Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 6528 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 6528 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 24/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nata a Reggio Calabria il 18/11/1952
avverso la sentenza del 13/02/2024 della Corte di appello di Reggio Calabria letti gli atti, il ricorso e la sentenza impugnata; udita la relazione del Consigliere NOME COGNOME udite le conclusioni del Pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; udite le conclusioni del difensore, Avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Il difensore di NOME COGNOME ricorre per l’annullamento della sentenza in epigrafe con la quale la Corte di appello di Reggio Calabria ha confermato quella di primo grado emessa il 25 gennaio 2022 dal locale Tribunale, che aveva affermato la responsabilità dell’imputata per il reato di cui all’art. 314 cod. pen., così riqualificato il fatto, originariamente contestat come abuso d’ufficio, per essersi appropriata, indebitamente ed in violazione dell’art. 133 del DPR n. 1229/59, in qualità di Dirigente UNEP della Corte di
appello di Reggio Calabria, di emolumenti della indennità di trasferta imponibili ed esenti a lei non spettanti, così procurandosi un ingiusto vantaggio patrimoniale con altrui danno.
Il ricorso si articola in quattro motivi di seguito illustrati.
1.1. Con il primo motivo si eccepisce la violazione dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. per avere il Tribunale riqualificato il fatto in un reato più grave rispetto all’abuso d’ufficio originariamente contestato all’esito dell’istruttori dibattimentale, prospettando un inquadramento più grave, non condiviso neppure dal P.m., che aveva ritenuto i fatti riconducibili nella fattispecie di cu all’art. 646 cod. pen. con conseguente lesione del diritto di difesa. Si contesta che gli elementi di fatto siano immutati; si reputa formale la mera richiesta di interlocuzione, ad istruttoria chiusa, perché insufficiente a consentire un effettivo intervento della difesa, stanti le differenze tra i reati, o di optare riti alternativi.
1.2. Nel merito denuncia l’apparenza e l’illogicità della motivazione per avere la Corte di appello ritenuto assertive ed indimostrate le dichiarazioni della ricorrente, trascurando che nessuna delle persone offese ha negato la continuazione del rapporto di dirigenza dell’imputata con l’ufficio di appartenenza, non essendo stato nominato un vicario. Ulteriore travisamento del fatto riguarda la mancata prova dell’accordo interno circa la distribuzione delle indennità connesse alla produttività dell’ufficio, trattandosi, invece, d una prassi conseguente alle incertezze derivanti dalle circolari ministeriali, affatto considerate dalla Corte di appello, che non ha neppure motivato in ordine alla corrispondenza intercorsa con le persone offese e il Presidente della Corte di appello, dimostrativa della certezza della ricorrente di agire legittimamente.
Oltre ad omettere la motivazione su detti punti, la Corte di appello non ha considerato che le circolari non riguardavano l’ufficiale giudiziario con funzione di dirigente, che non lasciava il servizio del proprio ufficio e continuava a concorrere alla produttività dell’ufficio, continuando ad occuparsene anche nei due giorni di applicazione presso la Corte di appello. Non è stato rilevato l’erroneo riferimento del Tribunale ad una circolare del 2007, che non riguardava un dirigente, mentre la ricorrente aveva agito in base all’art. 133 DPR n. 1229/59, che attribuisce al dirigente l’onere di distribuire le somme percepite a titolo di indennità tra gli appartenenti all’ufficio secondo il profilo in parti uguali. Manca, comunque, il dolo e la lesione degli interessi della PA, essendosi la ricorrente appropriata di somme di spettanza dei dipendenti, con condotta che anche il P.m. aveva ricondotto all’art. 646 cod. pen.
1.3 Con il terzo motivo si eccepisce la violazione degli artt. 51 e 59 cod. pen. e il vizio di motivazione per avere la ricorrente agito in buona fede,
stante la possibilità di incorrere in errore per il gran numero di circolari e regolamenti di difficile interpretazione. Con motivazione illogica la Corte di appello non ha considerato che l’art. 133 DPR cit. non integra il precetto penale, ma regolamenta le modalità di percezione delle indennità di trasferta.
1.4. Con l’ultimo motivo si eccepisce la violazione degli artt. 28 e 29 cod. proc. pen. per violazione del divieto di reformatio in peius, avendo la Corte di appello condannato l’imputata anche all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, nonostante il Tribunale non avesse applicato la pena accessoria, peraltro, applicata erroneamente, non essendo applicabile l’interdizione perpetua in caso di condanna inferiore a 5 anni di reclusione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso é fondato limitatamente all’ultimo motivo, infondato nel resto.
1.1. È del tutto infondato il primo motivo, già respinto con corretta motivazione dai giudici di merito, attenutisi ai principi affermati da questa Corte sul tema.
E’ principio pacifico in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza che, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051; Sez. 3, n.24932 del 10/02/2023, COGNOME, Rv. 284846 – 04), come avvenuto nel caso di specie.
Questa Corte ha sempre precisato che «non è sufficiente qualsiasi modificazione dell’accusa originaria, ma è necessaria una modifica che pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato», ipotesi che non ricorre quando «nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l’imputato in condizioni di difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza, da intendersi come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi
esatti contorni» (Sez. 5, n. 7984 del 24/09/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 254648).
Nel caso in esame la Corte territoriale ha escluso la diversità del fatto, in quanto tutti gli elementi materiali costitutivi dell’ipotesi ritenuta in sentenza quali la qualità di pubblico ufficiale, il possesso o comunque la disponibilità del bene e l’appropriazione dello stesso- erano presenti esplicitamente nella originaria contestazione in fatto, tenuto anche conto di tutte le risultanze probatorie a conoscenza dell’imputata, sicché non vi è stata lesione del diritto di difesa, non essendovi stata una riqualificazione del fatto a sorpresa, ma, anzi, garantita alla difesa l’interlocuzione all’esito dell’istruttoria dibattiment ed avendo la difesa potuto contestare la diversa qualificazione del fatto ritenuto in sentenza sia in appello che nel ricorso per cassazione. Invero, ferma l’immutazione del fatto, si è esclusa la violazione del contraddittorio anche nel caso in cui la riqualificazione del fatto avvenga direttamente in sentenza, potendo l’imputato esercitare il diritto di difesa in fase di impugnazione.
Corretta è anche la risposta resa in sentenza in ordine ai riti alternativi, essendo la riqualificazione prevedibile e non preclusa l’opzione per i riti alternativi anche in relazione al reato originariamente contestato; peraltro, la diversa qualificazione del fatto, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, n attribuisce all’imputato il diritto alla rimessione nel termine per la scelta di r alternativi (Sez. 5, n. 13597 del 12/03/2010, COGNOME, Rv. 246719).
I motivi di merito, trattabili congiuntamente, sono infondati, ai limiti dell’inammissibilità nella misura in cui ripropongono censure già dedotte in appello, motivatamente disattese.
Il ricorso ripropone la tesi della buona fede della ricorrente, attenutasi alla prassi sempre applicata nell’ufficio per gli ufficiali giudiziari in malattia distaccati, ma la ricorrente non si avvede che la tesi contrasta con la stessa prospettazione difensiva, che fa leva sulla non equiparabilità della posizione del dirigente con quella dei dipendenti.
Peraltro, la Corte di appello ha dato atto della mancanza di prova dell’esistenza di un accordo interno in tal senso e della impossibilità di considerare la ricorrente dipendente dell’ufficio di appartenenza nei due giorni di distacco presso la Corte di appello, non essendo stata dimostrata l’affermazione di continuare a gestire il proprio ufficio anche in detti giorni; e ciò alla luce delle dichiarazioni delle persone offese, che il ricorso svaluta in ragione dell’interesse economico di cui sono portatrici, nonostante l’affermazione sia stata ritenuta priva anche di un qualsiasi riscontro documentale.
L’addebito ha ad oggetto l’indebita percezione dell’indennità di trasferta – determinata dalla legge e di recente adeguata al costo della vita con decreto del 27/11/2023 del Capo dipartimento dell’organizzazione giudiziaria di concerto con il Ragioniere dello Stato-, da parte della ricorrente in qualità di dirigente per i giorni in cui non lavorava presso l’ufficio di appartenenza, ma era distaccata presso la Corte di appello e per attività esterne, pacificamente da lei non svolte (v. in dettaglio pag. 5 e 6 sentenza di primo grado).
3.1. Anche alla luce della precisazione di cui al punto precedente, deve ritenersi incontestabile la natura pubblica delle somme in oggetto, dovute per l’attività e il servizio pubblico svolto, con conseguente improponibilità della derubricazione nell’ipotesi meno grave di cui all’art. 646 cod. pen., trattandosi di prospettazione riduttiva, che guarda unicamente alla fase distributiva ed ai destinatari finali delle somme e non alla natura pubblica delle somme introiate in relazione al servizio pubblico svolto e destinate ai dipendenti addetti all’ufficio proprio in ragione delle mansioni svolte.
3.2. Concordemente i giudici di merito hanno escluso la buona fede della ricorrente, valorizzando la mancata risposta alle reiterate richieste delle persone offese, dirette anche al Presidente della Corte di appello, di avere accesso ai verbali di riparto delle indennità di trasferta.
E’ stato, inoltre, escluso l’errore di interpretazione delle circolari o dell norma di riferimento per la ripartizione dei proventi, trattandosi di norma riferita proprio alla posizione del dirigente, cui spetta il compito di ripartire somme incamerate dalla PA tra gli aventi diritto; peraltro, la difesa non ha confutato in modo specifico le argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado con puntuale riferimento alle risultanze della documentazione d’ufficio esaminata dal consulente tecnico – v. pag. 7-9 sentenza di primo grado-.
Ne deriva la infondatezza delle censure difensive a fronte della conforme ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito in relazione all’appropriazione indebita di somme di denaro di cui la ricorrente aveva la disponibilità per ragioni di ufficio ed era titolata a ripartirle tra gli aventi dir
E’, invece, fondato l’ultimo motivo nei limiti di seguito precisati.
A differenza di quanto sostenuto nel ricorso, è legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice d’appello, delle pene accessorie non applicate da quello di primo grado, ancorché la cognizione della specifica questione non sia stata devoluta con impugnazione del pubblico ministero, trattandosi di pene che conseguono di diritto alla condanna come effetti della stessa (Sez. 6, n. 31358 del 14/06/2011, Navarria e altro, Rv. 250553; Sez.3, n. 30122 del 20/12/2016, dep.2017, Demma, Rv. 270455).
E’, tuttavia, erronea l’applicazione dell’interdizione perpetua, dovendo la durata essere temporanea e pari a 5 anni se la pena inflitta è inferiore a tre anni di reclusione, come nel caso di specie; essendo la durata della pena accessoria stabilita in misura fissa dall’art.29 cod. pen., al ridimensionamento della stessa può provvedere direttamente questa Corte.
P. Q. M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici che sostituisce con la interdizione temporanea per la durata di anni cinque. Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso, 24 gennaio 2025
Il consigliereensore . 7,
Pfesidente