Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 9252 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 9252 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 29/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
Cannatà NOME, nato a Taurianova il 27/10/1951
avverso la sentenza emessa in data 02/04/2024 dalla Corte di appello di Catanzaro udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso; udite le conclusioni dell’avvocato NOME COGNOME in sostituzione dell’avvocato NOME COGNOME in difesa di UBI BANCA (già Banca Carime), che ha concluso per il rigetto del ricorso e ha depositato conclusioni scritte e nota spese; udito le conclusioni dell’avvocato NOME COGNOME che, nell’interesse di Cannatà,
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione del consigliere NOME COGNOME ha insistito per l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Vibo Valentia, con decreto emesso in data 12 febbraio 2019, ha disposto il rinvio a giudizio di NOME COGNOME per rispondere dei delitti di peculato, contestati ai capi A) e C) dell’imputazione, e di sostituzione di persona, di cui ai capi B) e D), commessi a Tropea dal 2006 al 2013.
Secondo l’imputazione, COGNOME con più atti esecutivi del medesimo disegno criminoso, anche in tempi diversi, quale dipendente della banca Carime, filiale di Tropea, e, quindi, nella qualità di incaricato di pubblico servizio, derivante da un’apposita convenzione sottoscritta dall’istituto di credito con il Comune di Tropea, avente ad oggetto il servizio di tesoreria e, in particolare, le operazioni relative alla gestione finanziaria dell’ente e, segnatamente, alla riscossione delle entrate e al pagamento delle spese dell’ente medesimo e dallo stesso ordinate, mediante operazioni di cambio assegni postali, tratti dai correnti intestati al Comune e negoziati presso l’Ufficio postale di Tropea, si sarebbe appropriato della somma complessiva di euro 883.387,37, posseduta in ragione del suo ufficio di addetto al servizio tesoreria del Comune di Tropea.
Il Tribunale di Vibo Valentia, con sentenza emessa in data 7 aprile 2021, ha dichiarato l’imputato responsabile del delitto di peculato al medesimo ascritto al capo A) e, applicate le attenuanti generiche, lo ha condannato alla pena di tre anni di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, e al risarcimento dei danni, da liquidarsi in sede civile, in favore delle parti civili Comune di Tropea e Banca Carime.
Il Tribunale ha, inoltre, assolto l’imputato dal reato di peculato ascritto al capo C), in quanto il fatto non sussiste, e ha dichiarato di non doversi procedere in relazione ai delitti di sostituzione di persona contestati ai capi B) e D) della rubrica, in quanto estinti per prescrizione.
Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Catanzaro ha confermato la pronuncia di primo grado e ha condannato l’imputato appellante al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese in favore della parti civili costituite.
L’avvocato NOME COGNOME difensore di Cannatà, ricorre avverso questa sentenza e ne ha chiesto l’annullamento.
Il difensore, con unico motivo di ricorso, ha eccepito l’inosservanza dell’art. 314 cod. pen., in quanto la Corte di appello avrebbe illegittimamente ritenuto sussistente la qualifica di incaricato di pubblico servizio dell’imputato.
Dalla stessa lettura dei capi di imputazione, infatti, risulterebbe che il ricorrente non era il tesoriere e che non aveva alcun titolo a compiere le operazioni previste nella convenzione sottoscritta da Carime con il Comune di Tropea.
La qualifica di tesoriere, infatti, sarebbe spettata unicamente al direttore della filiale di Carime di Tropea e non ad un semplice impiegato, quale il COGNOME.
La Corte di appello, inoltre, avrebbe illegittimamente ritenuto sussistente il delitto di peculato, ancorché le condotte poste in essere dall’imputato dovessero essere più propriamente qualificate come condotte di truffa.
Tutte le operazioni relative ai prelievi da operare nell’interesse del Comune di Tropea dovevano essere effettate online, senza necessità di recarsi presso l’istituto bancario; COGNOME, dunque, mediante la commissione dei reati di sostituzione di persona, originariamente contestati e poi dichiarato prescritti, avrebbe commesso il reato di truffa, in quanto si sarebbe appropriato delle somme utilizzando le credenziali del direttore.
Gli artifizi e i raggiri sarebbero serviti all’imputato per acquisire il possesso delle somme che non erano ancora nella disponibilità della banca.
La Corte di appello, dunque, avrebbe dovuto riqualificare il reato in truffa e dichiararlo improcedibile per intervenuta prescrizione,
Con istanza depositata tempestivamente in data 13 dicembre 2024, l’avvocato NOME COGNOME ha chiesto la trattazione orale del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere accolto, nei limiti che di seguito si precisano.
Proponendo un unico motivo di ricorso, il difensore ha eccepito l’inosservanza dell’art. 314 cod. pen., in quanto la Corte di appello avrebbe illegittimamente affermato la qualità di incaricato di pubblico servizio dell’imputato e in quanto le condotte accertate dovrebbero essere qualificate come truffa e non già come peculato.
3. Il motivo è fondato.
3.1. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, l’elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell’art. 61 n. 9, cod. pen., deve essere individuato nelle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, in quanto ricorre la prima figura quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e si ravvisa, invece, la seconda ipotesi quando il soggetto attivo,
non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene (ex plurimis: Cass., Sez. 6, n. 46799 del 20/06/2018, COGNOME, Rv. 274282; Sez. 6, n. 19484 del 23/01/2018, COGNOME, Rv. 273782; Sez. 6, n. 15795 del 6/02/2014, COGNOME, Rv. 15795).
Integra, dunque, il reato di truffa ai danni dello Stato, aggravato dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, e non quello di peculato, la condotta del pubblico agente che, non avendo la disponibilità materiale o giuridica del denaro, ne ottenga l’indebita erogazione esclusivamente per effetto degli artifici o raggiri posti in essere ai danni del soggetto cui compete l’adozione dell’atto dispositivo (Sez. 6, n. 13559 del 11/07/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278888 – 01, fattispecie in cui è stata qualificata quale truffa aggravata la condotta del pubblico dipendente che, essendo esclusivamente incaricato di predisporre le buste paga, induceva in errore il funzionario deputato al servizio di tesoreria, indicando fraudolentemente due distinti conti correnti ed in tal modo conseguendo l’erogazione di un doppio accredito stipendiale).
3.2. I giudici di merito, tuttavia, non hanno fatto corretta applicazione di questi principi nel caso di specie, in quanto, pur essendo incontestata l’appropriazione da parte del ricorrente, non hanno chiarito le specifiche condotte poste in essere dall’imputato per impossessarsi delle somme di spettanza del Comune di Tropea.
Il mancato accertamento di questi decisivi elementi di fatto preclude in radice la corretta qualificazione delle condotte ascritte al ricorrente e anche la verifica della sussistenza della qualità di pubblico ufficiale in relazione alle mansioni concretamente svolte all’atto della realizzazione dell’appropriazione delle somme di danaro.
3.3. La sentenza di primo grado ha precisato che l’incasso dei tributi versati dai cittadini al Comune di Tropea avveniva attraverso un articolato procedimento descritto alle pagg. 4-8 della sentenza di primo grado.
Le somme versate dai cittadini tramite bonifici bancari venivano, infatti, prelevate dai dodici conti correnti postali accesi dal Comune di Tropea da impiegati della Banca Carinne, che svolgeva, sulla base di una convenzione, il servizio di tesoreria.
In virtù di questa convenzione, il Comune trasmetteva alla banca Carime, in qualità di tesoriere, una reversale di incasso (un ordinativo di incasso), indicando l’importo delle somma da prelevare dallo specifico conto corrente postale intestato all’ente pubblico, e l’istituto di credito, previa verifica dell’estratto del conto postal atto a comprovare la capienza del conto stesso, emetteva un assegno in favore di Carime di importo uguale a quello indicato nella reversale.
La firma di traenza doveva essere emessa da ben due dipendenti della banca e l’angolo sinistro dell’assegno era appositamente tagliato, per evitare la
negoziazione del titolo di credito all’esterno.
Tali assegni venivano successivamente negoziati in filiale e incassati sui conti correnti bancari del Comune mediante la firma di girata apposta dal tesoriere, identificato nel direttore della filiale, che era l’unico soggetto legittimato a rilasciare quietanza. L’operazione di incasso veniva effettuata tramite la stanza di compensazione. Questa procedura avrebbe dovuto essere eseguita on-line, senza necessità di recarsi presso l’ufficio postale.
Secondo quanto accertato dal Tribunale, l’imputato, invece, recandosi personalmente presso l’ufficio postale, ha incassato direttamente gli assegni tratti dai conti correnti intestati al Comune di Tropea; il ricorrente, inoltre, almeno in alcuni casi, si sarebbe sostituito al direttore di filiale (pag. 8 della sentenza di primo grado), falsificandone anche la firma (pag. 4 della sentenza impugnata).
3.4. Le sentenze di merito, tuttavia, pur descrivendo analiticamente il procedimento utilizzato dal Comune di Tropea per l’incasso delle somme versate dai cittadini sui conti correnti postali, non hanno accertato, con adeguata chiarezza, le condotte poste in essere dall’imputato per appropriarsi delle somme predette.
La GLYPH qualificazione GLYPH delle GLYPH condotte GLYPH contestate, GLYPH tuttavia, GLYPH impone preliminarmente di accertare specificamente le operazioni giuridiche poste in essere dal ricorrente per appropriarsi delle somme di danaro, una volta recatosi presso l’ufficio postale, e, segnatamente, di chiarire quali documenti abbia sottoscritto, se abbia apposto firme di traenza o di girata sugli assegni emessi, se abbia falsificato documenti e la sottoscrizione del direttore dell’istituto di credito e le precise modalità di incasso delle somme (prelevate in contanti o apprese tramite l’incasso di assegni).
Solo questa verifica può consentire di stabilire se il ricorrente avesse acquisito previamente il possesso delle somme di danaro, pur eventualmente incorporato in titoli di credito, o se lo abbia ottenuto fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi delle stesse.
3.5. Questo accertamento, peraltro, rileva anche ai fini della verifica della qualità di incaricato di pubblico servizio del ricorrente.
La sentenza di primo grado ha, infatti, affermato che l’imputato aveva già la disponibilità delle somme «in ragione del servizio dallo stesso svolto», che renderebbe le somme “illico et immediate” pecunia publica (pag. 9 della sentenza di primo grado).
La sentenza di secondo grado ha rilevato che l’imputato era certamente delegato alle operazioni di riscossione connesse al servizio di tesoreria, in quanto la sua firma era tra gli specimen depositati a tale fine.
COGNOME, infatti, era «”la personificazione” del servizio di tesoreria, in quanto era il dipendente che si occupava del servizio in questione su disposizione della
banca» (pag. 2 della sentenza impugnata).
Queste argomentazioni non sono, dunque, conformi alla disciplina vigente.
A seguito della legge 26 aprile 1990, n. 86, il legislatore ha, infatti, delineato la nozione di pubblico ufficiale (art. 357 cod. pen.) e di incaricato di un pubblico servizio (art. 358 cod. pen.) secondo una concezione oggettivo-funzionale, che ha inteso superare il riferimento, presente nella disciplina previgente, al «rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione», e che si incentra sul regime giuridico dell’attività concretamente esercitata.
L’attuale formulazione dell’art. 357 cod. pen. prevede, infatti, che «agli effetti della legge penale», è pubblico ufficiale colui il quale esercita una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa, dovendosi ritenere amministrativa la funzione «disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi».
La qualifica di pubblico ufficiale postula, pertanto, che il soggetto agente svolga in concreto mansioni tipiche dell’attività pubblica, che può manifestarsi nelle forme della pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa, prescindendo dall’esistenza di un rapporto di dipendenza con l’ente.
Ne discende che, ai fini del riconoscimento della qualifica di pubblico ufficiale «agli effetti della legge penale», non deve aversi riguardo alla natura dell’ente da cui lo stesso dipende, né alla tipologia del relativo rapporto di impiego, né ancora all’esistenza di un formale rapporto di dipendenza con lo Stato o con l’ente pubblico, ma deve valutarsi esclusivamente la natura dell’attività effettivamente espletata dall’agente, ancorché lo stesso sia un soggetto “privato”.
Il criterio oggettivo-funzionale della nozione di «pubblico ufficiale» impone, dunque, un’attenta valutazione dell’attività concretamente esercitata dal soggetto, la ricerca e l’individuazione della disciplina normativa alla quale essa è sottoposta, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore, e la verifica della presenza dei poteri tipici della potestà amministrativa, come indicati dal secondo comma dell’art. 357 cod. pen., id est la constatazione che, nel suo svolgimento, l’agente abbia concorso alla formazione o alla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione ovvero esercitato poteri autoritativi o certificativi (Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, COGNOME, Rv. 211190; Sez. 6, n. 1943 del 13/01/1999, COGNOME ed altro, Rv. 213910).
Parimenti l’art. 358 cod. pen. definisce «incaricato di un pubblico servizio» colui il quale, a qualunque titolo, presta un servizio pubblico, a prescindere da qualsiasi rapporto d’impiego con un determinato ente pubblico.
La giurisprudenza di legittimità ha rilevato che il legislatore del 1990, nel delineare la nozione di incaricato di pubblico servizio, ha privilegiato il criterio
oggettivo – funzionale, utilizzando la locuzione «a qualunque titolo» ed eliminando ogni riferimento, contenuto invece nel testo previgente dell’art. 358 cod. pen., al rapporto d’impiego con lo Stato o altro ente pubblico (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, Cofano, Rv. 261835).
Il comma secondo del medesimo art. 358 cod. pen. esplicita il concetto di servizio pubblico, ritenendolo formalmente omologo alla funzione pubblica di cui al precedente art. 357 cod. pen., ma caratterizzato dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima (poteri deliberativi, autoritativi o certificativi).
Il parametro di delimitazione esterna del pubblico servizio è, dunque, identico a quello della pubblica funzione ed è costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l’operatività dell’agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell’autonomia privata (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, COGNOME, Rv. 261835; Sez. 6 n. 39359 del 07/03/2012, COGNOME, Rv. 254337).
Agli effetti della legge penale, dunque, l’esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio da parte dell’agente deve essere escluso quando l’attività svolta dal soggetto sia regolata in forma privatistica, anche se ne è parte una persona giuridica pubblica o una società partecipata quasi totalitariamente da un ente pubblico.
3.6. Muovendo da tali principi, deve rilevarsi come gli argomenti della Corte di appello collidono con il criterio oggettivo-funzionale sancito dal legislatore per attribuire la qualifica pubblicistica, in quanto è la connotazione oggettiva e funzionale dell’attività concretamente svota e non già il carattere pubblico della pecunia a fondare la qualifica di agente pubblico.
Anche su questo punto, dunque, si impone l’annullamento della sentenza impugnata.
Alla stregua dei rilievi che precedono, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro, che provvederà ad uniformarsi ai principi di diritto sopra indicati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2025.