata al giudic dell’udienza preliminare nel corso dell’udienza del 3 giugno 2015 (in cui il rito abbreviato era genericamente condizionato alla produzione della consulenza tecnica COGNOME) e la richiesta “rinnovata” al Tribunale nel corso dell’udienza del 30 settembre 2015 (in cui si chiedeva l’acquisizione di “una consulenza tecnica di parte (che oggi sarà fornita dal dottor NOME COGNOME e non più dal dottor NOME COGNOME con il quale i rapporti del nostro cliente si sono definiti”), che non si fosse in presenza della “rinnovazione” della stessa istanza, rinnovazione che, come precisato dalla giurisprudenza, deve essere proposta esattamente negli stessi termini in cui era stata originariamente avanzata, non essendo consentito modificare in alcun modo la condizione, neanche al fine di renderla meno gravosa (Sez. 2, n. 47409 del 17/10/2014, COGNOME, Rv. 260959).
La richiesta di rinnovazione proposta all’udienza del 30 settembre 2015, non era coincidente, ictu ocu/i, con quella posta a fondamento della richiesta avanzata al giudice dell’udienza preliminare (ove il rito abbreviato era genericamente condizionato alla produzione della consulenza tecnica Soave) poiché si chiedeva l’acquisizione di “una consulenza tecnica di parte” che non solo reca la data di sottoscrizione del 29 settembre 2015 – successiva alla data dell’udienza preliminare – ma che, soprattutto, come ritenuto dal Tribunale prima e dalla Corte di appello poi (pagg. 14 e 15 della sentenza impugnata), non era esclusivamente finalizzata a contestare le risultanze degli accertamenti di natura patrimoniale e contabile effettuati dalla Guardia di Finanza e dal consulente delpbblico ministero,
ma che, soprattutto, appariva incentrata sulla ricostruzione (e valutazioni) relative al rapporto tra il Comune di Terlizzi e la Censum.
Le ragioni del rigetto non riguardano “solo” la indicazione del nominativo del consulente di parte ma investono la natura del contenuto della integrazione probatoria di cui si chiedeva l’acquisizione, precisata alla stregua delle allegazioni difensive risultanti dal verbale di udienza del 30 settembre 2015 e incentrate sul contenuto dei quesiti che erano stati posti al consulente, quesiti che sono stati oggetto di specifica analisi nell’ordinanza del 30 settembre 2015. Da tale analisi si evince che la consulenza non era esclusivamente finalizzata a contestare le risultanze degli accertamenti di natura patrimoniale e contabile effettuati dalla Guardia di Finanza e dal consulente del Pubblico ministero, ma che era incentrata sulla ricostruzione (e valutazioni) relative al rapporto tra il Comune di Terlizzi e l Censum.
Ritiene il Collegio che, al di là della sintesi che caratterizza l’ordinanza del 30 settembre 2015, la motivazione dell’ordinanza e il riferimento alla abnormità di un provvedimento con il quale il giudice accolga solo in parte la condizione posta dall’imputato all’accesso al rito abbreviato, evidenzino il “novum” della richiesta riproposta, rispetto a quella originaria, laddove la “rinnovazione” postula l’assoluta coincidenza tra la vecchia e nuova “condizione”, coincidenza che sarebbe stato preciso onere del ricorrente comprovare con l’odierno ricorso che è, pertanto, generico.
La facoltà di riproporre, in sede dibattimentale, l’istanza di abbreviato condizionato, in coerenza con le indicazioni che provenivano dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 169 del 2003, non può essere inquadrata come un mezzo per superare la preclusione, posta dalle cadenze del rito, ma costituiva uno strumento finalizzato a garantire il sindacato giurisdizionale sulla prima reiezione, associata al divieto di “riproposizione” di istanze diverse ed era coerente con la scelta di non consentire all’imputato di fruire dei benefici dell’accesso al rito prova contratta modificando la richiesta con le indicazioni rivenienti dalla istanza reiettiva, poiché, in tal modo, si disancorerebbe la funzione premiale del rito dal contenimento dei tempi processuali.
3. Il primo motivo di ricorso proposto dall’avvocato NOME COGNOME è infondato: la lettura della sentenza impugnata, che muove dalla sintesi dei motivi di appello e della sentenza di primo grado, consente di rilevare che la motivazione si sviluppa attraverso il puntuale confronto con ciascuno degli aspetti tecnici sui quali era fondata la consulenza COGNOME la cui valutazione sarebbe stata, secondo la sintesi del ricorrente, omessa. A tal riguardo nel ricorso viene richiamato un passaggio della motivazione (pag. 11 della sentenza impugnata) in cui si afferma
4)
che il contenuto della consulenza del Pubblico Ministero (quella eseguita dalla dottoressa COGNOME) non sarebbe stato contestato dall’imputato se non con rilievi tardivi.
L’affermazione del ricorrente è del tutto parziale, ma pone una questione rilevante ai fini dell’esame dei motivi di ricorso che sono riconducibili, tenuto conto della natura complessa del rapporto intervenuto tra la società RAGIONE_SOCIALE e il Comune di Terlizzi, alla configurabilità della condotta appropriativa, alla determinazione della somma oggetto di appropriazione e alla sussistenza del dolo.
Detto in estrema sintesi, la varietà dell’oggetto del contratto (concessione/appalto), degli obblighi che ne derivavano tra le parti, lo svolgimento, a cura della Censum di ulteriori attività che le sarebbero state delegate nel corso di esecuzione del contratto nonché il reciproco inadempimento renderebbero, secondo la prospettazione difensiva, insussistente la condotta di appropriazione per la confusione dei rapporti economici dare/avere Censum/Comune di Terlizzi o, comunque, per la possibilità di ravvisare la compensazione dei rapporti debito-credito, compensazione rilevante, se non altro, sotto il profilo della sussistenza del dolo.
La consulenza COGNOME ha, effettivamente, natura composita e vale qui la pena di richiamarla in sintesi dal momento che il suo contenuto rileva in più passaggi sia della motivazione della sentenza impugnata che dei rilievi difensivi, già posti a fondamento dei motivi di appello redatti dai difensori di NOME COGNOME (si vedano i motivi ai punti b. ed e. della sintesi dei motivi riportata a pag. 8 e 9 della sentenza impugnata).
Il consulente COGNOME, sentito in dibattimento all’udienza del 14 febbraio 2018, aveva ricostruito il complessivo rapporto dare/avere tra il Comune di Terlizzi e la Censum ed aveva determinato in euro 1.143.983,61 le spettanze del Comune e quelle della Censum in 236.000 (quali vecchi crediti); 320.000 (per fatture);1.000.000. di euro per aggi stimati.
Aveva rilevato, in particolare, che le entrate costituite dai fitti box, banchi diritti di mercato e la riscossione dei ticket mensa, costituivano entrate patrimoniali del Comune, rispetto alle quali la RAGIONE_SOCIALE aveva operato sulla base di un rapporto di natura privatistica; che per altre attività, i cc.dd. servizi aggiunt e quelle di accertamento e liquidazione dei tributi TARSU e ICI, la società RAGIONE_SOCIALE aveva svolto attività prettamente amministrative, affidate in appalto, con la previsione del pagamento dell’aggio e di modalità di liquidazione delle fatture per i lavori appaltati, speculari a quelli relativi al servizio di riscossione tr previsioni che, argomentava il consulente, “avevano la finalità di realizzare una compensazione tra operazioni a debito e a credito”; aveva osservato, infine, che, qualora il Comune avesse attivato (e in parte potrebbe averlo fatto negli ann/
successivi al 2013), la procedura di esazione del dovuto, la previsione di un aggio del 13,73 poteva comportare a favore della Censum un aggio potenziale di circa un milione di euro in relazione alla esazione dei tributi TARSU e ICI.
Il consulente era pervenuto, così, alla conclusione che l’inadempimento della RAGIONE_SOCIALE non avrebbe potuto essere considerato in maniera unitaria, attesa la molteplice natura giuridica delle somme oggetto di tardivo/parziale versamento, somme che andrebbero detratte dalle somme oggetto di appropriazione, perché compensabili tra le parti.
3.1. La sentenza impugnata, in linea con quella di primo grado, ha esaminato le specifiche cadenze argomentative della consulenza COGNOME escludendone il fondamento.
In particolare, ha esaminato il contenuto della convenzione del 2018 (pagg. 10 e 15) descrivendone le clausole ed ha ritenuto che i termini delle previsioni contrattuali non legittimassero la pretesa di portare in deduzione i crediti vantati da RAGIONE_SOCIALE, in forza di distinti rapporti contrattuali ovvero di distinte voci contrattuali, pure contemplate nel contratto del 2008, rispetto a quanto la società RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto versare al Comune di Terlizzi sulla base del rapporto di concessione relativo alla riscossione dei tributi.
A tal riguardo, la sentenza impugnata (pag. 16) ha condiviso la ricostruzione della sentenza di primo grado che aveva ritenuto accertati, con diffuso riferimento alla giurisprudenza di legittimità, sia la natura pubblicistica della funzione svolt dall’imputato (che non è stata oggetto di rilievi con l’odierno ricorso) sia l pertinenza delle somme riscosse (e versate in ritardo ovvero non versate) ai tributi che, per legge, non sono suscettibili di compensazione legale o volontaria: anzi, proprio il trattenimento di tali somme, del tutto privo di base contrattuale o legale, ritenuto sintomatico della condotta e volontà appropriativa.
Con riguardo alle modalità di calcolo dell’importo di cui l’imputato si era appropriato aveva, infine, evidenziato che l’importo versato in ritardo corrispondeva esattamente con gli importi dovuti (al netto dell’aggio e dell’I.V.A. dovuta, correttamente portati in compensazione perché così previsto nella convenzione), asseverando, così, la esattezza dei calcoli compiuti nella consulenza della dottoressa COGNOME che riguardavano la documentazione contabile (le reversali e le fatture) e la loro esattezza, in tal senso dovendo essere interpretata la precisazione della mancata contestazione da parte dell’imputato.
Premesso che sulla rilevanza delle argomentazioni contenute nella consulenza COGNOME si tornerà nel prosieguo dell’esame dei motivi di ricorso, ritiene il Collegio che deve escludersi che sia fondato il motivo di ricorso sull’omesso esame di tale consulenza da parte della Corte di appello in relazione ai motivi di appello proposti.
Sono, invece, fondati i motivi di ricorso relativi alla ritenuta sussistenza de delitto di peculato con riferimento alle somme versate in ritardo, fra le quali le somme riscosse attraverso il sistema “Qui Risolto”.
Il tema posto dal ricorrente attiene alla individuazione dei termini previsti dal contratto di concessione attraverso le previsioni del deposito del rendiconto e dei conti di gestione delle entrate (deposito che andava eseguito entro il mese di febbraio dell’anno successivo); del deposito del rendiconto trimestrale (che andava eseguito entro il 20 del mese successivo al trimestre di riferimento) e prevedeva il versamento, sul conto corrente postale del Comune, al netto dell’aggio spettante, entro il giorno 20 del mese successivo al trimestre solare di riferimento.
La consulente del Pubblico Ministero (e il dato è, questo sì, in sostanza non contestato) ha ricostruito i versamenti dei tributi incassati a partire dal luglio 200 e negli anni 2009 e 2010, fino al 20 aprile 2010 (per un totale di 887.153.50) e così quelli relativi alla riscossione attraverso il sistema “Qui Risolto”, period aprile/giugno 2010 (cfr. pag. 11), evidenziando che sono avvenuti con ritardi, anche notevoli (in media 230 giorni, con un picco anche di 521 giorni).
Il dottor NOME COGNOME – presidente del collegio dei revisori- ha precisato in dibattimento che il versamento delle somme relative ai tributi riscossi negli anni 2009 e 2010 era, comunque, stato regolarizzato nel febbraio 2011, con conseguente applicazione delle sanzioni e interessi previsti dalla convezione, all’indomani dei controlli (iniziati a gennaio 2011) da parte del collegio.
Tali versamenti rientravano in un complesso budget nel quale erano ricompresi sia il calcolo dell’aggio, a favore di Censum, aggio che veniva trattenuto dalla società che emetteva regolare fattura con indicazione dell’I.V.A., parimenti detratta.
Le conclusioni cui la Corte di appello è pervenuta (cfr. pagg. 12 e 13) ai fini della ritenuta sussistenza della condotta appropriativa valorizzando il carattere macroscopico del ritardo, non possono condividersi e richiamano principi che la giurisprudenza di legittimità ha precisato valorizzando, ai fini della configurabilità del delitto di peculato, sia la disciplina pubblicistica di riferimento, che regola materia dei rapporti dei concessionari con gli enti pubblici con riguardo alle cadenze temporali del versamento delle somme riscosse e, nel caso di ritardato pagamento, il termine legale o contrattuale previsto per il versamento; il comportamento delle parti e le correlative sanzioni previste nelle convenzioni per il ritardato adempimento del concessionario.
A tal riguardo si è rilevato come il reato di peculato si perfezioni allo spirare del termine previsto per il versamento dell’importo dovuto distinguendo, rispetto al versamento tardivo, la condotta appropriativa che si realizza con la interversione del titolo del possesso e, quando sia raggiunta la prova della intervenuta
interversione del titolo del possesso, cioè che il concessionario abbia agito “uti dominus”.
Si tratta di precedenti, richiamati nel ricorso, intervenuti in materia d versamento delle somme riscosse da parte del concessionario titolare dell’attività di raccolta delle giocate del lotto dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli in cui si è affermato che il delitto di peculato per ritardato versamento degli importi riscossi per conto dell’Azienda Autonoma Monopoli di Stato è configurabile quando la condotta omissiva si protragga oltre la scadenza del termine ultimo indicato nell’intimazione che l’amministrazione è tenuta ad inviare al concessionario sotto la comminatoria della decadenza dalla concessione, a condizione che sia altresì raggiunta la prova dell’interversione del titolo del possesso, evincibile dal protrarsi della sottrazione della “res” alla disponibilità dell’ente pubblico per un lasso di tempo ragionevolmente apprezzabile e comunque tale da denotare inequivocabilmente l’atteggiamento “appropriativo” dell’agente. (Sez. 6, n. 31167 del 13/04/2023, COGNOME, Rv. 285082).
Analogo principio è stato affermato in materia di imposte riscosse dal notaio, ove si è ribadito che la condotta di peculato è integrata non già per effetto del mero ritardo nell’adempimento, bensì allorquando si determina la certa interversione del titolo del possesso, che si realizza quando il pubblico agente compia un atto di dominio sulla cosa, con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, condotta che non necessariamente può essere ritenuta insita nella mancata osservanza del termine di adempimento (Sez. 6, n. 16786 del 02/02/2021, Conte, Rv. 281335).
Sulla scorta di tali rilievi si è pervenuti alla conclusione che l’individuazion del momento in cui si realizza l’interversione del titolo del possesso, e dunque la condotta appropriativa, non coincide automaticamente con lo spirare del termine previsto dalla diffida o, in generale, con il termine convenzionale di versamento, ma va accertata caso per caso sulla base dell’attenta considerazione delle circostanze di fatto, evitando semplificazioni probatorie che trasformerebbero la fattispecie di peculato, gravemente punita, in un reato formale.
Occorre, cioè, che la sottrazione della “res” alla disponibilità dell’ente pubblico si sia pur sempre protratta per un lasso di tempo ragionevolmente apprezzabile e comunque tale da denotare inequivocabilmente l’atteggiamento “appropriativo” dell’agente.
4.1. Con riferimento al caso in esame, la normativa di riferimento (al momento dei fatti), era costituita dall’art. 52, comma 1, d. Igs. n. 446/97 che attribuiva ai Comuni il potere di emanare regolamenti funzionali a disciplinare le proprie entrate e finalizzati, in attuazione dei principi in tema di federalismo fiscale ad esaltare la loro autonomia finanziaria di entrata e spesa nei limiti dei principi
costituzionali di cui all’art. 23 (principio della riserva di legge relativa) ed al 119 (principio dell’autonomia tributaria degli enti locali) del decreto stesso.
Tale potere regolamentare poteva essere utilizzato tanto con riguardo alla parte sostanziale della disciplina impositiva quanto e, soprattutto, con riguardo alla parte procedimentale (e dunque, in particolare, alla fase della liquidazione, accertamento e riscossione).
Il sistema delineato nel risalente decreto aveva subito una sostanziale modifica a seguito della riforma contenuta nel d.l. 30 settembre 2005 n. 203, convertito dalla I. n. 248 del 2 dicembre 2005, la quale, valorizzando il carattere spiccatamente pubblicistico della funzione di riscossione, ne aveva affidato la gestione sostanzialmente agli stessi soggetti impositori, sebbene attraverso l’utilizzo di forme societarie idonee a garantire maggiore efficienza organizzativa ed operativa e, a seguire, nell’anno 2011, per effetto dell’entrata in vigore del di. n. 70 del 2011, in materia di accertamento, liquidazione e riscossione – spontanea e coattiva – delle entrate, tributarie o patrimoniali.
Non ha subito modifiche, nel corso degli anni, la previsione recata dall’art. 181 del TUEL, “secondo cui gli incaricati della riscossione, interni ed esterni, versano al tesoriere le somme riscosse nei termini e nei modi fissati dalle disposizioni vigenti e da eventuali accordi convenzionali, salvo quelli a cui si applicano gli articoli 22 e seguenti del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112”.
Tali disposizioni riconoscono margini agli enti locali per la disciplina, in sede regolamentare ma anche convenzionale, del rapporto di riscossione dei tributi, anche con riferimento al versamento delle somme riscosse, che costituisce l’ultimo segmento delle attività di riscossione che la società incaricata svolge utilizzando i poteri coattivi e pubblicistici dell’ente pubblico, disciplina che non è irrilevante fini della individuazione del momento di perfezionamento e consumazione del reato di peculato, che non può (automaticamente) identificarsi con quello della riscossione della somma dal privato, venendo in rilievo termini e modalità convenzionali del versamento a favore dell’ente.
Non rileva, dunque, ai fini della configurabilità del delitto di peculato, che denaro sia fittiziamente entrato nella disponibilità e titolarità della pubblic amministrazione al momento della riscossione, ma possono assumere rilevanza circostanze che, sia pure dopo la scadenza dei termini convenzionali stabiliti, regolano il rapporto tra le parti quali quelle che regolano la definizione dell’inadempimento e della sua rilevanza.
E, nel caso in esame, pur a fronte di un ritardo significativo, assumono rilievo i comportamenti del Comune di Terlizzi, che attraverso i funzionari incaricati dei controlli non aveva mosso rilievo alcuno alla società RAGIONE_SOCIALE: la sentenza impugnata e quella di primo grado danno ampia dimostrazione della connivenza
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dei funzionari pubblici preposti ai controlli sulle attività della RAGIONE_SOCIALE che solo all’indomani dell’insediamento del collegio dei revisori, aveva versato il consistente “arretrato”, relativo agli anni 2009 e 2010.
Negli anni 2009 e 2010, non erano, infatti, intervenute né diffide ad adempiere né sanzioni (contrattualmente previste) o l’irrogazione di penali al cospetto di previsioni convenzionali che collegavano la decadenza/risoluzione a “grave inadempienza agli obblighi stabiliti a carico dell’affidatorio dalla legge e/o dal presente capitolato” ovvero a “grave imperizia o negligenza tale da compromettere la regolarità del servizio o il perseguimento dei risultati prefissi” con previsioni non univoche e, quindi, non utili a determinare il momento del mancato versamento (in caso di ritardo) poiché la previsione della risoluzione per mancato pagamento era infirmata dalla previsione di un clausola che, nel caso di ritardato versamento, prevedeva l’applicazione degli interessi.
Non risulta che il Comune di Terlizzi, fino al 31 dicembre 2010 abbia mosso rilievi all’attività della Censum (cfr. anzi la sentenza di primo grado, pag. 38, in cui si dà atto di generici ritardi nei riversamenti rilevabili dalle relazioni funzionari) e risulta che solo in data 3 gennaio 2011 e 15 febbraio 2011 la dirigente del servizio aveva irrogato alla Censum le penalità di cui all’art. 34 del capitolato, seguite dal versamento dei tributi riscossi.
La sentenza impugnata, oltre alla più risalente giurisprudenza di questa Corte (che riteneva configurabile il delitto di peculato per effetto dell’omesso versamento, valorizzandone la natura di denaro pubblico), ha richiamato le clausole del contratto di concessione, in particolare gli artt. 28, 29 e 34 che disciplinano il contenuto del rapporto di concessione con i soggetti incaricati della riscossione, i termini e le modalità di adempimento, disposizioni che, tuttavia, non possiedono significato univoco ai fini della equiparazione ritardato versamentoappropriazione nell’accezione rilevante ai fini della condotta appropriativa idonea ad integrare il delitto di peculato.
Consegue che la sentenza impugnata, con riferimento alle condotte di peculato, poste in essere negli anni 2008/2010 e a quelle realizzate tramite la RAGIONE_SOCIALE deve essere annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste, formula che prevale sulla declaratoria della prescrizione delle condotte più risalenti poiché, in presenza di statuizioni civili, la Corte di cassazione deve esaminare compiutamente i motivi di ricorso.
Non sono, viceversa, fondati i rilievi del ricorrente a proposito della prova della interversione del possesso e dell’elemento psicologico del reato con riferimento all’omesso riversamento delle somme riscosse per l’anno 2011 e sino al primo trimestre 2012 per la complessiva somma di euro 1.115.084,30.
Questa Corte ha più volte affermato in tema di peculato che, pur dovendosi convenire circa la necessità della concreta prova dell’interversione, nondimeno tale prova possa essere desunta sul piano indiziario anche da situazioni altamente significative di una condotta appropriativa, come acclarato, sulla scorta delle evidenze illustrate, nel caso in esame in cui si è riscontrato l’omesso versamento delle somme riscosse anche dopo la cessazione del rapporto: nel verbale n. 99 del 24 gennaio 2013, il collegio dei revisori dava atto dei numerosi solleciti che il competente funzionario aveva inviato alla Censum, invitandola al rispetto delle scadenze contrattuali e riservandosi l’applicazione delle prescrizioni di cui all’art. 34, comma 2, lett. b) del capitolato e, dopo una proroga del contratto, della determinazione del Comune di procedere all’incasso delle somme riscosse direttamente sui conti correnti del Comune, mai adempiuta per le somme riscosse nell’anno 2011 e 2012.
A tal riguardo i rilievi difensivi, concernenti la esatta individuazione della somma di cui l’imputato si era appropriato, sono generici e infondati
Nella sentenza impugnata (pag. 11) la condotta di appropriazione è oggetto di puntuale ricostruzione alla luce dei rilievi della difesa e viene spiegato che alla stregua della corrispondenza del collegio dei revisori; della relazione di fine mandato e delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME, presidente del collegio dei revisori, risulta che il collegio dei revisori, ai fini delle proprie conclusioni n determinazione dell’importo dei riversamenti omessi, ha sempre tenuto conto della previsione contrattuale, riferendo il proprio accertamento alle somme che la società trimestralmente doveva versare nelle casse dell’Ente “al netto degli aggi maturati nonché le date di versamento per ciascun trimestre e relative fatture” basando l’accertamento sui rendiconti e sulle fatture trasmesse riguardanti, appunto, gli aggi dovuti sulla base della trasmessi dalla stessa Censum. Va solo, per completezza, rilevato che, come lo stesso ricorso non manca di evidenziare, le spese di riscossione gravavano sui contribuenti mentre l’I.V.A. – calcolata sull’aggio – era relativa a tale base imponibile, gravava sul Comune e maturava al momento della emissione della fattura della prestazione di riscossione dei tributi ed era relativa a tutte le entrate tributarie dell’ente.
Il termine massimo di prescrizione per il reato di peculato, come ritenuto, ai sensi degli artt. 157 e 161 cod. pen., è pari ad anni dodici e mesi sei, e, tenuto conto delle sospensioni, non è intervenuto per alcuna delle condotte illecite qui ritenute.
Non è fondato il motivo di ricorso che allega la insussistenza del dolo.
Va premesso che il dolo del delitto in esame è integrato dal dolo generico e tenuto conto della natura dell’attività di riscossione, quindi un’attività organizzata
secondo una logica di impresa finalizzata alla produzione del profitto, attività che può essere svolta solo da soggetti qualificati che siano in possesso dei requisiti previsti per l’iscrizione all’albo appositamente istituito (art. 53, comma 1, d. Igs. 15 dicembre 1997, n. 446), vagliati da apposita commissione e, nel caso per la RAGIONE_SOCIALE, cancellata dall’Albo solo nell’anno 2016.
Nella vicenda in esame il tema del dolo è stato posto con riferimento al convincimento dell’imputato, fondato sulle argomentazioni sviluppate nella consulenza COGNOME, innanzi sintetizzate, della possibilità di compensazione delle somme derivanti dal servizio di riscossione dei tributi articolati lungo una duplice direzione: a. che gli importi derivanti dalla riscossione delle cd. entrate patrimoniali o, comunque, extratributarie del Comune non sono sovrapponibili, alla riscossione delle “imposte e tributi”, sicché le entrate costituite dai canoni d fitti box, banchi e diritti di mercato e quelle derivanti dalla riscossione dei tick mensa non possono concorrere a determinare l’importo di cui l’imputato si sarebbe appropriato; b. che, più in generale, la convenzione, in ragione delle modalità che regolavano i rispettivi pagamenti, prevedesse una “compensazione” tra le voci a debito e quelle a credito della Censum.
Le prospettazioni difensive sono infondate perché prive di base legale e convenzionale e, quindi, irrilevanti anche in relazione al principio di buona fede che regola i rapporti convenzionali.
Premesso che questa Corte ha ritenuto la natura pubblicistica delle attività relative all’incasso dei cd. ticket-mensa svolti a favore dell’ente che organizza il servizio pubblico di refezione scolastica perché costituente una modalità di esplicazione di quest’ultimo, attraverso la raccolta dei contributi privati ad essa funzionale (Sez. 6, n. 16794 del 25/03/2021, Perfetto, Rv. 281090), non ha pregio la tesi che riconduce all’attività di carattere privatistico dell’ente pubblico riscossione dei fitti di box, banchi e diritti di mercato.
La possibilità di delegare, con il sistema in concessione, anche la riscossione delle entrate patrimoniali dei comuni è espressamente prevista dall’articolo 52 del d. Igs. n. 446 del 15 dicembre 1997 e, per le concrete modalità dell’attività di riscossione (il comune può emettere ingiunzione, per conseguire il relativo titolo esecutivo, senza necessità di rivolgersi al giudice, come nelle corrispondenti attività di natura privatistica), deve escludersene la natura di entrate di diritt privato (in cui l’amministrazione si comporta alla stregua di un qualsiasi operatore privato).
L’amministrazione, nei casi indicati, agisce mediante il proprio potere autoritativo e stabilisce unilateralmente il canone (o il prezzo dei ticket) incidendo sull’autonomia dei privati i quali non possono soddisfare in modo adeguato la loro pretesa se non accettando le condizioni imposte dall’ente pubblico
Della natura pubblicistica di tali entrate era consapevole, nella qualità, l’imputato poiché la società di riscossione, in forza dei poteri di imperio, poneva in essere gli atti propedeutici e, valendosi dell’autoritatività, provvedeva alla esazione dei ticket o dei canoni di fitto con i poteri delegatigli dal comune.
E’ innegabile che la convenzione del 2008 prevedeva una serie di servizi affidati in concessione o in appalto alla società RAGIONE_SOCIALE ma alcuna norma contrattuale del capitolato o in generale quelle del regolamento comunale al quale il contratto faceva rinvio consentivano di ritenere che il contratto, in ragione delle modalità che regolavano i rispettivi pagamenti, prevedesse una “compensazione” tra le voci a debito e quelle a credito della RAGIONE_SOCIALE, a meno di quella relativa al trattenimento dell’aggio (nella misura del 13, °/0) nonché delle spese di fatturazione (dell’aggio) che, in sede di riversamento dei tributi riscossi, la società poteva trattenere.
Ancora più generica è l’affermazione del consulente COGNOME – sviluppata nella parte relativa alla ricostruzione dinamica del rapporto dare/avere tra la Censunn e il Comune di Terlizzi – secondo cui la società RAGIONE_SOCIALE avrebbe potuto portare in compensazione crediti derivanti dalla fatture a favore della RAGIONE_SOCIALE (si tratta del credito di 236.000 euro, effettivamente pagato dal Comune nell’anno 2013 ), ovvero degli importi recati dalle fatture emesse in relazione ai cd. “servizi aggiuntivi”, importi che sarebbero maturati, nel corso degli anni dal 2008 a seguire in relazione a servizi che trovavano la loro fonte in “determine” via via adottate dal Comune di Terlizzi, ancorché collegate a servizi che rientravano nel contratto del 2008.
E’ frutto di una ricostruzione fantasiosa quella di prospettare che potessero essere portati in detrazione (sempre attraverso compensazione) i cd. aggi potenziali, collegati alla riscossione dei tributi ICI e TARSU: lo stesso consulente COGNOME ne compie una ricostruzione riconducibile a pretese di natura risarcitoria quindi di crediti per nulla liquidi ed esigibili – ovvero in chiave di eccezione inadempimento del Comune di Terlizzi, crediti che, peraltro, sarebbero maturati per effetto del completamento del servizio comunicato al Comune solo nell’agosto 2012.
Ad avviso del Collegio è, dunque, infondata la tesi della compensabilità dei crediti della società RAGIONE_SOCIALE (di varia natura e provenienza) con i debiti della società rivenienti dall’attività di riscossione di cui era concessionaria: non rilev solo la natura – affatto liquida ed esigibile- dei crediti vantati dalla società ma osta la natura dei crediti riscossi dal concessionario che sono dichiarati impignorabili ( art. 1246, n. 3 cod. civ.) e sui quali, pertanto, non può essere esercitato lo ius retentionis, a garanzia del contro credito, da parte dell’addetto
alla riscossione il quale deve assolvere all’obbligo di corresponsione delle somme detenute.
Rilevano, in proposito, le disposizioni degli artt. 181 TUEL e 226 del R.D. 827/1924 – secondo cui il versamento costituisce l’ultima fase dell’entrata e si realizza con il trasferimento delle somme riscosse alle casse dell’ente, nei termini e nei modi fissati dalle disposizioni vigenti e da eventuali accordi – nonché il regime giuridico e la natura propria delle somme dovute dalla Censum in forza dell’attività di riscossione rispetto ai quali è escluso il ricorso al potere di autotutela del privat che, nei confronti della pubblica amministrazione, non può, in generale, procedere alla riscossione dei crediti in forme diverse da quelle disciplinate dal legislatore.
La verifica dell’elemento psicologico del reato condotta nelle sentenze di merito si sottrae, dunque, a censure in questa sede rilevabili.
Segue, pertanto, la conferma della irrevocabilità della condanna per il reato di peculato commesso mediante l’appropriazione della somma di euro 1.115.084,30.
Le considerazioni svolte al punto che precede sono esaustive anche dei rilievi posti dal ricorso dell’avvocato COGNOME sulla misura della diminuzione della pena per l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche anche se, per effetto dell’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, la misura della diminuzione per le generiche va rivista tenuto conto dell’entità del profitto, ridotto all’importo di euro 1.115.084,30.
Vanno, altresì, riviste le pene accessorie inflitte, tenuto conto della pena che sarà, in concreto, irrogata e dell’applicabilità, ratione temporis, delle disposizioni recate dall’art. 317-bis cod. pen.
La Corte di merito liquiderà le spettanze dell’odierna fase processuale tenuto conto della presentazione delle note spese a cura delle parti civili, Comune di Terlizzi e Associazione Città Civile.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle condotte, contestate come peculato, poste in essere negli anni 2008/2010 e a quelle realizzate tramite la RAGIONE_SOCIALE perché il fatto non sussiste. Rigetta nel resto il ricorso e dispone la trasmissione ad altra Sezione della Corte di appello di Bari per la sola rideterminazione della pena con riferimento alla residua condotta di
peculato. Visto l’art. 624 cod. proc. pen. dichiara irrevocabile la sentenza di condanna relativa alla condotta di peculato da ultimo indicata.
Così deciso il 19 febbraio 2025
La Consigliera relatrice