Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 18735 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 18735 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 26/02/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
COGNOME NOME, nato a Palermo il 11/09/1965
COGNOME NOMECOGNOME nata a Andria il 23/05/1972
avverso la sentenza del 14/03/2024 della Corte di appello di Palermo visti gli atti, il provvedimento denunziato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi; lette le conclusioni delle parti civili, avv. NOME COGNOME per NOME COGNOME e NOME COGNOME, avv. NOME COGNOME per NOME COGNOME e NOME COGNOME che hanno chiesto la conferma della sentenza impugnata e la refusione delle
spese;
lette le conclusioni del difensore dei ricorrenti, avv. NOME COGNOME che ha eccepito la prescrizione dei reati commessi prima del 14 agosto 2012 e ha chiesto l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Palermo riformava parzialmente – quanto alla pena che riduceva – la sentenza del 6 marzo 2023 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo, che, all’esito di giudizio abbreviato, aveva condannato gli imputati NOME COGNOME e NOME COGNOME per i reati agli stessi ascritti.
In particolare, al Lipani, quale amministratore giudiziario e/o custode giudiziario, nonché coadiutore dell’ANBSC in vari procedimenti giudiziari, erano stati contestati vari delitti di peculato (art. 314 cod. pen.), alcuni commessi da solo (capi da A a H; capo N) ed altri in concorso con la COGNOME, quale dottore commercialista legata al primo da un rapporto di collaborazione (capi da I a M, capi O e P); nonché delitti di omissione di atti di ufficio (art. 328 cod. pen.) (cap da Q a S).
Avverso la suddetta sentenza hanno proposto, con atti distinti, ricorso per cassazione gli imputati, a mezzo del comune difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME denunciando i motivi di annullamento, di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Ricorso di Lipani.
2.1.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 314 cod. pen. e alla nozione di distrazione e alla apprensione illecita di somme di competenza degli enti amministrati.
La difesa aveva sostenuto con l’appello che la condotta tenuta dall’imputato non poteva configurare il reato di peculato, in quanto le somme prelevate dall’imputato non erano destinate a finalità diverse e incompatibili con quelle istituzionali: egli le destinava al pagamento dei propri compensi e a spese necessarie per il funzionamento del proprio studio, dedicato interamente alla gestione degli enti amministrati.
Andava considerato che anche la autoliquidazione dei compensi e delle spese non costituisce di per sé condotta distrattiva illecita in quanto volta a soddisfare finalità non estranee da quelle istituzionali (erano somme comunque dovute al ricorrente se pur con modalità diverse).
2.1.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata applicazione della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen. per i delit contestati ai capi Q), R) e S).
La difesa aveva dedotto che le condotte omissive (quanto al deposito del rendiconto di gestione e al passaggio di consegne) erano strumentali all’esercizio del diritto di difesa del ricorrente (ovvero evitare di portare alla luce le su
condotte appropriative), tutelato dalla Costituzione e che comporta che nessuno può essere obbligato ad autoincriminarsi di un reato che ha commesso (per un caso analogo a quello in esame, Sez. 5, n. 6458 del 4/12/2006).
2.1.3. Vizio di motivazione sulla sussistenza del dolo in relazione ai capi da Q), R) e S).
La motivazione che ha respinto la tesi difensiva fondata sulla diagnosi al ricorrente di un forte stato d’ansia con crisi di panico è illogica.
Questa situazione patologica, riscontrata a far data dal 2011, ha inciso sulla condotta omissiva, in quanto aveva fatto perdere al ricorrente la lucidità necessaria incorrendo in condotte imperite e scevre da determinazione dolosa.
2.1.4. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 62-bis cod. pen. e alla mancata applicazione della riduzione della pena per le attenuanti generiche.
In primo grado il Giudice dell’udienza preliminare aveva riconosciuto le attenuanti generiche per il comportamento altamente collaborativo e la resipiscenza dimostrate, apportando la riduzione al solo reato di cui al capo N), ritenuto più grave.
La Corte di appello ha riconosciuto le attenuanti generiche anche ai restanti reati, ma in modo illogico e contraddittorio non operava la medesima riduzione per i capi Q), R) e S), nonché per i reati di cui ai capi 2), 3), 4), 5), 6), 7) e già giudicati con sentenza definitiva in altro procedimento e avvinti dal vincolo della continuazione con quelli oggetto del presente procedimento (nel quale erano state valorizzate le medesime circostanze), pur trattandosi di circostanze afferenti alla personalità dell’imputato e di carattere soggettivo.
2.1.5. Vizio di motivazione in ordine alle modalità di calcolo degli aumenti di pena per la continuazione esterna con i reati di peculato accertati con sentenza definitiva.
La Corte di appello, nel ridurre gli aumenti di pena per i reati a titolo d continuazione (secondo l’entità delle singole appropriazioni), inspiegabilmente ha confermato la pena inflitta dal primo giudice per quelli oggetto della sentenza definitiva, che era stata disposta in modo forfettario. Questa scelta ha portato ad un calcolo della pena più gravoso per l’imputato.
2.1.6. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 81 e 133 cod. pen. e alla determinazione della pena per la continuazione per i reati satellite di cui ai capi Q), R) e S), nonché per i reati di cui ai capi 2), 3), 4), 5), 6), 7) e accertati con sentenza definitiva.
Per tali aumenti di pena in primo grado il Giudice dell’udienza preliminare non esponeva alcuna motivazione.
Tale punto è stato oggetto di appello della difesa.
Tuttavia, come già visto, la Corte di appello non ha operato alcuna riduzione di pena per tali reati, limitandosi a definire con motivazione apparente la pena “congruamente motivata”.
In tal modo la Corte di appello è incorsa in un difetto di motivazione, secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite n. 47127 del 2021.
2.1.7 Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 185 cod. pen. e al riconoscimento in favore delle parti civili del danno eziologicamente connesso con la specifica condotta contestata.
La Corte di appello ha confermato la sentenza di primo grado quanto alla provvisionale e alla rimessione delle parti davanti al giudice civile per la quantificazione del danno.
I danni riconosciuti alle parti civili derivavano dalla gestione della loro società RAGIONE_SOCIALE (la stessa aveva maturato debiti verso banche e l’Inps, pagati dalle parti civili) ma non dalle condotte di peculato contestate al ricorrente.
Andava inoltre considerato che tale società era stata oggetto di sequestro nel febbraio 2007 e con sentenza del gennaio 2008 era stata disposta la confisca del suo patrimonio sociale e dei beni aziendali. Il che impediva ogni ulteriore proseguimento dell’attività sociale da porsi in relazione con l’ipotizzato danno e la responsabilità dei fideiussori e soci con le loro disponibilità.
2.2. Ricorso di Leuci.
2.2.1. Violazione di legge in relazione all’art. 581, comma 1-bis cod. proc. pen. e in ogni caso all’art. 581 cod. proc. pen. come interpretato dalla sentenza delle Sezioni Unite COGNOME con riferimento alla ritenuta aspecificità estrinseca dei primi due motivi di appello.
I due motivi di appello non erano inammissibili, in quanto erano stati enucleati, a norma dell’art. 581, comma 1-bis cod. proc. pen., i capi e i punti oggetto di gravame e in ogni caso si riferivano alle risultanze del giudizio abbreviato (le indagini tecniche che secondo il primo giudice attestavano l’inesistenza delle prestazioni effettuate), al loro contenuto e interpretazione, così da consentire di pervenire a conclusioni diverse.
2.2.2. Vizio di motivazione in ordine alla sussistenza delle condotte di peculato, con riferimento al contributo causale offerto dalla ricorrente.
Entrambe le sentenze di merito, nonostante la impugnazione sul punto della ricorrente, si soffermano esclusivamente sull’elemento soggettivo del reato di peculato e sulla condotta appropriativa realizzata dal Lipani, senza indicare quale sia stato il contributo causale – materiale o morale – offerto dalla ricorrente.
Era infatti il COGNOME ad accreditare in modo autonomo le somme sul conto corrente della ricorrente, non risultando alcun coinvolgimento della predetta neppure morale o un’attività volta ad occultare i versamenti.
Risulta provato che la ricorrente emetteva le fatture solo dopo aver ricevuto i versamenti e non aveva mai sollecitato per ottenere le somme incriminate.
Difetta pertanto la valutazione della sussistenza dell’ipotizzato concorso nel reato.
2.2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 42 e 110 cod. pen. e alla consapevolezza della ricorrente della provenienza illecita delle somme ricevute.
Con l’appello la difesa aveva contestato la consapevolezza della ricorrente della provenienza delle somme ricevute, mentre la Corte di appello ha soltanto motivato sulla assenza di attività lavorativa.
Non poteva desumersi la provenienza indebita di tali somme posto che COGNOME poteva vantare legittime pretese che giustificavano i prelievi e il successivo loro trasferimento sui conti della ricorrente.
Dalle intercettazioni, richiamate dalla sentenza impugnata, emergono elementi a sostegno della tesi difensiva ovvero che lei non fosse consapevole della provenienza illecita delle somme, che era stata da lei scoperta solo il 15 ottobre 2019.
2.2.4. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 114 cod. pen. e al contributo di minore importanza.
La motivazione della Corte di appello sul diniego della attenuante ex art. 114 cod. pen. si fonda su un errore di diritto, avendo ritenuto ostativa al suo riconoscimento la circostanza che la ricorrente avesse avuto un ruolo fondamentale nel rendere più difficoltoso l’accertamento del reato, ovvero valorizzando un post factum (la emissione delle fatture).
Esaminata la sola condotta appropriativa, la condotta della ricorrente era certamente di minima importanza (non ha contribuito materialmente ai prelevamenti e difetta un contributo anche soltanto morale).
In modo contraddittorio, la Corte di appello tai fini della pena fha riconosciuto alla ricorrente un ruolo gregario, non intraneo ai meccanismi giuridici congegnati dal coniuge per il progetto criminoso; parimenti nel dimostrare l’insussistenza dell’attività lavorativa, la sentenza impugnata descrive un ruolo marginale della ricorrente.
2.2.5. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione in relazione all’art. 62-bis cod. pen. e alla mancata applicazione della riduzione della pena per le attenuanti generiche.
In primo grado il Giudice dell’udienza preliminare aveva riconosciuto le attenuanti generiche per profili di natura soggettiva, apportando la riduzione al solo reato di cui al capo K), ritenuto più grave.
La Corte di appello ha riconosciuto le attenuanti generiche anche ai restanti reati, ma in modo illogico e contraddittorio non operava la riduzione per i reati di cui ai capi 9) e 10), accertati con sentenza definitiva in altro procedimento e avvinti dal vincolo della continuazione con quelli oggetto del presente procedimento (nel quale erano state valorizzate le medesime circostanze), pur trattandosi di circostanze afferenti alla personalità dell’imputata e di carattere soggettivo.
2.2.6. Vizio di motivazione in ordine alle modalità di calcolo degli aumenti di pena per la continuazione esterna con il reato di peculato di cui al capo 9), accertato con sentenza definitiva.
La Corte di appello, nel ridurre gli aumenti di pena per i reati a titolo di continuazione (secondo l’entità delle singole appropriazioni), inspiegabilmente confermava la pena inflitta dal primo giudice per il reato di cui al capo 9), oggetto della sentenza definitiva, che era stata disposta in modo forfettario. Questa scelta ha portato ad un calcolo della pena più gravoso per l’imputata.
2.2.7. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 81 e 133 cod. pen. e alla determinazione della pena per la continuazione per i reati satellite di cui ai capi 9) e 10), accertati con sentenza definitiva.
Per tali aumenti di pena in primo grado il Giudice dell’udienza preliminare non esponeva alcuna motivazione.
Tale punto è stato oggetto di appello della difesa.
Tuttavia, come già visto, la Corte di appello ha fatto ricorso a modalità diverse per il calcolo dell’aumento di pena, senza motivare.
In tal modo la Corte di appello è incorsa in un difetto di motivazione, secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite n. 47127 del 2021.
2.2.8. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 185 cod. pen. e al riconoscimento in favore delle parti civili del danno eziologicamente connesso con la specifica condotta contestata.
La Corte di appello confermava la sentenza di primo grado quanto alla provvisionale e alla rimessione delle parti davanti al giudice civile per la quantificazione del danno.
I danni riconosciuti alle parti civili derivavano dalla gestione della loro società RAGIONE_SOCIALE (la stessa aveva maturato debiti verso banche e l’Inps, pagati dalle parti civili) ma non dalle condotte di peculato contestate alla ricorrente.
Andava inoltre considerato che tale società era stata oggetto di sequestro nel febbraio 2007 e con sentenza del gennaio 2008 era stata disposta la confisca del suo patrimonio sociale e dei beni aziendali. Il che impediva ogni ulteriore proseguimento dell’attività sociale da porsi in relazione con l’ipotizzato danno ela -responsabilità dei fideiussori e soci con le loro disponibilità.
Disposta la trattazione scritta del procedimento, in mancanza di richiesta nei termini ivi previsti di discussione orale, il Procuratore generale e le parti privat hanno depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.
All’udienza camerale del 14 gennaio 2015, fissata per la decisione del ricorso, era disposto il rinvio all’odierna udienza, per difetto dell’avviso alle part del deposito della requisitoria del Procuratore generale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
i ricorsi sono entrambi inammissibili per le ragioni di seguito illustrate.
2. Ricorso di Lipani.
2.1. Con il primo motivo la difesa contesta la configurabilità del reato di peculato in relazione alle condotte appropriative contestate all’imputato.
Il motivo è manifestamente infondato e anche aspecifico.
Già questa Corte ha più volte affermato che il peculato si consuma nel momento in cui ha luogo l’appropriazione della “res” o del danaro da parte dell’agente, la quale, anche quando non arreca, per qualsiasi motivo, danno patrimoniale alla P.A., è comunque lesiva dell’ulteriore interesse tutelato dall’art. 314 cod. pen. che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento del suo operato (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009 COGNOME, Rv. 244190, fattispecie nella quale il ricorrente, concessionario di un pubblico servizio, aveva sostenuto di aver trattenuto le somme incassate per conto dell’ente, per soddisfare un proprio diritto di credito, vantato nei confronti di quest’ultimo, ricorrendo a una sorta di autoliquidazione).
E’ infatti principio consolidato che non esclude il reato di peculato la circostanza che il pubblico ufficiale si appropri di somme di danaro pubblico in compensazione di crediti vantati nei confronti della amministrazione di appartenenza in quanto, salvi i casi espressamente contemplati dalla legge, non è previsto il riconoscimento dell’autotutela per la realizzazione dei propri diritti (t tante, Sez. 6, n. 47003 del 11/07/2017, Rv. 271508, in applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la qualificazione come peculato della condotta appropriativa di somme di denaro, depositate sul conto corrente intestato ad una persona interdetta, posta in essere dal suo tutore in compensazione di pregressi crediti vantati dal predetto per il suo mantenimento).
La Suprema Corte (Sez. 6, n. 33472 del 22/06/2011, Rv. 250904) ha conseguentemente evidenziato che l’amministratore di beni confiscati, al pari del commissario liquidatore (Sez. 6, n. 5576 del 26/03/1998, Rv. 2105483),
commette peculato nella autoliquidazione ed auto assegnazione di denaro pertinente a beni di cui abbia la disponibilità per motivi di ufficio non spettandogli un tale potere; l’assegnazione va, infatti, disposta sulla base di un provvedimento dell’autorità e non è prevista alcuna forma di autotutela. Non è, dunque, contemplato in capo all’amministratore alcun potere di autoliquidazione del compenso spettantegli per l’attività svolta e, a maggior ragione, dell’acconto su tale compenso.
Sussiste, ovviamente, il diritto soggettivo dell’amministratore a ricevere un compenso per l’attività svolta, ma la determinazione del suo ammontare è di competenza dell’autorità, che la esercita secondo le modalità previste dalla legge (in tal senso, da ultimo, Sez. 6, n. 1865 del 29/09/2020, dep. 2021, Rv. 280343).
Questi principi sono stati ribaditi anche di recente dal giudice di legittimità (Sez. 6, n. 16490 del 12/01/2022).
In ogni caso, la censura del ricorrente è anche aspecifica, posto che la Corte di appello ha rilevato che la tesi difensiva circa la destinazione delle somme prelevate fosse del tutto priva di dimostrazione e anche smentita dalla condotta riparatoria degli ammanchi.
2.2. Parimenti manifestamente infondato e aspecifico è anche il secondo motivo, volto a sostenere l’applicazione dell’art. 51 cod. pen. in relazione ai capi Q), R) e S).
Da tempo si è affermato che il diritto di difesa comporta, oltre a facoltà di vario genere e ad obblighi di informazione, la non assoggettabilità ad atti di costrizione tendenti a provocare un’autoincriminazione, ma non anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva; cioè il diritto di difesa non comprende anche il diritto d arrecare offese ulteriori (Sez. 5, n. 6650 del 22/01/1992, Rv. 190500, nella specie la Suprema Corte ha ritenuto che ricorresse il reato di bancarotta fraudolenta documentale anche se le violazioni o irregolarità contabili erano state commesse per occultare altri fatti costituenti reato).
Il precedente citato dal ricorrente relativo ai reati di falso documentale risulta del tutto isolato nel panorama giurisprudenziale che ha da tempo adottato un indirizzo di segno diverso, evidenziando come il diritto di non esporre circostanze auto incriminanti sia recessivo ove si tratti di atti la cui rilevanza documentale non può essere sacrificata all’interesse singolo, sia pure di tipo difensivo (tra tante, Sez. 5, n. 23672 del 19/04/2021, Rv. 281406).
Rispetto a tali argomentazioni, fatte proprie dalla sentenza impugnata, il ricorrente si è limitato a reiterare in modo meramente oppositivo e generico la tesi difensiva, senza confrontarsi costruttivamente con la diversa esegesi giuridica consolidata nel panorama giurisprudenziale di legittimità.
2.3. Il terzo motivo sulla sussistenza del dolo in relazione ai capi da Q), R) e S) è manifestamente infondato.
Secondo la tesi difensiva, dal 2011 a causa dei contrasti con l’allora Presidente della Sezione delle misure di prevenzione di Palermo, che non gli liquidava i compensi, il ricorrente sarebbe caduto in uno stato di ansia che sarebbe all’origine delle condotte omissive contestate ai suddetti capi.
Ebbene, la Corte di appello, con motivazione non manifestamente illogica, ha rilevato come tale tesi fosse smentita dalla strategia criminosa congegnata e eseguita dal ricorrente negli anni e viepiù contraddetta dalla stessa difesa nel giustificare le condotte omissive con l’invocata esimente ex art. 51 cod. pen.
2.4. Il quarto motivo sulla riduzione della pena per le attenuanti generiche è manifestamente infondato e aspecifico.
Va premesso che il ricorrente aveva sostenuto nell’appello che non era chiaro dalla motivazione della sentenza di primo grado se il giudice avesse applicato la riduzione ex art. 62-bis cod. pen. a tutti i reati in continuazione, sostenendo che vi erano elementi per ritenere che ciò non fosse avvenuto.
La Corte di appello, nel rivedere complessivamente la pena stabilita dal primo giudice, ha affrontato questa questione, ritenendo che per i capi Q), R) e S) dovesse essere confermato, in quanto congruo, l’aumento di un mese di reclusione, in quanto già “al netto” della riduzione operata per le attenuanti generiche.
Va rammentato che è principio pacifico che il giudice del gravame, in forza dei poteri di piena cognizione e valutazione del fatto e conformemente al principio di integrazione tra le sentenze di primo e secondo grado, ben può integrare la motivazione della sentenza impugnata che non abbia specificato il calcolo effettuato per giungere alla pena finale, trattandosi di lacuna motivazionale che non dà luogo ad alcuna nullità (tra tante, Sez. 3, n. 9695 del 09/01/2024, COGNOME, Rv. 286029, in cui il primo giudice non aveva esplicitato la pena base e l’entità della diminuzione su di essa operata per effetto del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche).
Quanto poi ai reati accertati con sentenza definitiva, la questione posta dal ricorrente è priva di ogni fondamento giuridico, posto che l’accertamento del vincolo della continuazione tra il reato giudicato ed altro precedente per il quale è intervenuta condanna con sentenza irrevocabile richiede al giudice la sola applicazione dell’aumento dovuto per la continuazione, mentre non possono essere applicate le circostanze attenuanti, il cui riconoscimento richiede l’esame dell’intera condotta antigiuridica del reo, ivi inclusa quella già considerata dalprecedente giudicato, ostandovi la “res iudicata” (Sez. 5, n. 2907 del 23/10/203, dep. 2014, Rv. 258462).
Principio, questo, ribadito dalla decisione delle Sezioni Unite di questa Corte che, decidendo sulla differente fattispecie dell’applicazione della disciplina del reato continuato fra reati giudicabili, ha ribadito che «il principio dell immodificabilità del giudicato impone al giudice della cognizione chiamato ad applicare la disciplina del reato continuato tra reati giudicabili e reati già giudica di tener conto di quanto irrevocabilmente statuito» (vedi Sez. U., n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269).
2.5. Generico è il motivo relativo agli aumenti di pena per i reati di peculato, separatamente giudicati.
La Corte di appello ha infatti ritenuto che l’aumento di pena per tali reati fosse stato “congruamente” individuato in primo grado, rispetto ai criteri applicati per determinare la pena per i reati di peculato sub iudice. In tale prospettiva ha posto in evidenza come il quantum di pena – quattro mesi di reclusione – rispecchiasse un aumento “simile” a quelli effettuati per i reati di peculato in sede di appello.
Le censure sul punto versate nel ricorso sono pertanto generiche rispetto alla valutazione di congruità, effettuata dalla Corte di appello.
2.6. Le critiche relative alla motivazione dei singoli aumenti di pena per la continuazione sono manifestamente infondate e aspecifiche.
In particolare, per i reati di omissione di atti di ufficio l’aumento di mesi uno di reclusione per ciascun reato era ritenuto dalla Corte di appello “congruo”.
Come già più volte affermato (per tutte, Sez. 6, n. 44428 del 05/10/2022, Rv. 284005), la sentenza delle Sezioni Unite, invocata dal ricorrente a sostegno del motivo di impugnazione (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269), pur rilevando come il peso in concreto assegnato dal giudice a ciascun reato satellite concorra a determinare un razionale trattamento sanzionatorio con la conseguente necessità che siano palesati gli elementi che hanno condotto al risultano cui si è pervenuti, ha tuttavia precisato che l’obbligo della motivazione non può essere astrattamente circoscritto secondo canoni predeterminati, non potendosi ritenere che il vizio renda nulla la decisione sul punto allorché la pena irrogata sia stata determinata in prossimità del minimo piuttosto che al massimo edittale, risultando principio ormai consolidato che il mero richiamo ai “criteri di cui all’art. 133 cod. pen.” o alla “congruità” della pena deve ritenersi motivazione adeguata per dimostrare l’intervenuta ponderazione della pena rispetto all’entità del fatto.
Nel caso in esame, l’entità degli aumenti di pena per i reati segnalati dal ricorrente era tale da non esigere una motivazione ulteriore da quella adottata dal Giudice dell’appello.
Per i reati di peculato già giudicati separatamente, come si è detto, la Corte di appello ha rinviato ai criteri adottati per stabilire l’aumento di pena per gl
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analoghi reati sottoposti al suo vaglio – criteri che risultano puntualmente esplicitati a pag. 15 della sentenza impugnata.
2.7. Manifestamente infondato e in parte precluso è il motivo relativo ai danni riconosciuti alle parti civili in relazione alla società RAGIONE_SOCIALE
La Corte di appello ha adeguatamente risposto all’analoga censura sollevata dalla difesa, evidenziando come per tale società il danno sia stato cagionato dall’appropriazione di somme che andavano destinate alla soddisfazione di debiti la cui permanenza e ingigantinnento costituiva conseguenza diretta delle sottrazioni patrimoniali.
Quanto alle circostanze sulle vicende relative alla suddetta società riportate nel motivo, va osservato che le stesse non sono state sottoposte al giudice di merito con il gravame per contrastare la condanna civile e pertanto sono precluse in questa sede.
3. Ricorso di Leuci.
3.1. Il primo motivo con cui si contesta la ritenuta aspecificità estrinseca dei primi due motivi di appello è manifestannento infondato e aspecifico.
3.1.1. Le Sezioni Unite hanno affermato il principio, secondo cui l’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 268822).
In altri termini, la specificità, che deve caratterizzare i motivi di appell seppur valutata alla luce del principio del “favor impugnationis”, impone di contrapporre alle ragioni poste a fondamento della decisione impugnata argomentazioni che attengano agli specifici passaggi della motivazione della sentenza ovvero concreti elementi fattuali pertinenti a quelli considerati dal primo giudice. Pertanto, l’appellante non può quindi limitarsi a confutare semplicemente il “decisum” del primo giudice con considerazioni generiche ed astratte.
Ancora, di recente questa Corte di legittimità ha ribadito che il giudice d’appello, a seguito della riforma dell’art. 581 cod. proc. pen. da parte della legge 23 giugno 2017, n. 103, può dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione solo quando i motivi difettino di specificità o non siano validamente argomentati o quando essi non affrontino la motivazione spesa nella sentenza impugnata, non quando siano ritenuti inidonei, anche manifestamente, a confutare l’appùrato
motivazionale (Sez. 4, n. 36533 del 15/09/2021, Rv. 281978; Sez. 5, n. 11942 del 25/02/2020, Rv. 278859; Sez. 5, n. 34504 del 25/5/2018, Rv. 273778).
L’art. 581 cod. proc. pen., così come novellato dall’art. 1, comma 55, della legge 23 giugno 2017 n. 103 (a decorrere dal 3 agosto 2017) prevede, a pena di inammissibilità, che, nell’atto di gravame, l’appellante indichi, con enunciazione specifica, i capi ed i punti della decisione che intende impugnare (oltre che i suoi estremi identificativi), le richieste avanzate al giudice dell’appello, ed i motivi fatto e diritto che sostengono tali richieste.
3.1.2. Tanto premesso, correttamente la Corte di appello ha definito i motivi di appello proposti dalla ricorrente privi di specificità là dove miravano a sostenere la effettività delle prestazioni professionali prestate in favore delle vari amministrazioni giudiziarie e la buona fede della ricorrente.
La ricorrente si limitava infatti con tali motivi a ribadire la tesi difensiva del effettività dell’attività espletata (definendo “incontestato” che la ricorrente avesse effettivamente svolto gli incarichi professionali a lei affidati dal marito) e del buona fede nell’essersi affidata alle competenze del marito quanto alle formalità della sua nomina (quindi sul presupposto che le mansioni fossero state effettivamente svolte), non confrontandosi con le prove raccolte in giudizio (quali in particolare le dichiarazioni della collaboratrice di studio), ma proponendo una aspecifica valutazione del compendio probatorio.
3.1.3. In ogni caso, la Corte territoriale ha in ogni caso esaminato le doglianze difensive alle pagg. 18 e 19 della sentenza impugnata, risultando pertanto il presente motivo anche generico.
3.2. Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per le condotte di peculato, con riferimento al contributo causale offerto alla loro commissione. Si tratta di censura aspecifica e meramente reiterativa dei motivi di appello.
Invero, la ricorrente aveva sostenuto con il gravame che non era stato indicato dal Giudice dell’udienza preliminare il suo contributo causale – materiale o morale – alla commissione del reato.
Peraltro, tale assunto era altrettanto aspecifico rispetto all’accertamento della sua responsabilità effettuato in primo grado e condiviso dalla Corte di appello, secondo cui i coniugi COGNOME e COGNOME avevano agito di concerto tra loro per portare a termine le operazioni appropriative: la ricorrente, infatti, non si era limitata a ricevere ex post negli anni i bonifici sul suo conto per attività mai prestata (in tal senso, deponeva la causale dei versamenti riferita a questa inesistente attività1 – ) provenienti da conti delle società amministrate dal marito, ma COGNOME eva, coerentemente al progetto criminoso, condiviso da entrambi, emesso le relative fatture (i bonifici recavano la causale “saldo fattura”) e rendicontato la simulata
attività professionale nelle dichiarazioni dei redditi, collaborando quindi con la messa a disposizione del proprio conto e con la condotta di fatturazione alla realizzazione della fattispecie appropriativa. Le evidenze probatorie puntualmente evidenziate dalla Corte di appello – dimostravano come la ricorrente avesse collaborato consapevolmente all’attività appropriativa realizzata dal COGNOME (in tal senso le conversazioni riportate in motivazione). Ancorché questa attività contabile 0A -successiva ai versamenti, la collaborazione della ricorrente veniva a rafforzare il proposito criminale del Lipani sulla riuscita della operazione appropriativa.
3.3. Aspecifico e in parte anche precluso è il motivo con cui la ricorrente deduce il vizio di motivazione quanto alla sua consapevolezza della provenienza illecita delle somme ricevute.
La Corte di appello ha infatti dimostrato, attraverso il puntuale richiamo di evidenze probatorie, la consapevolezza della ricorrente nel prestarsi a fatturare e rendicontare fiscalmente un’attività mai espletata a favore di aziende amministrate dal marito (cfr. pag. 19 della sentenza impugnata, quanto alla richiesta fatta al marito per sapere a quale azienda sequestrata dovesse intestare la fattura, ritenendo il pagamento ricevuto il “solito” bonifico; quanto alla conoscenza della gestione privatistica delle società amministrate dal marito; quanto all’ammontare ingiustificato delle cifre corrisposte).
Tali circostanze venivano quindi a superare la tesi difensiva in questa sede meramente riproposta.
Devono infine ritenersi precluse le censure che mirano ad una rilettura delle evidenze probatorie, trattandosi di critica notoriamente estranea al sindacato di legittimità.
3.4. Manifestamente infondato è il quarto motivo in relazione all’art. 114 cod. pen. e al contributo di minore importanza.
La fatturazione effettuata dalla ricorrente, come si è visto, rivestiva un ruolo decisivo nella perpetrazione del reato, diminuendo le possibilità di esporsi al rischio di far apparire come arbitrarie le costanti e continue apprensioni illecite di denaro da parte del marito COGNOME
Né illogico, in quanto per nulla contraddittorio, è con tale assunto il riconoscimento di un ruolo gregario rispetto a quello del marito.
Va ribadito che, ai fini dell’integrazione della circostanza attenuante della minima partecipazione di cui all’art. 114 cod. pen., non è sufficiente una minore efficacia causale dell’attività prestata da un correo rispetto a quella realizzata dagli altri, in quanto è necessario che il contributo dato si sia concretizzat nell’assunzione di un ruolo di rilevanza del tutto marginale, ossia di efficacia causale così lieve rispetto all’evento da risultare trascurabile nell’economia
generale dell'”iter” criminoso (tra tante, Sez. 6, n. 34539 del 23/06/2021, Rv. 281857).
3.5. Quanto ai restanti motivi, si rinvia, onde evitare inutili ripetizioni, al osservazioni in termini di inammissibilità già sopra avanzate dal Collegio per le analoghe censure presentate da Lipani.
I motivi avanzati dalla ricorrente propongono invero le medesime questioni già esaminate.
Così il motivo sulla mancata applicazione della riduzione della pena per le attenuanti generiche per i reati di cui ai capi 9) e 10), accertati con sentenza definitiva in altro procedimento.
Così i motivi sulle modalità di calcolo degli aumenti di pena per la continuazione esterna con il reato di peculato, accertato con sentenza definitiva, e sul difetto di motivazione per la continuazione per i reati satellite di cui ai cap 9) e 10), accertati con sentenza definitiva. La Corte di appello ha infatti definito “congruo” l’aumento a titolo di continuazione per i reati già giudicati (gli aumenti di pena era stati già separatamente individuati in primo grado); quanto ai reati di peculato la Corte di appello ha indicato i criteri di determinazione della pena per gli analoghi reati di peculato sub iudice rispetto ai quali ha ritenuto “congruo” quello individuato per il reato già giudicato. Anche in tal caso la censura è generica rispetto alla ritenuta congruità dell’aumento.
Così, infine, il motivo sulle statuizioni civili.
Per le considerazioni su esposte, dunque, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di euro 3.000.
La rilevata inammissibilità dei ricorsi non consente di rilevare la eventuale prescrizione dei reati, maturata successivamente alla decisione impugnata.
Stante l’esito del presente giudizio, i ricorrenti devono essere altresì condannati alla rifusione delle spese sostenute nel grado in favore delle parti civili costituite, liquidate come indicato nel dipostivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento GLYPH I spese processuali e ciascuno della somma di euro tremila in favore della assa delle ammende.
Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado di giudizio dalle parti civili NOMECOGNOME
RAGIONE_SOCIALE NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, che liquida in euro 2.000
ciascuna, oltre a essbri di legge.
Così decis il 26/02/2025.
Il Consi liere
estensore
Ersil
(-
–
e
SEZIONE VI PENALE
19 MAG
2025
a Calva e