Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 10062 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 10062 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Firenze il 04/07/1946
avverso la sentenza del 16/04/2024 della Corte di appello di Roma visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata;
lette le conclusioni delle parti civili, avv. NOME COGNOME per Regione Lazio, e avv. NOME COGNOME per ASL Roma 2, che hanno chiesto il rigetto del ricorso e la conferma delle statuizioni civili, depositando nota spese.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Roma riformava in parte la sentenza del Tribunale di Roma del 19 dicembre 2017 che aveva condannato NOME COGNOME per i reati allo stesso ascritti ai capi L), O), R) e U) della
rubrica, dichiarando non doversi procedere per tali reati perché estinti per prescrizione e confermando le statuizioni civili.
All’imputato erano stati contestati vari episodi di peculato, commessi in qualità di Direttore Amministrativo della ASL Roma/C, in concorso con NOME COGNOME, funzionario della ASL dirigente dell’area finanziamenti, nonché con la amministratrice e il commercialista di società che svolgevano in favore della ASL prestazioni assistenziali, e consistiti nella appropriazione di somme di danaro, attraverso la falsa prospettazione e liquidazione di servizi svolti dalle suddette società.
La COGNOME per le suddette imputazioni era stata assolta in primo grado per non aver commesso il fatto, in quanto non vi erano elementi per sostenere il concorso nel reato e il suo compito era limitato ad un controllo contabile dei prospetti di liquidazione, inviati al suo ufficio dal COGNOME.
Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, avv. NOME COGNOME denunciando i motivi di annullamento, di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 314 e 640 cod. pen. e alla corretta qualificazione dei fatti di reato nella fattispecie della truf
Si intende contestare la qualificazione giuridica dei fatti data dai giudici del merito, che ha determinato la maturazione della prescrizione solo in grado di appello (i reati di truffa risultavano invero già prescritti in primo grado con conseguente revoca delle statuizioni civili).
Nella specie, andava considerato che compito del ricorrente era soltanto quello di trasmettere il report mensile delle fatture che venivano poi liquidate da altro ufficio (come accertato dalla Corte di appello, le fatture, una volta pronte per il pagamento venivano trasmesse alla Regione che, dopo il controllo contabile, le trasmetteva a sua volta all’azienda ospedaliera competente per la liquidazione). Egli non, dunque, aveva la disponibilità né materiale né giuridica del danaro e neppure la ASL aveva il potere di adottare atti dispositivi.
La legge attribuisce alla sola Regione la disponibilità giuridica delle somme di danaro per il pagamento di spese sanitarie, che viene materialmente assicurato attraverso il servizio di tesoreria provinciale (affidato in convenzione ad aziende di credito, nella specie la Banca di Roma, all’interno dell’azienda ospedaliera).
La liquidazione delle fatture era di competenza della ASL ma non certo questo significava che la ASL avesse la preesistente disponibilità giuridica o materiale del danaro.
La motivazione della sentenza impugnata non supera questi dati storici incontestati (in particolare che le fatture transitavano per la Regione).
Si trattava in realtà di condotta fraudolenta tesa ad ingenerare in errore chi aveva la disponibilità del danaro. Era in altri termini necessaria la cooperazione del soggetto passivo per portare a termine la condotta appropriativa.
Disposta la trattazione scritta del procedimento, in mancanza di richiesta nei termini ivi previsti di discussione orale, il Procuratore generale e le parti civil hanno depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
Come ha esposto il ricorrente, la questione della corretta qualificazione giuridica della condotta assume rilievo agli effetti civili non solo per il quantum del risarcimento, ma anche e soprattutto sull’an, in quanto la causa estintiva, nella ipotesi di truffa, risulterebbe maturata prima della sentenza di primo grado, con conseguente revoca delle statuizioni civili.
Invero tutti gli episodi di peculato risalgono al più tardi al 24 novembre 2004 e pertanto, nel caso dovesse ritenersi la fattispecie della truffa, risulterebbero già prescritti, tenuto conto anche delle interruzioni e sospensioni, alla data della pronuncia di primo grado (19 dicembre 2017).
Il punto centrale della questione sollevata dalla difesa del ricorrente è stabilire chi fosse il soggetto “ordinatore” della spesa, in quanto il mero pagamento della spesa da parte della tesoreria dell’ente pubblico è nelle procedure dei pagamenti della pubblica amministrazione circostanza non dirimente ai fini del peculato.
La Suprema Corte ha in particolare affermato che integra il delitto di peculato e non quello di truffa aggravata la condotta del funzionario di un ente pubblico, incaricato dell’esecuzione di pagamenti (il cosiddetto agente pagatore), che sottoscrive mandati di pagamento non dovuti per somme di denaro di cui ha la diretta disponibilità (In applicazione del principio, la Corte ha precisato che non rilevano le eventuali falsificazioni poste in essere dal funzionario per giustificare sul piano formale la procedura di pagamento, in quanto ai fini dell’integrazione del delitto di peculato è dirimente la disponibilità giuridica delle somme oggetto dei mandati di pagamento) (Sez. 6, n. 38535 del 04/05/2018, Rv. 274100).
Quel che rileva infatti, ai fini del peculato, è il possesso del bene, che in caso di danaro, deve intendersi riferito non solo alla detenzione materiale, ma anche
alla disponibilità giuridica (tra tante, Sez. 6, n. 16783 del 19/01/2021, Rv. 281511), che si identifica con il potere conferito al pubblico agente di emettere i mandati di pagamento (il cosiddetto ordinatore di spesa) e impartire, se del caso, al tesoriere l’ordine di provvedere materialmente al pagamento stesso.
La contabilità pubblica invero identifica varie fasi nella procedura di spesa: l’impegno, la liquidazione, l’ordinazione ed il pagamento da parte della Tesoreria.
La liquidazione della spesa è la procedura attraverso la quale è determinata la somma da pagare, che di norma compete all’ufficio che ha dato esecuzione al provvedimento di spesa. L’atto di liquidazione, con tutti i relativi documenti giustificativi ed i riferimenti contabili, è trasmesso al servizio finanziario per conseguenti adempimenti contabili (controlli e riscontri) e l’emissione del mandato di pagamento, ovvero l’ordine impartito al tesoriere di provvedere al pagamento delle spese liquidate.
Ebbene nel caso in esame le sentenze di merito non hanno chiarito chi avesse il potere di emettere il mandato di pagamento.
In particolare, in primo grado, era stato accertato che i funzionari della ASL predisponessero falsi “prospetti” di pagamento di somme, di cui già avevano la disponibilità giuridica, perché stanziate per il soddisfacimento dei crediti da prestazioni sanitarie (pag. 2-3), da trasmettere poi all’Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata per il pagamento (pag. 4).
Il primo Giudice aveva specificato che la procedura prevedeva all’epoca che le fatture, una volta liquidate, cioè “pronte per il pagamento”, dopo la verifica dell’ASL, venissero trasmesse mensilmente alla Regione, per un mero controllo contabile, e poi all’ente che avrebbe proceduto al pagamento, ovvero all’Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata (pag. 4).
La sentenza di primo grado era quindi pervenuta alla conclusione che nei confronti dell’imputato COGNOME fosse configurabile il reato di peculato, in quanto aveva la disponibilità delle somme, posto che, una volta redatto il prospetto di liquidazione, nessun altro controllo – se non meramente contabile – era disposto per il pagamento delle fatture.
In sede di appello, questi argomenti erano stati sostanzialmente fatti propri dalla Corte territoriale per confermare la qualificazione giuridica del fatto nel fuoco della fattispecie del peculato.
Da quanto precede risulta che i giudici di merito hanno attribuito al funzionario COGNOME la disponibilità giuridica delle somme versate in favore della società, di cui alle imputazioni, sol perché le stesse erano state stanziate per il
soddisfacimento dei crediti derivanti da prestazioni sanitarie in favore della ASL e perché i controlli sui prospetti da parte dell’ente pagatore erano soltanto formali.
Si tratta di un’analisi che risulta carente rispetto alla giurisprudenza di legittimità in tema di peculato.
Da un lato, infatti, la pertinenza della spesa all’ufficio di per sé non determina la “disponibilità giuridica” delle somme stanziate (in tal caso l’ufficio è chiamato piuttosto alla fase preliminare di liquidazione della spesa); dall’altro lato, questa Corte ha ritenuto non rilevante – al fine della esclusione del peculato – la presenza nella procedura di pagamento di controlli formali, ma sempre che l’agente avesse emesso “atti dispositivi” sulle somme (Sez. 6, n. 20666 del 08/04/2016, Rv. 268030).
Piuttosto questa Corte ha ritenuto configurabile il delitto di peculato in relazione al denaro pubblico il cui possesso, per effetto delle norme interne dell’ente pubblico che prevedono il concorso di più organi ai fini dell’adozione dell’atto dispositivo, fa capo congiuntamente a più pubblici ufficiali, anche se, di essi, quelli che emettono l’atto finale del procedimento non concorrono nel reato per essere stati indotti in errore da coloro che si sono occupati della fase istruttoria (Sez. 6, n. 30637 del 22/10/2020, Rv. 279884; Sez. 6, n. 39039 del 15/04/2013, Rv. 257096).
In altri termini, la previsione di “procedure complesse” e il concorso di più organi ai fini dell’adozione dell’atto dispositivo consente di imputare il possesso del danaro congiuntamente a più pubblici ufficiali.
Le richiamate pronunce si riferiscono a fattispecie caratterizzate dal riparto di ruoli istruttori e decisionali, nell’ambito dei quali l’adozione dell’atto finale inficiato da un errore indotto dal pubblico agente privo di tale potere, ma ciò non incrina il principio di fondo che sorregge le predette decisioni, che fanno perno sulla rilevanza anche della disponibilità “congiunta” del bene oggetto di appropriazione.
Su tale aspetto i Giudici del merito non hanno motivato e pertanto non può questa Corte utilizzarlo per respingere il ricorso in esame.
La questione pertanto deve essere nuovamente esaminata in sede di merito.
Dalle ragioni sin qui esposte deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata, limitatamente agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, che dovrà stabilire al fine della responsabilità civile dell’imputato la esatta qualificazione giuridica dei fatti sulla base dei principi sopra indicati.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia limitatamente agli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti per questo grado di legittimità.
Così deciso il 21/01,f2025.