Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 28653 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 28653 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 12/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Agropoli il 14/08/1075
avverso la sentenza del 14/11/2024 della Corte di appello di Salerno visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al capo relativo al rigetto della richiesta di applicazione del lavoro di pubblica utilità, e la declaratoria di inammissibilità del ricorso nel resto;
udito l’avvocato NOME COGNOME difensore di COGNOME Michele, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME è stato condannato dal Tribunale di Salerno per il reato di cui all’art. 314 cod. pen., per essersi appropriato, in qualità di gestore di fatto di una ricevitoria del gioco del lotto e, quindi, di incaricato di pubblico servizio,
delle somme incassate dagli scommettitori nella settimana dal 22/06/2016 al 28/06/2016, con confisca del profitto del reato. Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte di appello di Salerno ha ridotto l’importo della confisca applicata in primo grado, confermando nel resto la sentenza impugnata.
Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il difensore di NOME COGNOME denunciando i motivi di annullamento di seguito sintetizzati.
2.1. Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione al delitto di peculato, di cui difetterebbero tanto l’elemento oggettivo quanto l’elemento soggettivo.
Sotto il primo profilo la difesa ha contestato che il ricorrente fosse incaricato di pubblico servizio; sotto il secondo profilo, ha dedotto che il mancato versamento della somma incassata dagli scommettitori alla scadenza prevista può costituire indizio del mutamento di atteggiamento psichico dell’agente soltanto nei casi in cui costui sia tenuto a detto versamento, ossia abbia il potere di disporre della somma, cosa che non accade nel caso di specie in quanto il potere dispositivo spettava unicamente alla madre del ricorrente, ossia alla concessionaria.
Nella prospettazione difensiva i fatti potrebbero essere riqualificati, al più, come appropriazione indebita, con conseguente declaratoria di prescrizione, o, in subordine, come tentativo di peculato, in difetto di prova della materiale apprensione delle somme.
2.2. Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione al diniego della proposta di concordato in appello, alla mancata applicazione dell’art. 323-bis cod. pen. e alla confisca.
La Corte di appello, condividendo l’impostazione del Procuratore generale, che aveva negato il consenso al concordato in appello, ha ritenuto non applicabile l’attenuante di cui all’art. 323-bis cod. pen., per l’elevata entità della somma, nonostante la norma richieda una valutazione del fatto nella sua globalità e non delle sole conseguenze patrimoniali della condotta criminosa.
Quanto alla confisca, la difesa ha rilevato che, nei confronti della madre del ricorrente, è stata emessa sentenza di condanna da parte della Corte dei conti in esecuzione della quale è in atto l’attività di recupero delle somme dovute, cosicché la misura ablatoria realizzerebbe un inammissibile bis in idem sostanziale, oltre a costituire un indebito arricchimento per i Monopoli di Stato.
2.3. Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione al diniego di sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità.
2.4. Violazione di legge e omessa pronuncia in ordine alla richiesta di messa alla prova.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
La difesa contesta, in primo luogo, la qualifica di incaricato di pubblico servizio del gestore di una ricevitoria del lotto.
La nozione di pubblico ufficiale (art. 357 cod. pen.) e di incaricato di un pubblico servizio (art. 358 cod. pen.), a seguito della legge 26 aprile 1990, n. 86, ha carattere oggettivo-funzionale e si incentra sul regime giuridico dell’attività concretamente esercitata.
L’attuale formulazione dell’art. 358 cod. pen. prevede, infatti, che «agli effetti della legge penale», è pubblico servizio «un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine», ossia un’attività «disciplinata da norme di diritto pubblico» (art. 358).
Incaricato di pubblico servizio è colui che, a qualunque titolo, svolge tale servizio.
Il parametro di delimitazione esterna del pubblico servizio è, dunque, identico a quello della pubblica funzione ed è costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l’operatività dell’agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell’autonomia privata (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, COGNOME, Rv. 261835; Sez. 6 n. 39359 del 07/03/2012, COGNOME, Rv. 254337). Agli effetti della legge penale, dunque, l’esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio da parte dell’agente deve essere escluso quando l’attività svolta dal soggetto sia regolata in forma privatistica.
Ciò impone di esaminare la disciplina che regola l’attività del gestore di una ricevitoria del lotto.
2. La legge 2 agosto 1982 n. 528 disciplina il gioco del lotto, prevedendo che esso sia riservato allo Stato e che sia affidato all’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, la quale, a sua volta, lo gestisce, nell’ambito dei monopoli fiscali, nelle forme e nei modi previsti dalla stessa legge e dal successivo regolamento di applicazione ed esecuzione (art. 1). A tale regolamento è affidata la regolamentazione, tra l’altro, dei «punti di raccolta del gioco e la loro ubicazione nel territorio dello Stato, » e della «disciplina del rapporto di concessione con i raccoglitori del gioco ed in particolare le garanzie che questi sono tenuti a prestare» (art. 13).
Il regolamento di applicazione ed esecuzione sull’ordinamento del gioco del lotto è stato adottato con d.P.R. 7 agosto 1990 n. 303 che, all’art. 1 ribadisce che «il servizio del lotto è amministrato dal Ministero delle finanze per mezzo dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, ovvero è affidato in concessione, con decreto del Ministro delle finanze, anche nel rispetto della normativa comunitaria, a soggetti che siano in possesso di comprovati requisiti di affidabilità e di idoneità tecnica» e che, agli artt. 20 e ss., disciplina le modalità di rilascio della concessione e gli obblighi dei concessionari.
Il d. Igs. 30 luglio 1999 n. 300 ha, poi, attribuito alla neo costituita Agenzia delle dogane e dei monopoli tutte le funzioni già di competenza dell’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato (art. 63).
Infine del d.M. 12 dicembre 2003 ha disciplinato in modo organico il rilascio delle concessioni alle ricevitorie del lotto e il rapporto con i concessionari.
La gestione di una ricevitoria del lotto, quindi, è oggetto di una concessione pubblica e la sua regolamentazione è minuziosamente regolamentata da una normativa pubblicistica che regola le modalità del gioco, il calcolo delle vincite, le modalità di riscossione delle giocate e di pagamento delle vincite.
Da ciò consegue che colui che gestisce una ricevitoria è, agli effetti della legge penale, incaricato di pubblico servizio (art. 358 cod. pen.), perché svolge una attività amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico, priva dei poteri propri della pubblica funzione.
La difesa ha, poi, contestato che il ricorrente, che sostituiva la madre nella gestione della ricevitoria del lotto di cui era concessionaria, fosse incaricato di pubblico servizio e avesse, quindi, la disponibilità giuridica delle somme di cui si sarebbe appropriato.
Sul punto va rilevato che, in tema di peculato, il possesso qualificato dalla ragione d’ufficio o di servizio non è solo quello rientrante nella specifica competenza funzionale dell’agente, ma anche quello derivante dall’esercizio di fatto o arbitrario di funzioni che permetta di maneggiare o avere la disponibilità materiale del bene, senza che rilevi per la consumazione il rispetto o meno delle disposizioni organizzative dell’ufficio, dovendosi escludere il reato solo quando il possesso sia meramente occasionale, ovvero dipendente da evento fortuito o legato al caso (sez. 6, n. 11741 del 27/01/2023, Abbondanza, Rv. 284578).
Nel caso di specie dalla sentenza impugnata emerge che nel 2016 l’unico gestore della ricevitoria del lotto, di cui era concessionaria la madre, era il ricorrente, che era stato anche formalmente nominato coadiutore dalla madre, che
raccoglieva il denaro delle scommesse e che effettuava i versamenti periodici delle suddette somme.
Infondata è anche la censura relativa all’elemento soggettivo del reato, in quanto, secondo la adeguata motivazione della sentenza impugnata, le caratteristiche del fatto rendono indubbia l’interversione del titolo del possesso. Il ricorrente, infatti, non ha versato la somma riscossa anche dopo essere stato formalmente invitato a farlo dalla pubblica amministrazione che, a causa del mancato versamento, ha, dapprima, sospeso la concessione e, poi, l’ha revocata.
La sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato di peculato, rende manifestamente infondata la richiesta di derubricazione del reato in appropriazione indebita o in tentativo di peculato.
8. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
La Corte di appello non ha ritenuto applicabile l’attenuante di cui all’art. 323bis cod. pen. non potendosi qualificare di particolare tenuità un peculato che ha avuto ad oggetto una somma di ben 80.000 euro.
Nella prospettazione difensiva tale valutazione, attenendo al solo aspetto del danno patrimoniale, non è sufficiente, in quanto, ai fini del riconoscimento dell’attenuante speciale, avrebbero dovuto essere presi in considerazione altri elementi, idonei a incidere sulla gravità del fatto.
Tale rilievo non coglie nel segno perché l’entità del danno è uno degli elementi che deve essere valutato ai fini della qualificazione del fatto come di speciale tenuità, e, se rilevante, può essere da sola idoneo ad escluderla.
Quanto alla disposta confisca del profitto del reato, la Corte di appello ha respinto l’istanza con cui la difesa ne aveva chiesto la revoca, in quanto obbligatoriamente prevista dall’art. 322-ter, comma 1, cod. pen., ma ne ha ridotto l’importo, sulla base della quantificazione operata dalla sentenza della Corte dei conti, che ha riconosciuto il danno erariale per euro 81.370,14. È stata, quindi, disposta la confisca diretta del profitto del reato fino alla concorrenza di detta somma e, in caso di incapienza, la confisca per equivalente degli altri beni fino al suddetto importo.
Secondo le Sezioni unite (sentenza n. 13783 del 26/09/2024, COGNOME, Rv. 287756 – 03) la confisca per equivalente del profitto del reato assolve, così come la confisca diretta, a una funzione recuperatoria, mentre ha funzione sanzionatoria se avente ad oggetto beni privi del rapporto di derivazione dal reato, potendo
assumere funzione punitiva solo qualora sottragga al destinatario beni di valore eccedente il vantaggio economico che lo stesso ha tratto dall’illecito.
Nel caso di specie è stata accertata l’appropriazione della somma sopra indicata, correttamente sottoposta a confisca in applicazione dell’art. 323-ter cod. pen. in quanto profitto del reato, mentre è del tutto generica l’allegazione difensiva secondo cui l’amministrazione starebbe recuperando dalla concessionaria, cioè dalla madre del ricorrente, l’importo non riscosso.
Il quarto motivo di ricorso è infondato, in quanto la Corte di appello ha correttamente respinto l’istanza di messa alla prova, perché il delitto di peculato, per cui è intervenuta condanna, è punito con pena superiore a quella massima prevista dall’art. 168-bis, comma 1, cod. pen. (anni quattro di reclusione).
11. Il terzo motivo di ricorso, invece, è fondato.
L’istanza di sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità è stata avanzata con le conclusioni scritte, il 30/05/2024, e cioè entro il termine di quindici giorni prima dell’udienza di appello, celebrata con la partecipazione delle parti il 14/11/2024.
La Corte di appello ha respinto detta istanza, ritenendo che non potesse essere proposta per la prima volta con l’atto di appello.
La regolamentazione delle pene sostitutive di pene detentive brevi (art. 20bis cod. pen.) è stata introdotta dal d. Igs. 10 ottobre 2022 n. 150, il cui art. 95 ha previsto che le nuove disposizioni in materia siano applicabili anche ai processi in corso al momento della sua entrata in vigore (30 dicembre 2022), che si trovino in primo grado e in appello.
Quanto al termine entro cui, nel grado di appello, la sostituzione va richiesta, l’art. 598-bis cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. z) nn. 1, 2 e 3 del d.lgs. 19 marzo 2024 n. 31, entrato in vigore dal 4 aprile 2024 -e, quindi, applicabile al presente procedimento- distingue a seconda che l’udienza sia o meno partecipata; nel primo caso l’istanza può essere avanzata fino alla data dell’udienza (comma 4-bis), nel secondo caso, invece, può essere proposta fino a quindici giorni prima dell’udienza (comma 1-bis).
Da ciò consegue che l’istanza di sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità è stata tempestivamente presentata, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, che, negando in radice l’applicabilità della nuova disciplina, non ha dato attuazione alla norma transitoria sopra citata (art 95 d. Igs. n. 150/2022).
Da ciò consegue che la sentenza impugnata va annullata limitatamente alla mancata valutazione dei presupposti per l’applicazione del lavoro di pubblica
utilità, con conseguente rinvio per nuovo giudizio sul punto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia alla Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio sul punto. Rigetta nel resto
il ricorso.
Così deciso il 12/06/2025.