Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 23612 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 23612 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 11/04/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME, nata a Bibbiena il DATA_NASCITA
NOME COGNOME, nato a Gaeta il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 17/05/2023 della Corte d’appello di Trieste;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo la rideterminazione della pena per COGNOME e il rigetto nel resto del ricorso, nonché il rigetto del ricorso
COGNOME;
udito l’AVV_NOTAIO, in sostituzione degli AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO e NOME COGNOME, in difesa rispettivamente delle parti civili RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, il quale chiede il rigetto del ricorso;
udita l’AVV_NOTAIO, in sostituzione degli AVV_NOTAIO NOME COGNOME e NOME COGNOME, difensori rispettivamente di NOME COGNOME e di NOME COGNOME, la quale insiste per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Trieste confermava la condanna degli imputati per peculato (art. 314 cod. pen.) (capo b), assolvendoli invece dall’imputazione di appropriazione indebita aggravata (artt. 646; 61, n. 11, cod. pen.) (capo a).
In particolare, era stato contestato a NOME COGNOME e COGNOME NOME, in qualità, rispettivamente, di rappresentante e di amministratore di fatto di “RAGIONE_SOCIALE“, società di raccolta delle giocate per conto di “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE” (quest’ultima concessionaria di Stato a titolo originario) di non aver versato – neppure nei cinque giorni successivi all’invito rivolto con raccomandata del 11/02/2014 da “RAGIONE_SOCIALE” – le somme dovute a tali società (euro 31.174, 97 a “RAGIONE_SOCIALE” e euro 66.734,12 a “RAGIONE_SOCIALE“).
Ha presentato ricorso NOME COGNOME, per il tramite del difensore, AVV_NOTAIO, articolando un unico motivo con cui ha dedotto errata applicazione dell’art. 314 cod. pen. e vizio di motivazione.
La Corte d’appello ha valorizzato in modo apodittico il narrato dei testi dell’accusa e delle parti civili, palesemente non veritiero e contraddittorio.
Per contro, ha ritenuto inconferenti e generiche le deduzioni sulla illiceità delle condotte poste in essere da “RAGIONE_SOCIALE“, sfociate anche in contenziosi civili, che hanno indotto i comportamenti contestati all’imputato, da ritenere scriminati perché realizzati nell’esercizio di un suo concreto diritto.
Inoltre, ha trascurato che il PREU, al tempo dei fatti, non era quantificabile sulla base di criteri precisi e normati, anche solo da linee guida, venendo determinato in modo opinabile e sovente arbitrario.
Pertanto, l’accusa non avrebbe provato che le somme erano dovute nella misura quantificata da “RAGIONE_SOCIALE” e dalle parti civili e la condanna si sarebbe basata su un “brogliaccio” o “foglio Excel” prodotto da “RAGIONE_SOCIALE“, inidoneo ad assurgere a prova, in quanto documento di parte non ufficiale né formato in contraddittorio.
Ancora, nessun rilievo i Giudici dell’appello hanno attribuito alla produzione di copia degli assegni preventivamente consegnati dal prevenuto a “RAGIONE_SOCIALE“, quale garanzia del pagamento del PREU nella misura effettivamente dovuta, i quali
i
attestavano: da un lato, la succitata difficoltà nella quantificazione del PREU; dall’altro lato, la buona fede contrattuale del ricorrente.
Infine, non sarebbe stata valutata la deposizione resa da un teste (NOME COGNOME), il quale riferì come si svolsero realmente i fatti e i comportamenti illeciti posti in essere da “RAGIONE_SOCIALE” nelle fasi pre-contrattuali e, in genere, prima dei fatti per cui si procede.
Ha presentato ricorso NOME COGNOME, per il tramite dell’AVV_NOTAIO, deducendo cinque motivi.
3.1. Errata applicazione dell’art. 314 cod. pen.
È vero che l’obbligazione (generica) di versare le somme da parte del gestore sorge nel momento in cui è incassata la giocata. Il pagamento al concessionario di quanto concretamente dovuto diviene però esigibile soltanto quando la somma sia esattamente quantificata dalla società concessionaria la quale invia l’estratto conto del periodo (c.d. report) e chiede quindi l’adempimento al gestore.
Ciò detto, la COGNOME è stata in carica quale amministratrice di “RAGIONE_SOCIALE sino al 18 febbraio, mentre a fine gennaio la società recedette dal contratto.
Il recesso avvenne, quindi, prima della quantificazione del dovuto e prima che fosse chiesto il pagamento della somma (il che non compromette l’interesse dello Stato a incassare quanto ad dovuto, dal momento che soltanto la società concessionaria è direttamente obbligata con lo Stato che non ha, per contro, un rapporto negoziale diretto con il gestore).
Dunque, fintanto che la COGNOME ricoprì la carica di amministratrice, non pervenne alcun estratto conto, in quanto le concessionarie omisero ogni atto amministrativo, entrando in contenzioso con apodittica richiesta di pagamento di somme, senza frapporre spazi tecnici negoziali e senza presentare alcun report.
Poiché tra “RAGIONE_SOCIALE” e le concessionarie vi erano contratti regolanti termini e modalità delle prestazioni, le concessionarie, al tempo della cessazione della carica di COGNOME, non avevano ancora aggiornato la contabilità.
3.2. Violazione dell’art. 597 cod. proc. pen., avendo la Corte di appello irrogato per il delitto di peculato due anni e undici mesi di reclusione, e cioè una pena maggiore di quella con applicata dal giudice di primo grado (due anni e dieci mesi).
3.3. Vizio di motivazione, dal momento che la Corte di appello non ha esplicitato il calcolo aritmetico sotteso all’irrogazione di tale pena.
3.4. Vizio di motivazione, nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto la tesi difensiva smentita dal fatto che «gli imputati non hanno mai versato alcunché, neppure all’esito del sollecito effettuato con lettera 05/02/2014, conseguente alla dichiarazione di recesso, circostanza che fa supporre la volontaria sottrazione
dall’obbligo su di loro gravante, posto che altrimenti si sarebbero stati almeno pagamenti parziali e/o tardivi».
Desumendosi, a contrario, da tale passaggio che, se ci fossero stati pagamenti successivi, non si sarebbe configurata responsabilità penale, la Corte ha trascurato di considerare che la COGNOME era cessata dalla carica il 18/02/2014 e che quindi non poteva conoscere e provvedere a detti pagamenti parziali e/o tardivi.
3.5. Violazione di legge penale sostanziale e vizio di motivazione quanto al mancato raggiungimento della prova della responsabilità dell’imputata al di là di ogni ragionevole dubbio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Integra il delitto di peculato la condotta del gestore o dell’esercente degli apparecchi da gioco leciti di cui all’art. 110, sesto e settimo comma, TULPS, che si impossessi dei proventi del gioco, anche per la parte destinata al pagamento del Prelievo Erariale Unico (PREU), non versandoli al concessionario competente, in quanto il denaro incassato appartiene alla pubblica amministrazione sin dal momento della sua riscossione (Sez. U. n. 6087 del 24/09/2020, dep. 2021, Rubbo, Rv. 280573, le quali in motivazione hanno precisato che il concessionario riveste la qualifica formale di “agente contabile” ed è incaricato di pubblico servizio, funzione cui partecipano il gestore e l’esercente essendo loro delegate parte delle attività proprie del concessionario).
Ciò premesso, il ricorso di NOME COGNOME deve essere rigettato.
2.1. Scrive la Corte d’appello che «è emerso dalla documentazione acquisita e dalle testimonianze assunte che le somme che dovevano essere versate allo Stato risultavano da estratti conto delle operazioni telematiche che avvenivano sulla rete collegata all’amministrazione, che sono stati depositati in atti», aggiungendo che, «a fronte di tali specifici dati contabili, emersi automaticamente e non predisposti dalle parti civili, gli imputati non hanno effettuato contestazioni chiare» e che, d’altronde, «sulla violazione dell’obbligo di versare le somme incassate e il trattenimento delle stesse non incide l’eventuale possibile compensazione con il fondo di garanzia depositato, che opera sul piano civilistico nella determinazione della somma dovuta, ma non anche sulla configurabilità del delitto».
2.2. A fronte della determinazione chiara ed oggettiva del quantum dovuto dalla società esercente, perde rilievo ogni deduzione ulteriore – peraltro non sufficientemente specifica – relativa alla valutazione delle prove dichiarative da parte dei Giudici di merito.
2.3. D’altro canto, quand’anche si accedesse, per ipotesi, alla tesi del ricorrente e si escludesse che, nel caso di specie, l’importo fosse stato determinato in modo oscuro ed opinabile, tale dato non avrebbe comunque inciso sulla sussistenza del reato, i rapporti contrattuali tra le parti dovendo trovare la loro regolamentazione in sede diversa da quella penale.
Diversamente da quanto suggerito nel ricorso, non sarebbe infatti invocabile, in tema di peculato, l’esercizio di un diritto all’inadempimento.
Tale (asserito) diritto non potrebbe scriminare la condotta dell’agente a fronte del contrapposto interesse della pubblica amministrazione alla riscossione di somme che, come ricordato, le appartengono sin da subito, non consentendo, peraltro, il nostro ordinamento – quantomeno in linea di massima (e cioè con pochissime eccezioni, espressamente disciplinate a livello legislativo), l’autotutela privata dei diritti.
Va dunque ribadito l’insegnamento secondo cui nessun rilievo può attribuirsi, ai fini della esclusione del reato, alla circostanza che il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio, abbia trattenuto somme di denaro in compensazione di crediti (che assume) vantati nei confronti dell’amministrazione di appartenenza, non essendo previsto, in linea di massima, e salvi i casi espressamente eccettuati dalla legge, il riconoscimento dell’autotutela per la realizzazione dei propri diritti, né potendosi ritenere sufficiente l’astratta pretes di un diritto per poterlo esercitare in modi non consentiti dalla legge (tra tante, Sez. 6, n. 1865 del 29/09/2020, dep. 2021, Sammartano, Rv. 280343; Sez. 6, n. 20940 del 22/02/2011, Gentile, Rv. 250055; Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, COGNOME, Rv. 244190).
Al rigetto dell’impugnazione di NOME COGNOME consegue la condanna del ricorrente alle spese ex art. 616 cod. proc. pen.
,
Va rigettato anche il ricorso presentato da NOME COGNOME, ad eccezione che nella parte concernente la determinazione della pena.
4.1. In particolare, quanto al primo motivo, a nulla rileva che la società avesse operato il recesso dal contratto poco dopo la relativa stipula e prima dell’invio del report da parte della società concessionaria.
Se è vero, infatti, che in quel momento l’obbligazione non era ancora liquida ed esigibile, è anche indiscutibile che tale obbligazione già esisteva e che, come rilevato dalla Corte d’appello, le somme si trovavano a disposizione degli imputati. Anzi, la tempistica del recesso sembra rafforzare la dimostrazione del dolo del peculato, desunta dai Giudici di secondo grado dalla «totale assenza di richieste di
chiarimento in ordine ai conteggi effettuati» e dalla «mancata offert pagamento almeno di parte delle somme».
Sul punto deve solo aggiungersi che a nulla rileva nemmeno l’eccepito mancato aggiornamento della contabilità delle società concessionarie, stante la ritenuta, in sentenza, esatta determinazione dell’importo dovuto e la non configurabilità di un diritto di autotutela privata, di cui si è già detto rispondend al ricorso del COGNOME.
4.2. Neppure si ravvisano nella sentenza impugnata gli altri vizi motivazionali dedotti nel quarto motivo del ricorso.
In particolare, la frase della pronuncia d’appello riportata nel ricorso (di cui s dà testualmente conto nel “Ritenuto in fatto”) si conforma alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui non ogni ritardo nel pagamento integra un’appropriazione penalmente rilevante, ma solo la condotta realizzata uti dominus (Sez. 6, n. 38339 del 29/09/2022, COGNOME Marco, Rv. 283940).
Tale insegnamento non significa, però, che l’adoprarsi in qualunque modo per il pagamento neghi, per ciò solo, la configurabilità del peculato.
Un pagamento tardivo può indiziare, a talune condizioni (come nel caso sotteso al precedente citato), la mancata integrazione di una “appropriazione” (elemento della tipicità dell’art. 314 cod. pen. connotato in chiave soggettiva), ove incida sull’aspetto della proiezione temporale del rapporto che l’agente ha con il denaro pubblico, revocando quindi in dubbio che la ritenzione della somma sia avvenuta uti dominus.
Ma questa situazione non si è verificata nel caso in oggetto dove, come già ricordato, correttamente la Corte ha escluso che dal comportamento dell’imputata emergessero elementi in grado di escludere la volontà di intervertire il possesso delle somme: COGNOME, infatti, non chiese spiegazioni o dilazioni; non dimostrò cooperazione; anzi, come ricordato, operò il recesso dal contratto con le concessionarie poco prima della scadenza del termine di pagamento.
Il quarto motivo di ricorso deve essere, dunque, rigettato.
4.3. Alla luce delle considerazioni svolte, emerge la manifesta infondatezza pure del quinto motivo, con cui si deduce il mancato raggiungimento dello standard dell’«oltre ogni ragionevole dubbio» necessario per l’affermazione di responsabilità penale. La motivazione della sentenza impugnata risulta, infatti, completa, non contraddittoria e logicamente argomentata, sul punto dovendosi peraltro aggiungere che, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile il motivo con cui si deduca la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l’omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati
specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, n. 29542 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027).
4.4. Fondati appaiono, invece, i motivi secondo e terzo.
Nonostante l’assoluzione per l’appropriazione indebita di cui al capo c), la Corte di appello, nel rideterminare la pena, ha decurtato soltanto uno dei due mesi di reclusione irrogati per la continuazione con tale delitto, né ha chiarito come sia giunta a tale determinazione.
Tuttavia, secondo l’insegnamento di questa Corte nella sua più autorevole composizione, il divieto della reformatio in peius in appello riguarda non soltanto il risultato finale, ma anche tutti gli elementi del calcolo della pena, sicché, in cas di accoglimento dell’appello dell’imputato in ordine alle circostanze o al concorso di reati, discende non solo l’obbligatoria diminuzione della pena complessiva, ma anche l’impossibilità di elevare la pena comminata per singoli elementi (Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, NOME COGNOME, Rv. 232066; il principio di diritto è specificato, con riferimento alla situazione che qui rileva, ad esempio in Sez. 5, n. 14991 del 12/01/2012, COGNOME, Rv. 252326).
La sentenza va dunque annullata sul punto.
Peraltro, essendo stato disposto per la continuazione un aumento contenuto di pena (che quindi non necessita di particolare onere motivazionale; Sez. U Pizzone, n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269) e non residuando, quindi, spazi di discrezionalità nella sua rideterminazione, è possibile procedere a tale operazione direttamente in questa sede.
Per la continuazione con il delitto del capo a) i Giudici di primo grado erano infatti partiti dalla pena base di quattro anni e tre mesi, poi diminuita per l generiche a due anni e dieci mesi, quindi, aumentata a tre anni in ragione della continuazione con l’appropriazione indebita: disponendo, in definitiva, un aumento per la continuazione con l’appropriazione indebita di due mesi.
La Corte d’appello, esclusa la responsabilità per il capo a), ha rideterminato la pena in anni due e mesi undici; ha, cioè, sottratto soltanto uno dei due mesi irrogati dal Tribunale per la continuazione.
Ne deriva che deve essere detratto un altro mese e che, dunque, la pena va rideterminata in anni due e mesi dieci.
5. La sentenza nei confronti di NOME COGNOME va, dunque, annullata senza rinvio limitatamente alla pena, che viene rideterminata in anni due e mesi dieci di reclusione.
Il ricorso di NOME COGNOME deve essere rigettato nel resto.
Entrambi i ricorrenti vanno condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalle parti civili “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE“, il cui minimo è aumentato nella misura indicata nel dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME limitatamente alla pena, che ridetermina in anni due e mesi dieci di reclusione, rigettando nel resto il ricorso. Rigetta il ricorso di COGNOME NOME e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, che liquida in complessivi euro 4.600,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 11/04/2024