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Peculato per autoliquidazione: quando non c’è reato

Un amministratore di società pubblica, accusato di peculato per autoliquidazione di somme non dovute, è stato assolto dalla Cassazione. La Corte ha annullato la condanna per mancanza di prove sulla sua effettiva disponibilità del denaro e sulla sua capacità di ordinarne il pagamento, ritenendo il fatto non sussistente.

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Pubblicato il 15 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Peculato per Autoliquidazione: La Cassazione Annulla la Condanna per Carenza di Prove

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19103 del 2024, ha affrontato un caso delicato di peculato per autoliquidazione, fornendo chiarimenti essenziali sui presupposti necessari per la configurabilità di tale reato. La vicenda riguarda un amministratore di una società a partecipazione pubblica accusato di essersi appropriato di somme di denaro aziendale tramite l’erogazione di compensi non dovuti. La Suprema Corte ha annullato la condanna, stabilendo che la semplice percezione di emolumenti indebiti non è sufficiente a integrare il peculato se non viene provata l’effettiva disponibilità del denaro da parte dell’agente.

I Fatti di Causa: L’Accusa di Indebita Percezione di Somme

Il caso ha origine dalla condotta di un amministratore delegato di una società mista, a prevalente capitale pubblico, incaricata della gestione di servizi pubblici. Secondo l’accusa, l’amministratore, tra il dicembre 2008 e l’agosto 2010, si sarebbe fatto attribuire somme non dovute per un totale di quasi 74.000 euro, inserendole nei cedolini stipendiali sotto varie voci, quali indennità di trasferta, rimborsi spese, compensi per collaboratori e premi di risultato.

Successivamente, su richiesta del nuovo consiglio di amministrazione, l’imputato aveva parzialmente restituito le somme, lasciando comunque un debito residuo. Per questi fatti, era stato condannato per il reato di peculato sia in primo grado che in appello.

Il Percorso Giudiziario e i Motivi del Ricorso

L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, contestando la condanna per peculato su più fronti. La difesa ha sostenuto che mancassero gli elementi costitutivi del reato, in particolare il presupposto del “possesso o comunque della disponibilità del denaro”. Secondo il ricorrente, gli emolumenti erano erogati dagli organi competenti della società, sui quali egli non aveva potere di incidere. Pertanto, non vi sarebbe stata alcuna appropriazione diretta. Inoltre, veniva contestata la sussistenza dell’elemento psicologico, asserendo la buona fede dell’amministratore, indotto a ritenere legittime le somme percepite.

La questione del peculato per autoliquidazione

Il cuore della difesa si è concentrato sulla corretta qualificazione giuridica del fatto. Si è argomentato che, per configurare il peculato per autoliquidazione, non è sufficiente la mera percezione di somme, ma è indispensabile dimostrare che l’agente avesse un potere dispositivo autonomo sui fondi della società, tale da poterne ordinare il pagamento a proprio favore. In assenza di tale prova, il fatto avrebbe potuto, al più, integrare altre fattispecie di reato, come l’abuso d’ufficio.

Le Motivazioni: Il Difetto di Prova sulla Disponibilità del Denaro

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ritenendo la motivazione della sentenza d’appello illogica e carente. I giudici di legittimità hanno evidenziato come i giudici di merito non avessero adeguatamente provato il presupposto fondamentale del peculato: l’effettiva disponibilità del denaro pubblico da parte dell’imputato.

La sentenza impugnata si era limitata a fondare la responsabilità sulla “mancata documentazione” a giustificazione dei rimborsi e su un’affermazione apodittica, ovvero non supportata da prove, secondo cui sarebbe stato l’imputato stesso a dare “personalmente disposizione” per la liquidazione di tali emolumenti. La Cassazione ha smontato questo impianto accusatorio, chiarendo due punti cruciali:

1. Mancanza di prova sulla disponibilità: Non è stato chiarito in che modo l’amministratore avesse la concreta possibilità di disporre autonomamente del denaro della società. L’accusa non ha dimostrato che egli potesse ordinare pagamenti a proprio favore senza alcun controllo.
2. Errata qualificazione del fatto: La Corte ha specificato che il profilo della “mancata documentazione” è estraneo al momento appropriativo del peculato. Anzi, se l’imputato avesse utilizzato documentazione falsa per ottenere i rimborsi, il reato configurabile sarebbe stato quello di truffa (art. 640 c.p.) e non di peculato.

Queste “aporie motivazionali” hanno reso l’affermazione di responsabilità penale illogica, imponendo l’annullamento della sentenza.

Le Conclusioni: L’Annullamento “Perché il Fatto non Sussiste”

In conclusione, la Suprema Corte ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna “perché il fatto non sussiste”. Questa formula assolutoria, più ampia della semplice prescrizione (che pure era maturata), è stata scelta in ragione dell’evidente carenza probatoria emersa nel processo. La decisione ribadisce un principio fondamentale: per una condanna per peculato non basta dimostrare che un pubblico amministratore abbia percepito somme non dovute, ma è necessario provare in modo rigoroso e inequivocabile che egli avesse il potere di disporre di quel denaro e che si sia attivato personalmente per appropriarsene. In assenza di tale prova, l’accusa non può reggere e l’imputato deve essere assolto con la formula più piena.

Quando un amministratore di società pubblica che riceve somme non dovute commette peculato?
Secondo la sentenza, il reato di peculato si configura solo se viene rigorosamente provato che l’amministratore aveva il possesso o la diretta disponibilità del denaro e che si è appropriato delle somme esercitando tale potere, ad esempio ordinandone personalmente la liquidazione a proprio favore.

Perché la Corte di Cassazione ha annullato la condanna in questo caso?
La Corte ha annullato la condanna perché la motivazione dei giudici di merito era illogica e carente. In particolare, non è stata fornita alcuna prova concreta né del fatto che l’imputato avesse la disponibilità del denaro, né che avesse dato lui stesso l’ordine di liquidare le somme a proprio vantaggio.

Qual è la differenza tra peculato e truffa in un caso di rimborsi non dovuti?
La sentenza chiarisce che se l’amministratore avesse ottenuto i pagamenti non dovuti presentando documentazione falsa (ad esempio per trasferte o missioni mai avvenute), la condotta avrebbe dovuto essere inquadrata nel reato di truffa ai sensi dell’art. 640 c.p., e non in quello di peculato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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