Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 12436 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 12436 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 06/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME StefanoCOGNOME nato a Napoli il 17/02/1962
avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Salerno il 25/01/2024;
udita la relazione svolta dal Consigliere, NOME COGNOME
udito il Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito l’Avv. NOME COGNOME difensore della parte civile RAGIONE_SOCIALE che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito l’Avv. NOME COGNOME difensore di fiducia dell’imputato, che ha concluso insistendo per l’accoglimento dei motivi di ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Salerno ha confermato la sentenza con cui NOME COGNOME in qualità di incaricato di pubblico servizio in quanto amministratore della società RAGIONE_SOCIALE – gestrice dell’attività di gioco lecito in ragione di un contratto stipulato la società concessionaria RAGIONE_SOCIALE– è stato condannato per più fatti di peculato per non aver effettuato in favore della società concessionaria il versamento di una serie di somme ricevute per l’anno 2015 a titolo di Prelievo unico erariale.
Ha proposto ricorso per cassazione articolando tre motivi.
2.1. Con il primo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità e alla qualificazione giuridica dei fatti e, in particolare, alla sussiste della qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio.
Si assume che il soggetto gestore del servizio non sarebbe un agente contabile, ma un mero esecutore di quanto stabilito nei contratti privati stipulati con il concessionario.
2.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione con riguardo all’ammissibilità della costituzione della parte civile e alla prova del danno morale.
Il riferimento è alla costituzione della società concessionaria.
Secondo la Corte d appello, pur essendo la persona offesa “l’Erario”, nondimeno il soggetto concessionario avrebbe subito un danno morale; assume invece l’imputato che, nel caso di specie, il concessionario non potrebbe ritenersi persona offesa e che nell’atto di costituzione di parte civile questi si sarebbe limitato a chiedere il risarcimen dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.
Si aggiunge che, comunque, non vi sarebbe prova del danno morale
2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di norma processuale stabilita a pena di inammissibilità.
La parte civile avrebbe depositato la sua lista in cancelleria il 20.3.2019, prima, cioè, della sua formale costituzione in giudizio, avvenuta in udienza il 20.1.2020; dunque una lista testi inammissibile.
La parte civile, si aggiunge, avrebbe inoltre “ottenuto” la sostituzione di un originario teste nonostante l’opposizione della difesa.
Sono stati presentati motivi aggiunti con cui si chiede la riqualificazione dei fatt e la loro riconduzione alla fattispecie prevista dall’art. 314 bis cod. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso è fondato limitatamente al secondo motivo di ricorso.
Il primo motivo è inammissibile perché manifestamente infondato avendo le Sezioni unite chiarito che integra il delitto di peculato la condotta del gestore dell’esercente degli apparecchi da gioco leciti di cui all’art. 110, sesto e settimo comma, TULPS, che si impossessi dei proventi del gioco, anche per la parte destinata al pagamento del Prelievo Erariale Unico (PREU), non versandoli al concessionario competente, in quanto il denaro incassato appartiene alla pubblica amministrazione sin dal momento della sua riscossione. (Sez. U, n. 6087 del 24/09/2020 – dep. 2021Rubbo, Rv. 280573 in cui in motivazione, la Corte ha precisato che il concessionario
riveste la qualifica formale di “agente contabile” ed è incaricato di pubblico servizio funzione cui partecipano il gestore e l’esercente essendo loro delegate parte delle attività proprie del concessionario).
3. È invece fondato il secondo motivo.
3.1. Secondo la Corte di appello, la società concessionaria, pur non essendo persona offesa del reato per cui si procede, sarebbe nondimeno titolare del diritto al risarcimento del danno morale; si è aggiunto che, in sede di conclusioni, la parte civile si sarebbe limitata a chiedere il risarcimento del danno morale
Si tratta di un assunto che trova riscontro nelle conclusioni della parte civile, allegate al ricorso, in cui si fa effettivamente riferimento al solo danno morale “cagionato dall’essersi vista sottrarre importi che dovevano essere immediatamente trasferiti, con grave nocumento di ordine non patrimoniale e in particolare reputazionale”.
Sulla base di tale presupposto, è stato riconosciuto al soggetto concessionario il diritto al risarcimento del danno morale derivante dal reato commesso dal soggetto gestore.
3.2. Si tratta di un assunto che non può essere condiviso.
Secondo la giurisprudenza civile, l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 cod. civ..) e del danno non patrimoniale (art. 2059 cod. civ.; art. 185 cod. pen.).
La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale e delle Sezioni unite (Corte cost., sent. n. 33 del 2003; Cass., Sez. U, civ. n. 26972 dell’11/11/2008), deve essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche, rispettivamente nel senso: a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica; b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in pej della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di articolata, compiuta ed esaustiva istruttoria, ad un accertamento concreto e non astratto del danno, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.
Nel procedere all’accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) deve distinguere, quanto al danno non patrimoniale, il danno dinamico relazionale causato dalle lesioni da quello morale: deve cioè congiuntamente, ma distintamente, valutare la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del
danno sofferto (cd. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale (destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto). (così testualmente, Sez. 3 civ., n. 23469 del 29/09/2018, Rv. 650858).
Nello stesso si pone la sentenza delle Sez U. n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605490 secondo cui, quando il fatto illecito integra gli estremi di un reato, spetta alla vittima risarcimento del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, ivi compreso il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva causata dal reato.
3.3. La Corte di appello non ha fatto corretta applicazione di detti principi.
Si è già detto di come, secondo le Sezioni unite, nel caso di mancato versamento all’erario delle somme dovute a titolo di prelievo unico erariale, è configurabile il delit di peculato perché il denaro è strutturalmente “altrui” in quanto appartiene alla pubblica amministrazione sin dal momento della sua riscossione da parte del concessionario o del gestore del servizio.
Dunque, il soggetto titolare del denaro oggetto dell’appropriazione è sin dall’inizio la pubblica amministrazione e il soggetto concessionario non è la vittima della condotta appropriativa posta in essere dal gestore, ma solo il soggetto che, in ragione del rapporto di concessione, è tenuto a versare all’erario la somma riscossa e di cui il gestore si è appropriato.
Un soggetto, il concessionario, danneggiato sul piano patrimoniale dal reato commesso dal gestore.
L’attuale fattispecie di peculato, così come disegnata dal legislatore, rivela la totale indifferenza dell’appartenenza della cosa mobile o del denaro oggetto di appropriazione alla Pubblica amministrazione ovvero ai privati, per effetto della trasposizione all’interno della nuova fattispecie della precedente ipotesi di malversazione a danno di privati (ossia dell’abrogato art. 315 cod. pen.).
In tal senso è consolidata l’affermazione per cui, oltre a vulnerare l’interesse per il buon andamento e l’imparzialità della P.A., il peculato offende anche l’interesse che il titolare del bene oggetto dell’appropriazione ha di conservarlo: si tratta, generalmente, di un interesse patrimoniale, ma che può assumere, come pure si è evidenziato da parte della dottrina, che sia, anche o solo, di altra natura, in dipendenza di particolar legami del soggetto passivo con il bene.
Emerge in tal modo la natura plurioffensiva del peculato, poiché all’indubbia esigenza di attribuire rilievo al disvalore delle particolari forme di abuso che si realizza attraverso le condotte di appropriazione o di uso non compatibili con la funzione o il servizio, o comunque non consentite dall’ordinamento, si affianca, proprio in ragione dei tipici elementi strutturali della fattispecie, quella di tutelare gli aspetti patrimonial risultino danneggiati da condotte lesive di interessi propri della stessa P.A., ovvero di soggetti privati.
3.4. Nel caso di specie, come detto, il soggetto concessionario non è il titolare del bene oggetto dell’appropriazione e non ha con quel bene, cioè il denaro della pubblica amministrazione di cui si appropria il gestore, nessun rapporto “fisico”; egli subisce solo gli effetti pregiudizievoli del fatto altrui perché è tenuto ad assolvere all’obbligazio cui è tenuto verso la pubblica amministrazione.
Un soggetto danneggiato, ma non una persona offesa.
Ne consegue che il soggetto concessionario, non essendo la vittima del reato, non ha diritto al riconoscimento del danno morale.
Dunque la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio sul punto con conseguente eliminazione delle statuizioni civili
4. Il terzo motivo è assorbito.
Quanto al motivo nuovo e alla possibile riconducibilità della condotta appropriativa al “nuovo” delitto di cui all’art. 314 bis cod. pen., si tratta di un motivo infondato.
Secondo l’imputato, la condotta appropriativa sarebbe stata causata dall’aumento della percentuale del prelievo erariale e dai maggiori costi per l’adeguamento degli apparecchi da gioco.
5.1. L’art. 9, comma 1, d.l. 4 luglio 2024, n. 92 ha introdotto, a decorrere dal 5 luglio 2024, il reato di indebita destinazione di denaro e di cose mobili inserendo l’art. 314 bis cod. pen.
L’introduzione della nuova fattispecie di reato ha anticipato di pochi giorni l’approvazione della legge 9 agosto 2024, n. 114, che con l’art. 1, comma 1, ha abrogato il reato di abuso d’ufficio a decorrere dal 25 agosto 2024.
Dunque, un fenomeno combinato di abrogazione dell’art. 323 cod. pen. e di introduzione “anticipata” di una norma che sembrerebbe dover fungere da contrappeso, rispetto all’abolitio criminis dell’abuso d’ufficio.
Un fenomeno combinato costituito, da un lato, dall’impiego della decretazione d’urgenza in ragione della necessità di tenere conto degli obblighi eurounitari (espressamente citati nella relazione di accompagnamento al decreto legge) e, dall’altra, dalla necessità di evitare il fenomeno “complesso” di abolizione di incriminazione e nuova incriminazione.
Una fattispecie, quella prevista dal nuovo art. 314 bis cod. pen. che si incrocia tra gli obblighi di incriminazione derivanti dal diritto della Unione europea, la evoluzione del diritto giurisprudenziale in materia di abuso distrattivo e le “vicende” che hanno condotto all’abrogazione del reato previsto dall’art. 323 cod. pen.
Il peculato per distrazione è infatti oggetto di un obbligo di incriminazione derivante dal diritto UE, che vincola il legislatore ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost.
Il riferimento è all’art. 4, comma 3, della Direttiva UE 2017/1371 del 5 luglio 2017 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante diritto penale.
Nel nono considerando di questa direttiva, si fa riferimento alla lesioni degli interessi finanziari dell’Unione derivanti dalle condotte del funzionario pubblico che mirano alla “appropriazione indebita di fondi o beni, per uno scopo contrario a quello previsto”.
L’art. 4, comma 3, stabilisce che “gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché, se intenzionale, l’appropriazione indebita costituisca reato” e precisa subito che “ai fini della presente direttiva, s’intende per «appropriazione indebita» “l’azione del funzionario pubblico, incaricato direttamente o indirettamente della gestione di fondi o beni, tesa a impegnare o erogare fondi o ad appropriarsi di beni o utilizzarli per uno scopo in ogni modo diverso da quello per essi previsto, che leda gli interessi finanziari dell’Unione”.
Il successivo comma 4 dell’art. 4 della Direttiva precisa poi che ai fini della direttiv s’intende per «funzionario pubblico» un funzionario dell’Unione o un funzionario compresi i funzionari nazionali di un altro Stato membro e i funzionari nazionali di un paese terzo.
Questo obbligo di incriminazione non è in parte soddisfatto dalla norma che incrimina il peculato, perché essa si riferisce, secondo il diritto vivente, – alle sole condotte appropriazione ovvero a quelle di distrazione che sono “equiparate” a quelle propriamente appropriative, cioè a quelle condotte caratterizzate dalla destinazione del denaro o della cosa mobile altrui non a finalità pubblicistiche, ma al soddisfacimento di interessi privati.
5.2. È noto, come sotto la vigenza dell’originario delitto di peculato, quello precedente alla riforma attuata con la legge 26 aprile 1990, n. 86, la formulazione del precetto prevedeva, a seconda della fattispecie, la punizione di colui il quale, si “appropria, ovvero (…) distrae” (art. 314 cod. pen.) oppure “si appropria o, comunque, distrae” (art. 315 cod. pen.), il denaro o la cosa mobile posseduti per ragioni di ufficio o servizio.
Venivano identificate almeno tre forme di distrazione, a seconda che l’utilizzo del denaro (o di altra cosa mobile) avvenisse:
in violazione delle norme interne che ne prescrivono la destinazione, ma pur sempre per finalità inerenti all’ente di appartenenza;
per obiettivi avulsi da quelli propri dell’ente ma, comunque, di interesse pubblico;
per fini del tutto estranei a quelli pubblici.
Nel 1990 il legislatore decise di espungere dall’art. 314 cod. pen. il riferimento alla distrazione: lo scopo era quello di far confluire detta condotta nell’alveo dell’art. 323 cod. pen., laddove sussistenti gli altri elementi, peraltro successivamente arricchiti prima dalla L. 16.7.1997, n. 234 e, poi, dal D.L. 16.7,2020, n. 76 (convertito dalla L. 11.9.2020, n. 120).
La successiva elaborazione giurisprudenziale aveva tendenzialmente chiarito come non assumessero rilevanza penale i casi di distrazione di cui al punto a): la destinazione del bene a finalità pubbliche non simmetriche rispetto a quelle regolamentari interne, ma pur sempre inerenti a quelle dell’ente al quale appartiene il pubblico agente infedele, escludeva l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma (cfr., Sez. 6, n. 25173 del 13/04/2023, Costa, Rv. 284790)
Quanto ai casi sub b) e c), in particolare, le Sezioni unite avevano spiegato come l’eliminazione della parola “distrazione” dal testo dell’art. 314 cod. pen., operata dalla L. n. 86 del 1990, non avesse determinato puramente e semplicemente il transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dall’agente pubblico nell’area di rilevanza penale dell’abuso d’ufficio.
Qualora, infatti, mediante la distrazione del denaro o della cosa mobile altrui, tali risorse fossero state sottratte da una destinazione pubblica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, sarebbe stato comunque integrato il delitto di peculato; la condotta distrattiva, invece, avrebbe potuto rilevare come abuso d’ufficio nei casi in cui la destinazione del bene, pur viziata per opera dell’agente, avesse mantenuto la propria natura pubblica e non fosse andata a favorire interessi estranei alla p.a (Sez. U, n. 19054 del 20/12/2012, – dep. 2013, Vattani).
All’indomani della introduzione della nuova fattispecie prevista dall’art. 314 bis cod. pen. è stata subito segnalata dalla dottrina la sua morfologia strutturale ibrida, che si colloca in una zone di confine tra il peculato e la versione “miniaturizzata” dell’abuso d’ufficio, successiva alle modifiche apportate alla fattispecie nel 2020
Nella prima direzione, al di là dell’uso del verbo “destinare” anziché “distrarre”, la nuova fattispecie ha una sua contiguità con l’incriminazione del peculato di cui all’art. 314 cod. pen., comprovata, si è fatto notare, « dal comune presupposto della condotta, costituito dal “possesso o dalla disponibilità” e dal comune oggetto materiale rappresentato dal “denaro o altra cosa mobile altrui”».
La nuova fattispecie non fa riferimento ai beni immobili – che pure possono essere distratti (si fa, al riguardo, l’ipotesi di utilizzo di un appartamento, di un garage o di ufficio per fini privati, diversi da quelli per i quali è stato assegnato) – e la specificazi riguardante l’oggetto materiale della condotta sembra escludere la possibilità di ricondurre alla nuova previsione la casistica relativa allo sfruttamento, a fini privati, del forza lavoro appartenente alla pubblica amministrazione, avendo la giurisprudenza da tempo affermato l’impossibilità di ritenere in tali ipotesi configurato il delitto di pecula in quanto l’energia umana non rientra nel genus “cosa mobile” (cfr., Sez. 6, n. 6094 del 27/01/1994, Liberatore, Rv. 199186).
Nella seconda direzione, la norma incriminatrice fa riferimento all’ultima formulazione dell’art. 323 cod. pen. attraverso il richiamo “alle specifiche disposizioni di legge o at
aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità”, nonché, agli elementi del dolo intenzionale e dell’evento di ingiusto vantaggio patrimoniale o di danno ingiusto, già introdotti con la pregressa riforma del 1997.
5.3. In questo contesto assume rilievo la clausola di riserva contenuta nell’art. 314 bis cod. pen. “fuori dai casi previsti dall’art. 314”.
Una clausola che esclude interferenze tra la nuova fattispecie e quella di peculato, attesa peraltro la diversa struttura delle fattispecie- quella meno grave di evento e l’altra più grave di condotta; una clausola che non erode la tradizionale tipicità del reato di peculato e che non è volta a disciplinare “tutte” le condotte distrattive, anche cioè quelle di distrazione – appropriativa, tradizionalmente ricondotte, come si è visto, al delitto d peculato e che nell’ambito di detto delitto rimangono.
Una opzione interpretativa, quella appena indicata, secondo cui tutte le condotte distrattive – comprese quelle c.d. appropriative, tradizionalmente ricondotte al reato di peculato – che porterebbe al corollario di applicare la disciplina più favorevole, di cu all’art. 314-bis cod. pen., anche ai fatti distrattivi, precedentemente commessi, consistenti nell’utilizzo del bene o del denaro per fini personali, inconciliabili con finalità istituzionali.
Si tratta di “clausola di riserva determinata” con cui si è inteso escludere il concorso apparente di norme tra art. 314-bis cod. pen. e art. 314 cod. pen., dichiarando l’applicabilità dell’art. 314-bis cod. pen. solo nell’ipotesi in cui non sia applicabile l 314 cod. pen., secondo un principio di sussidiarietà di quest’ultima disposizione rispetto al peculato comune; ciò esclude che distrazioni ad esclusivo profitto privato possano essere punite in base alla fattispecie meno grave
Nessuna interferenza tra art. 314 e art. 314 bis cod. pen. e, pertanto, nessuna successione di leggi e conseguente applicazione dell’art. 2 cod. pen., né del secondo e neppure del quarto comma di detta norma.
L’art. 314-bis cod. pen. trova applicazione solo rispetto ai fatti di distrazione- meno gravi- che non sono riconducibili al paradigma delle “distrazioni – appropriative” punibili con la pena molto più elevata del peculato.
Un fenomeno combinato, quello compiuto dal legislatore, che produce un effetto di abrogatio sine abolitione parziale, nel senso che una classe di condotte distrattive in precedenza attratte nell’alveo della fattispecie di abuso di ufficio, non sono travolte dall’effetto abolitivo conseguente alla abrogazione di detto reato e conservano rilevanza penale, se e in quanto riconducibili alla nuova fattispecie di reato.
In tal senso si è già espressa la Corte di cassazione, chiarendo come, in tema di delitti contro la pubblica amministrazione, il delitto di indebita destinazione di denaro o cose mobili, di cui all’art. 314-bis cod. pen., introdotto dall’art. 9, comma 1, d.l. 4 lug 2024, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2024, n. 112, sanzioni le condotte distrattive dei beni indicati che, nella disciplina previgente, la giurisprudenza
di legittimità inquadrava nella fattispecie abrogata dell’abuso di ufficio, sicché l’ambito applicativo del delitto di peculato non risulta modificato dall’introduzione della nuova fattispecie incriminatrice (Sez. 6, n. 4520 del 23/10/2024- dep. 2025, COGNOME, Rv. 287453).
Una “gemmazione per distacco” – si è lucidamente osservato- dalla fattispecie dell’abrogato art. 323 cod. pen. di una sottofattispecie, «destinata a perpetrare l’incriminazione di una classe di condotte di abuso distrattivo, preservate al contempo, dall’effetto abrogativo che ha travolto la restante porzione di abuso, e da non volute “contaminazioni” con il più grave delitto di peculato».
Una gemmazione che non riguarda, tuttavia, tutti i casi di abuso distrattivo in precedenza riconducibili al reato di abuso d’ufficio, rimanendo all’esterno della nuova fattispecie, a titolo meramente esemplificativo, le condotte di abuso distrattivo aventi ad oggetto beni immobili, per i quali si deve ritenere essere intervenuta una reale abolitio criminis.
Le considerazioni esposte rivelano l’infondatezza del motivo aggiunto, non trattandosi, nella specie, di condotte distrattive; l’imputato si è semplicemente appropriato, di somme altrui.
P. Q. M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni civili, che elimina.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso. Così deciso in Roma il 6 novembre 2024.