Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 10377 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 10377 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 17/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOMECOGNOME nata a San Pietro in Guarano il 23/6/1955
avverso la sentenza del 17/06/2024 emessa dalla Corte di appello di Milano visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione del consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto; udito l’Avvocato NOME COGNOME il quale chiede l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La ricorrente impugna la sentenza della Corte di appello di Milano che confermava la condanna per il delitto di peculato, commesso mediante l’appropriazione della somma di €3.800,00, di cui la ricorrente aveva la disponibilità in qualità di assistente amministrativa, titolare ad interim delle funzioni di Direttore generale dei servizi amministrativi (di seguito DGSA) presso
l’Istituto scolastico “Fellini”.
Occorre premettere che la sentenza impugnata veniva emessa all’esito di un articolato iter processuale così sintetizzabile:
con sentenza del 16/2/2022, la Corte di appello di Milano confermava la sentenza di condanna emessa in primo grado, all’esito di giudizio abbreviato;
con sentenza resa da questa Sezione, n.35635 del 2022, veniva annullata la sentenza di appello per vizio di motivazione, demandandosi al giudice del rinvio una serie di approfondimenti in ordine agli elementi costitutivi del reato contestato;
con sentenza del 16/5/2022, la Corte di appello di Milano assolveva l’imputata escludendo l’elemento soggettivo del reato;
a seguito di ricorso per cassazione proposto dal Procuratore generale, la seconda Sezione, con sentenza n. 46223 del 2023, annullava con rinvio la sentenza di assoluzione;
la Corte d’appello di Milano, ritenendo che l’annullamento con rinvio aveva ad oggetto esclusivamente l’accertamento dell’elemento soggettivo, confermava la condanna riconoscendo la sussistenza del dolo.
Avverso quest’ultima pronuncia, è stato proposto ricorso per cassazione, articolato in nove motivi di impugnazione, preceduti dalla richiesta di derubricazione del reato di peculato nella nuova fattispecie di indebita destinazione, introdotta all’art. 314-bis cod. pen. dal d.l. 4 luglio 2024, n.92, applicabile al caso di specie in quanto norma sopravvenuta più favorevole.
2.1. Con il primo motivo, si deduce la violazione dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen., sul presupposto che erroneamente la Corte di appello avrebbe ritenuto che fosse devoluto al giudice del rinvio il solo accertamento dell’elemento soggettivo del reato.
Sostiene la ricorrente che, per effetto dell’annullamento disposto per vizio della motivazione, il giudice del rinvio era investito in toto dell’esame originario dei motivi di appello, non potendo limitare il giudizio al solo profilo rilevato nella sentenza rescindente.
2.2. Con il secondo e terzo motivo, deduce la violazione dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen., nonché vizio della motivazione relativamente al mancato compimento degli accertamenti indicati nella prima sentenza rescindente (Sez.6, n.35635 del 2022), con specifico riferimento alla verifica del requisito della “autonoma disponibilità” del denaro in capo alla ricorrente, specie con riferimento al fatto che i mandati di pagamento richiedevano la doppia sottoscrizione da parte sia del DGSA che del Dirigente scolastico. A tal -iguardo, la Corte di appello non
aveva in alcun modo considerato che il Dirigente scolastico aveva sottoscritto e condiviso il dispositivo di pagamento; che solo con la sottoscrizione di quest’ultimo era possibile disporre del denaro; che l’imputata non aveva posto in essere alcuna condotta idonea a trarre in errore il dirigente.
2.3. Con il quarto motivo, si deduce la violazione degli artt.314 e 323 cod. pen., avendo la Corte di appello omesso di valutare la riconducibilità del fatto all’ipotesi dell’abuso d’ufficio, non considerando che l’imputata non si era appropriata di denaro rispetto al quale non poteva vantare alcun diritto, bensì aveva esclusivamente anticipato la riscossione di somme che, se pur non ancora esigibili, sarebbero state in ogni caso a lei dovute all’esito del riconoscimento del premio di produttività.
2.4. Con il quinto motivo, deduce la violazione dell’art. 42, secondo comma, cod. pen. e il vizio di motivazione, relativamente alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo. La Corte di appello aveva pretermesso di considerare che l’imputata avrebbe agito in assoluta buona fede e confidando nel controllo da parte del dirigente amministrativo. Peraltro, le somme oggetto dei mandati di pagamento erano frutto di un’anticipazione rispetto all’erogazione del premio di produttività al quale l’imputata avrebbe avuto diritto, sia pur nel mese di settembre 2018. L’imputata sarebbe incorsa in un errore di fatto su legge diversa da quella penale, non considerando – anche in conseguenza della mancanza di una specifica preparazione in materia – l’illegittimità della liquidazione di un credito non ancora esigibile. A supporto della tesi volta ad escludere la sussistenza del dolo, la difesa della ricorrente sottolineava l’erroneità dell’aver affermato che l’imputata aveva le conoscenze professionali proprie del DSGA, posto che quest’ultima aveva la qualifica di mera assistente amministrativa, facente funzione di DSGA solo per sopperire all’assenza di un soggetto in possesso di tale qualifica.
2.5. Con il sesto motivo, si deduce la violazione dell’art. 314 cod. pen., nonchè degli artt.3, 25 e 27 Cost., sul presupposto che: la condotta realizzata sarebbe priva di offensività.
2.6. Con il settimo e ottavo motivo si censura il mancato riconoscimento delle attenuanti di cui agli artt.323-bis cod. pen. e 62, n. 4, cod. pen., sottolineandosi come il fatto doveva considerarsi di particolare tenuità, tenendo conto sia dell’entità del danno, che della condotta dell’imputata che, non appena avvertita dell’illegittimità della liquidazione e prima ancora che prendesse avvio il procedimento penale, provvedeva immediatamente alla restituzione della somma autoliquidatasi. A ciò doveva aggiungersi il legittimo affidamento fatto dall’imputata in relazione al controllo non solo del dirigente scolastico, ma anche del tutor che le era stato affiancato proprio in considerazione della sua insufficiente
conoscenza dei servizi che le erano stati affidati ad interim.
2.7. Con il nono motivo, deduce – in correlazione alla derubricazione del reato nell’ipotesi attualmente prevista dall’art. 314-bis cod. pen. – il vizio di motivazione relativamente al riconoscimento della particolare tenuità del fatto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
L’esame del ricorso pone, in via preliminare, l’esigenza di stabilire quale fosse l’oggetto del giudizio di secondo grado svoltosi a seguito dell’annullamento con rinvio.
Secondo l’impostazione difensiva, la Corte di appello era tenuta a valutare tutti i motivi di impugnazione precedentemente proposti, non potendosi limitare alla verifica del solo elemento soggettivo, ma dovendosi occupare anche dell’elemento oggettivo e dell’eventuale qualificabilità della condotta quale abuso d’ufficio.
2.1. Ritiene la Corte che l’oggetto del giudizio svoltosi in sede di rinvio sia stato correttamente circoscritto alla sola rivalutazione dell’elemento soggettivo.
Per giungere a tale conclusione è opportuno richiamare i passaggi che hanno condotto all’annullamento con rinvio, dovendosi dare atto che con la sentenza n.4143 del 16/5/2023, la Corte di appello di Milano assolveva l’imputata ritenendo l’assenza dell’elemento soggettivo del reato.
Avverso tale pronuncia, proponeva ricorso per Cassazione il solo pubblico ministero e questa Corte, accogliendo l’impugnazione, annullava la sentenza della Corte di appello limitatamente al mancato riconoscimento del dolo.
La sentenza rescindente, infatti, premetteva che la sentenza di appello «dava innanzi tutto atto della piena sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, così fornendo adeguata risposta ai dettami della sentenza di annullamento con rinvio che aveva proprio mandato al giudice del successivo grado di esplorare le competenze della Marsico al momento di consumazione dei fatti e la necessaria collaborazione di terzi nell’effettuazione di quei pagamenti. In particolare il giudice di appello, con le osservazioni svolte a pagina 7 della motivazione, precisava che la sottoscrizione dei mandati da parte del Dir:gente scolastico COGNOME non escludeva la riferibilità degli stessi alla ricorrente poiché, detto Dirigente, si limitava ad un controllo meramente formale; analogamente si escludeva ogni decisività nella ricostruzione dei fatti della nomina di un tutor nella persona di COGNOME NOME, trattandosi di collaborazione saltuaria e dipendente dalla
eventuale iniziativa della stessa Marsico».
Dato per consolidato l’accertamento dell’elemento oggettivo del reato, la sentenza rescindente censurava la motivazione relativamente all’elemento soggettivo, segnalando l’erroneo travisamento di plurimi elementi fattuali, immotivatamente ritenuti non rilevanti.
Orbene, considerando che il ricorso in cassazione era stato proposto dalla sola parte pubblica e con specifico riguardo all’esclusione dell’elemento soggettivo e che questa Corte riteneva come definitivamente accertate le questioni concernenti l’elemento oggettivo, ne deriva necessariamente che l’unico aspetto residuo, rimesso al vaglio del giudice del rinvio, era quello relativo alla verifica dell’elemento soggettivo del reato.
2.2. Non conduce a diversa conclusione il richiamo compiuto dalla difesa ai principi giurisprudenziali secondo cui a seguito di annullamento per vizio di motivazione, il giudice del rinvio è chiamato a compiere un nuovo completo esame del materiale probatorio con i medesimi poteri che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata, salve le sole limitazioni previste dalla legge consistenti nel non ripetere il percorso logico già censurato, spettandogli il compito esclusivo di ricostruire i dati di fatto risultanti dalle emergenze processuali e di apprezzare il significato e il valore delle relative fonti di prova (Sez.3, n. 34794 del 19/5/2017, Rv. 271345).
Con l’ulteriore precisazione secondo cui, nel caso di annullamento della sentenza di appello su ricorso del Procuratore (generale, il giudice di rinvio ha l’obbligo di prendere in esame tutti i motivi event.ialmente dedotti dall’imputato contro la sentenza di primo grado, nè può limitarsi a trattare le sole questioni per cui la sentenza è stata annullata, perché sui punti rimasti insoluti egli riassume gli originari poteri di un giudice di appello (Sez.5, n. 836 del 29/10/1992, dep.1993, COGNOME, Rv. 193485).
2.3. La tesi difensiva non tiene conto dell’elaborazione giurisprudenziale in tema di distinzione tra capi e punti della sentenza oggetto di impugnazione e delle conseguenze in termini di formazione di preclusioni sui punti non oggetto di impugnazione.
Sul tema devono richiamarsi i consolidati principi delineati da Sez. U, 19 gennaio 2000, n. 1, COGNOME, Rv. 216239, che ha enunciato le definizioni di capo della sentenza e punto della decisione: il primo «corrisponde ad un atto giuridico completo, tale da poter costituire da solo, anche separatamente, il contenuto di una sentenza»; il secondo «ha una portata più ristretta, in quanto riguarda tutte le statuizioni suscettibili di autonoma consideraziòne necessarie per ottenere una decisione completa su un capo», per cui «ad ogni capo corrisponde una pluralità
di punti della decisione, ognuno dei quali segna un passaggio obbligato per la completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere giurisdizionale del giudice non può considerarsi esaurito se non quando siano stati decisi tutti i punti, che costituiscono i presupposti per la pronuncia finale su ogni reato». Vengono così elencati come punti: l’accertamento del fatto, l’attribuzione di esso all’imputato, la qualificazione giuridica, l’inesistenza di cause di giustificazione, la colpevolezza, e – nel caso di condanna – l’accertamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale di essa e le altre eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio.
La Corte ha poi osservato che la mancata impugnazione di alcuni punti, ne interdice al giudice adito l’esame determinando uriz – – , preclusione, il cui fondamento «non può essere spiegato con l’utilizzazione del concetto di giudicato, riferendosi questo, per sua natura, esclusivamente all’intera regiudicanda, coincidente con lo specifico capo di imputazione, e non già con le componenti di essa, alle quali corrispondono le singole statuizioni, che, pur essendo caratterizzate dalla possibilità di autonoma valutazione, hanno la peculiare funzione di convergere e di essere finalizzate alla pronuncia finale su quella imputazione».
Applicando tali principi al caso di specie, è agevole giungere alla conclusione che la sentenza rescindente si sia pronunciata solo su uno dei punti relativi al capo di imputazione, da individuarsi nell’elemento soggettivo del reato, posto che solo questo era il punto della sentenza di appello oggetto di ricorso e, quindi, sulle restanti questioni, non direttamente conseguenti alla verifica del dolo, si è formata una preclusione processuale che non consentiva né al giudice rescindente, né al giudice del rinvio, di riesaminare l’elemento oggettivo.
Va evidenziato, quindi, che la mancata impugnazione sulla ritenuta responsabilità dell’imputato fa sorgere una preclusione sul tale punto, che non basta a far acquistare alla relativa statuizione l’autorità di cosa giudicata quando per lo stesso capo d’imputazione penda ricorso per cassazione sulla sussistenza di altro punto relativo al medesimo capo, tuttavia si determina una preclusione rispetto al punto non oggetto di impugnazione (si veda Sez. 3, n.7676 10/1/2012, n. 7676, Lleshi, Rv. 251970; Sez.3, n. 36370 del 9/4/2019, COGNOME, Rv. 277168).
2.4. Sulla base di tali argomenti, può affermarsi il principio secondo cui il ricorso per cassazione avverso la sentenza assolutoria di appello, pronunciata sul presupposto dell’assenza dell’elemento soggettivo del reato, proposto limitatamente a tale aspetto, determina una preclusione in ordine all’accertamento dell’elemento oggettivo del reato e alla qualificazione giuridica del fatto, pertanto,
l’eventuale annullamento dovrà riguardare escl Asivamente il punto oggetto di ricorso e il successivo giudizio di rinvio dovrà vertere. esclusivamente sul perimetro delibativo fissato dalla pronuncia rescindente.
Il giudizio di rinvio si configura come una fase ulteriore del giudizio di appello, diretto a completare la sentenza annullata con riguardo ai punti indicati nel giudizio di legittimità, che, eventualmente, potrà riguardare anche altri punti dell’appello non direttamente attinti dalla sentenza rescindente, ma solo nel caso in cui si tratti di aspetti conseguenziali rispetto all’oggetto dell’annullamento e che non siano stati già definiti nei precedenti gradi o fasi del processo.
La delimitazione progressiva dell’oggetto del giudizio, frutto delle preclusioni conseguenti alle decisioni sui diversi punti costituenti il capo della sentenza non oggetto di impugnazione, si coniuga con la disciplina dettata in relazione alla possibilità, per l’imputato, di proporre impugnazione anche a fronte di una sentenza assolutoria.
In base all’art. 607 cod. proc. pen., infatti, l’imputato può ricorrere anche contro la sentenza di proscioglimento, ben potendo avere interesse ad ottenere una formula assolutoria più favorevole, ma in difetto di tale impugnazione, deve ritenersi definitivamente precluso il riesame di quei motivi di appello che non sono stati oggetto di riproposizione con il ricorso in cassazione.
Una volta stabilito che il giudice del rinvio era investito unicamente della rivalutazione in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo e delle conseguenti statuizioni in tema di attenuanti, ne consegue l’inammissibilità del secondo e terzo motivo di ricorso, essendo entrambi relativi al mancato esame dei motivi di appello concernenti l’accertamento del fatto, sotto il profilo dell’autonomia di spesa in capo all’imputata, alla piena disponibilità del denaro, ai rapporti e all’incidenza delle verifiche da parte del tutor e del dirigente scolastico, nonché sulla ricostruzione delle modalità di spesa.
Analoga sorte subisce anche il quarto motivo, concernente l’invocata derubricazione del peculato nel reato di abuso d’ufficio, nelle more abrogato, trattandosi di questione risolta nella sentenza di appello e, per quanto sopra esposto, non oggetto della sentenza rescindente.
Anche il sesto motivo è inammissibile, dovendosi ritenere che il giudizio in merito all’offensività in concreto della condotta accertata è stata già vagliata nelle precedenti fasi.
È, invece, ammissibile, il quinto motivo di ricorso con il quale la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 42 cod. pen., nonché il vizio di motivazione in ordine
alla carenza dell’elemento soggettivo, sostenendosi che l’imputata non avrebbe avuto la certa consapevolezza della natura indebita dell’appropriazione di denaro. La Corte di appello, inoltre, avrebbe erroneamente valutato la circostanza che, nel settembre 2018, l’imputata aveva effettivamente conseguito il premio di produttività, ribadendosi che la condotta appropriativa altro non era che l’anticipata liquidazione del suddetto premio.
Le doglianze difensive non sono condivisibili, (lovendosi dare atto di come la Corte di appello abbia indicato elementi sicuramente dimostrativi della piena consapevolezza da parte dell’imputata della illiceità dell’autoliquidazione di somme di denaro rispetto alle quali, al momento di commissione del fatto, non poteva vantare alcun diritto.
Nella sentenza impugnata, infatti, si dà atto che l’imputata si appropriava della complessiva somma di €3.800,00 mediante quattro mandati di pagamenti, emessi tra aprile e luglio 2018, recanti causali che non trovavano giustificazione nell’attività svolta.
In buona sostanza, la Corte di appello desume la consapevolezza della illiceità della condotta e il dolo generico richiesto dal reato di peculato dal fatto che l’imputata ha chiaramente dimostrato di essere pienamente consapevole della non spettanza delle somme autoliquidatesi, tant’è che per procedere all’appropriazione ha dovuto consapevolmente indicare causali fittizie.
Tra le causali indicate non figurava in alcun modo il riferimento a presunti e futuri crediti che l’imputata avrebbe potuto vantare, il che è stato ritenuto dimostrativo dell’infondatezza della tesi difensiva.
La motivazione resa su tale aspetto è immune da vizi di manifesta illogicità o contraddittorietà, né dà luogo a violazione di legge alcuna, posto che sono stati individuati specifici elementi idonei a dimostrare come l’imputata abbia agito nella piena consapevolezza – incompatibile con la tesi dell’errore scusabile – di essersi liquidata dei compensi per attività non svolta e la riprova di tale consapevolezza è stata correttamente desunta dall’indicazione di causali fittizie.
Il settimo e ottavo motivo, rispettivamente riferiti all’omesso riconoscimento delle attenuanti di cui agli artt. 323-bis e 62, n. 4), cod. pen., sono infondati.
Deve rilevarsi che la Corte di appello, sia pur con motivazione implicita e richiamando quanaro , già affermato dalla sentenza di primo grado in ordine alla gravità della condotta, ha fornito una sufficiente giustificazione rispetto alla non configurabilità delle dedotte attenuanti.
Peraltro, deve anche segnalarsi che l’imputata ha beneficiato delle attenuanti
generiche e di quella prevista dall’art. 62, n. 6) cod. pen., sicchè il complessivo trattamento sanzionatorio è stato adeguatamente commisurato alla gravità dei fatti.
Rimane da valutare la richiesta di derubricazione del reato di peculato nella nuova fattispecie di indebita destinazione di denaro, introdotta dall’art.9, comma 1, di. 4 luglio 2014, n. 92 (convertito in I.n.112 del 2024), che ha inserito l’art. 314-bis cod. pen., in base al quale «fuori dei casi previsti dall’articolo 314, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di leggE dai quali non residuano margini di discrezionalità e intenzionalmente procura a sé n ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni».
Sostiene la difesa che nella nuova fattispecie di reato andrebbero ricondotte tutte le ipotesi di distrazione di denaro o beni mobili originariamente ricomprese nel dettato dell’art. 314 cod. pen.
6.1. Preliminarmente si rileva l’ammissibilità della questione, posto che la norma più favorevole, di cui la difesa sostiene l’applicabilità al caso concreto, è entrata in vigore in epoca successiva rispetto alla pronuncia impugnata e, quindi, la richiesta di derubricazione non poteva essere proposta precedentemente.
Non è condivisibile la tesi sostenuta dalla Procura generale secondo cui la richiesta sarebbe inammissibile, sulla base del principio secondo cui non può trovare applicazione la legge penale modificativa più favorevole entrata in vigore dopo la sentenza della Corte di cassazione che dispone l’annullamento con rinvio ai soli fini della determinazione della pena, ma prima della definizione di questa ulteriore fase del giudizio, poiché i limiti della pronuncia rescindente determinano l’irrevocabilità della decisione impugnata in ordine alla responsabilità penale ed alla qualificazione dei fatti ascritti all’imputato (Sez.U, n. 16208 del 27/3/2014, rv.258654).
Il principio sopra invocato non è applicabile al caso di specie, rispetto al quale l’annullamento con rinvio, demandando alla Corte di appello la verifica in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, non ha comportato il formarsi del giudicato e, conseguentemente, non è di ostacolo all’eventuale applicazione della norma più favorevole, ai sensi dell’art. 2 cod. pen.
6.2. Nel merito, la diversa qualificazione giuridica del fatto è infondata.
Occorre premettere che, per consolidata giurisprudenza, il delitto di peculato
riconnprende sia le condotte di appropriazione che quelle di distrazione, quest’ultime da intendersi riferite all’utilizzo di beni per una funzione diversa rispetto a quella prevista.
In base alla consolidata giurisprudenza di legittimità, integra il reato di peculato la condotta distrattiva del denaro o di altri beni che realizzi la sottrazione degli stessi alla destinazione pubblica e l’utilizzo per il soddisfacimento di interessi privatistici dell’agente, mentre è configurabile l’abuso d’ufficio quanto si sia in presenza di una distrazione a profitto proprio che, tuttavia, si concretizzi in un uso indebito del bene che non ne comporti la perdita e la conseguente lesione patrimoniale a danno dell’ente cui appartiene (Sez.6, n. 19484 del 23/1/2018, COGNOME, Rv. 273784; Sez.6, n. 27910 del 23/9/2020, COGNOME, Rv. 279677).
Rispetto a tali principi, l’introduzione della nuova fattispecie di reato deve essere letta in stretta correlazione con la coeva abrogazione dell’abuso d’ufficio, dovendosi ritenere che l’art. 314-bis cod. pen. assolve alla specifica funzione di conservare la rilevanza penale di quelle specifiche condotte “distrattive” che, in precedenza, non erano ricomprese nel reato di peculato, bensì in quello di abuso d’ufficio.
In tal senso depone, in primo luogo, il dato letterale, posto che l’art. 314-bis cod. pen. esordisce con una clausola di riserva che ne limita l’applicazione “fuori dai casi previsti dall’art. 314” proprio per regolare il concorso apparente tra le fattispecie di reato di peculato e di indebita destinazione di denaro o cose mobili, lasciando immutata la qualificazione in termini di peculato di quelle condotte “distrattive” che la giurisprudenza aveva già collocato nell’alveo del reato di cui all’art 314 cod. pen. La citata clausola di riserva risulterebbe ultronea ove si ritenesse che il nuovo art. 314-bis cod. pen. ricomprenda tutte le ipotesi di “distrazione” di denaro o beni altrui, posto che, in tal caso, il delitto di peculato si applicherebbe alle sole ipotesi di “appropriazione” e, quindi, non vi sarebbe alcuna possibilità di interferenza con la previsione dell’art. 314-bis cod. pen.
È maggiormente coerente con il dato letterale, nonché con la ratio che ha ispirato l’introduzione dell’art.314-bis cod. pen., ritenere che la nuova fattispecie di reato fa salva la rilevanza penale di quelle condotte, in precedenza punibili ai sensi dell’art. 323 cod. pen., connotate dalla violazione del vincolo di destinazione del denaro o di beni mobili che, tuttavia, non si traducono in un impiego incompatibile con finalità pubblicistiche.
La nuova fattispecie di indebita destinazione, dunque, interviene solo sulle condotte di “abuso distrattivo” di fondi pubblici, finora sussunte nell’art. 323 cod. pen., cioè quelle consistenti nel “mero mutamento della destinazione di legge del denaro o delle cose mobili pubbliche”, pur sempre compatibili con i fini istituzionali
dell’ente di appartenenza dell’agente pubblico, pur se comportanti anche un concomitante vantaggio per il privato o l’altrui danno (in tal senso, Sez.6, n. 4520 del 23/10/2024, dep.2025).
Quanto detto consente di affermare che integrano il reato previsto dall’art. 314-bis cod. pen. solo quelle condotte di abuso distrattivo precedentemente inquadrabili nel reato di abuso d’ufficio, mentre, le condotte tipicamente costitutive del delitto di peculato permangono punibili ai sensi dell’art. 314 cod. pen.
6.3. Applicando tali considerazioni al caso di specie, è agevole concludere nel senso della qualificabilità del fatto nel reato di peculato, avendo l’imputata posto in essere una condotta appropriativa di denaro pubblico, non meramente distrattiva e non essendo ipotizzabile alcuna concomitante destinazione ad una funzione diversa da quella prevista e compatibile con finalità pubblicistiche.
A ben vedere, quindi, la fattispecie in esame non involge in alcun modo l’ipotesi del peculato per distrazione, bensì integra una tipica condotta appropriativa, pacificamente riconducibile allo schema tipico del peculato.
Alla luce di tali considerazioni, il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 17 gennaio 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente’