Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 26358 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 26358 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 22/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato il 14/07/1968 a Bologna avverso la sentenza del 10/10/2024 dalla Corte d’appello di Bologna;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
NOME COGNOME che chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’appello di Bologna ha confermato la condanna dell’imputato per il delitto di peculato (capo D) perché, in qualità di dipendente dell’ufficio Tutele de Comune di Bologna, delegato alla gestione di una persona interdetta della quale l’Ente era nominato tutore, e dunque come pubblico ufficiale, avendo per ragioni d’ufficio il possesso di C 1.920,48 ricevuti dal locatore dell’immobile di proprietà
della tutelata e costituente il residuo di canoni di affitto dovuti al momento della riconsegna dell’appartamento, si appropriava di detta somma, non depositandola sui conti della tutelata e trattenendola per sé.
Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l’imputato, deducendo tre motivi.
2.1. Errata applicazione dell’art. 358 cod. pen. nella parte in cui è stata attribuita al ricorrente la qualifica di incaricato di pubblico servizio, in relazione pecu lato.
COGNOME era dipendente del Comune di Bologna senza funzione di tutore legale, funzione che restava in capo all’assessore, unico soggetto dotato, per delega diretta del Sindaco, di poteri connessi alle tutele e curatele.
Le attività concretamente svolte dal ricorrente erano quelle di impiegato che curava il solo profilo amministrativo delle pratiche presso l’Ufficio Tutele Comune, dedicandosi alla gestione contabile delle stesse e al loro nnonitoraggio, senza autonomia di indirizzo e di spesa.
Quanto al potere di maneggiare il denaro, cui la Corte di appello assegna notevole rilievo, nel 2012, era stato emesso un provvedimento di autorizzazione al maneggio di somme di denaro per alcuni dipendenti, tra cui COGNOME, che tuttavia assegnava compiti ben circoscritti e limitati, pur sempre di mero ordine.
Le transazioni bancarie, il pagamento di imposte e tasse, la riscossione di canoni di locazione e degli altri crediti, l’assunzione delle badanti e il lor pagamento, cui si richiama il provvedimento impugnato, erano, cioè, attività amministrative eterodirette, prive di margini discrezionali.
Né può attribuirsi rilievo al rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione, le qualifiche soggettive pubblicistiche essendo declinate in chiave oggettivo-funzionale, come confermato dalla giurisprudenza di legittimità.
2.2. Errata applicazione dell’art. 314 cod. pen.
La Corte sembra ritenere coperto da giudicato interno l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 314 cod. pen., quando invece, nell’atto di appello, si evidenziava l’assenza di elementi univoci a denotare l’apprensione e il trattenimento della somma da parte dell’appellante, nonché l’elemento soggettivo.
Sotto tale ultimo aspetto, i Giudici di secondo grado reputano, in particolare, non credibile che l’importo sia rimasto incustodito nell’ufficio, senza argomentare alcunché sulla pur acclarata confusione in cui versava quest’ultimo.
2.3. Violazione dell’art 175 cod. pen. e vizio di motivazione.
La Corte ha applicato il beneficio di cui all’art. 163 cod. pen., ma ha omesso di pronunciarsi sulla mancata concessione della non menzione della condanna nel casellario giudiziale.
Sebbene le finalità dei due benefici siano diverse (la sospensione condizionale della pena mira a sottrarre alla punizione il colpevole che presenti una possibilità di ravvedimento; la non menzione mira ad eliminare la pubblicità quale conseguenza negativa del reato) – sicché non è contraddittorio che un beneficio sia negato e l’altro concesso -, in tal caso, la determinazione discrezionale deve tuttavia essere sorretta da una motivazione congrua e puntuale, che esponga le ragioni per cui ritiene che gli elementi valutabili favorevolmente per la concessione dell’una non siano meritevoli di fondare la concessione dell’altro.
Di conseguenza, l’incensuratezza, la prognosi favorevole circa l’astensione dalla commissione di ulteriori reati, lo stile di vita assolutamente regolare di Saggiorato: sono elementi che avrebbero dovuto essere valutati ai fini dell’art. 175 cod. pen.
La parte civile, Comune di Bologna, ha presentato una memoria scritta.
Premesso che la qualifica di incaricato di pubblico servizio è ipotizzabile anche in via di mero fatto, è stato comunque accertato che l’ufficio di tutore ricadeva in capo all’assessore competente per materia e che, tuttavia, l’attività gestionale e di supporto all’organo di direzione politica era demandata all’unità organizzativa cui l’imputato era preposto e che esercitava in autonomia le funzioni demandategli.
Ai fini dell’integrazione del peculato, rileva anche la mera disponibilità materiale del bene, nel caso di specie pacifica, antecedente alla condotta appropriativa e intrinsecamente correlata alle mansioni dell’agente; sussistono, inoltre, sia la volontà di comportarsi uti dominus sia la consapevolezza di avere la disponibilità del bene per ragione del servizio e la volontà di appropriarsene.
Il ricorrente ha presentato motivi aggiunti e poi una memoria di replica alla requisitoria scritta del Procuratore Generale.
Insistendo per l’accoglimento del ricorso, ribadisce che COGNOME era un mero impiegato, privo di poteri decisionali, ed evidenzia come il beneficio della non menzione, chiesto nelle conclusioni dell’appello, potesse essere riconosciuto in considerazione, in particolare, della personalità e del comportamento processuale collaborativo dell’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
1.1. Il ricorrente richiama giurisprudenza anche risalente di questa Corte, volta a valorizzare l’art. 358, comma 2, ult. parte, cod. pen., escludendo che possa
essere ritenuto incaricato di pubblico servizio chi svolga attività meramente esecutive.
Tale orientamento, affatto condivisibile e recentemente ribadito (V. per esempio, Sez. 6, n. 38600 del 12/07/2024, D’Atri, Rv. 287032; Sez. 6, n. 22275 del 31/01/2024, Puglisi, Rv. 286613; Sez. 6, n. 18966, del 01/04/2025, Galiano, non mass. e Sez. 6 n. 15783 del 18/03/2025, Lanatà, non mass.), nega la qualifica pubblicistica, in base al richiamato dettato legislativo, in capo a chi svolge attività seriali, materiali e/o meramente esecutive, dal cui esulano, cioè, profili di apprezzamento discrezionale nonché di impegno ideativo ed intellettuale.
Tale non è il caso di COGNOME.
1.2. La Corte d’appello, nel replicare ad analoga deduzione, chiarisce, infatti, come dalla lettera di incarico dell’assessore al welfare risulti che il ricorrente era delegato all’espletamento delle formalità e dei compiti necessari nella cura delle pratiche inerenti la dichiarazione dei redditi, la richiesta di certificazione unica, la gestione delle pensioni sociali o di vecchiaia e di invalidità, la predisposizione dei modelli ISEE dei soggetti interdetti o inabilitati in carico al Comune di Bologna e che, a completamento di tale incarico, aveva una specifica delega a maneggiare il denaro, proprio in relazione a tali funzioni.
Precisa che dalle risultanze probatorie era emerso che COGNOME esercitava in autonomia le funzioni demandate, senza che fosse necessaria un’autorizzazione per ogni singolo atto di gestione, e che si occupava in autonomia delle transazioni bancarie, del pagamento di imposte e tasse, della riscossione dei canoni di locazione e degli altri crediti, dell’assunzione delle badanti e della loro retribuzione, provvedendo a tutti quegli atti di gestione ordinaria che implicano anche attività di scelta, valutazione, controllo e decisione.
Aggiunge che lo stesso imputato aveva d’altronde confermato la latitudine dei propri compiti, che potevano andare dagli aspetti amministrativi a quelli patrimoniali, dall’apertura di un conto corrente alla gestione dei proventi di locazioni, oltre alle pratiche già indicate, e che solo con riguardo alle procedure relative alla vendita di beni immobili egli seguiva un procedimento più complesso, le decisioni essendo prese con i superiori dell’ufficio e dovendo essere sottoposta al giudice tutelare.
Conclude, correttamente, che l’attività svolta era delegata all’imputato entro ampi limiti, e caratterizzata da profili di discrezionalità o autonomia decisionale.
Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.
I Giudici di merito reputano pacifiche e non contestate le circostanze: della ricezione della somma oggetto di contestazione da parte di COGNOME; del
mancato versamento della stessa sul conto dell’amministrata e in favore di essa; della sua mancata contabilizzazione.
La sintesi di tale passaggio nulla toglie alla completezza della motivazione, considerato che il concetto di appropriazione si delinea in virtù della sua connotazione eminentemente soggettiva e che su questa correttamente insiste la sentenza, allo scopo di escludere il carattere colposo del mancato versamento.
L’imputato – specifica, in tal senso, la Corte d’appello – non aveva provveduto ad alcuna annotazione o contabilizzazione, né può ritenersi verosimile che avesse appoggiato la somma sul tavolo per poi dimenticarsene, senza annotarne la ricezione nel fascicolo e custodire almeno una copia della ricevuta degli atti del Comune per dare contezza del pagamento.
Inoltre, pur dando per scontata la prassi confusionaria e poco ortodossa dell’ufficio dal punto di vista della rendicontazione contabile, e ammettendo che fosse invalsa una consuetudine tenere alcune somme in contanti per far fronte ad emergenze di varo tipo, essa – chiariscono i Giudici di merito – aveva sempre riguardato importi minimi (inferiori ai C 100): laddove il peculato del capo D) ha avuto ad oggetto quasi C 2.000.
La Corte d’appello spiega, poi, come non sia dirimente il fatto che l’imputato avesse lasciato ricevuta a propria firma al locatario, Saggiorato ben potendo rappresentarsi che questi sarebbe uscito presto di scena.
E significativamente attribuisce rilievo al fatto che l’imputato avesse mentito anche al suo superiore, quando affermò di aver accantonato le somme in attesa che l’inquilino si facesse vivo a reclamarlo: tale circostanza denotando il dolo dell’appropriazione ed escludendo, per converso, che l’apprensione sia ascrivibile a mera disattenzione.
La sentenza impugnata dà, in definitiva, ampia ed argomentata prova logica dell’avvenuta appropriazione del denaro da parte di Saggiorato.
Il terzo motivo è, invece, fondato e determina la caducazione della sentenza.
3.1. Rappresenta un consolidato principio di diritto quello per cui il beneficio della non menzione della condanna di cui all’art. 175 cod. pen. è fondato sul principio dell'”emenda” e tende a favorire il processo di recupero morale e sociale del condannato, sicché la sua concessione è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito e non è necessariamente conseguenziale a quella della sospensione condizionale della pena, fermo restando – tuttavia l’obbligo del giudice di indicare le ragioni della mancata concessione sulla base degli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 2, n. 16366 del 28/03/2019, COGNOME, Rv. 275813).
Ancor più chiaramente, secondo il pacifico insegnamento di legittimità, la sentenza con cui venga concesso uno solo tra i benefici della sospensione
condizionale della pena e non menzione della condanna deve indicare le ragioni per le quali gli elementi valutati in senso favorevole per la concessione dell’uno
non siano meritevoli di fondare la concessione dell’altro oppure indicare altri elementi di segno contrario alla concessione del beneficio negato (Sez. 4,
n. 32963 del 04/06/2021, COGNOME, Rv. 281787; cfr. Sez. 4, n. 34380 del 14/07/2011, COGNOME, Rv. 251509; Sez. 3, n. 31349 del 09/03/2017,
COGNOME, Rv. 270639).
3.2. A tale insegnamento la Corte d’appello non si conforma.
dalla GLYPH
Come GLYPH
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lettura
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del GLYPH
fascicolo
GLYPH
processuale GLYPH
(Sez.
U. n. 42792 del 31/10/2001, Policastro, Rv. 220092: allorché sia dedotto un error
la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la in procedendo,
relativa questione, può accedere all’esame diretto degli atti processuali), il beneficio della non menzione della condanna nel certificato giudiziale era stato
chiesto in appello.
I Giudici di secondo grado, tuttavia, non rispondono sul punto: e ciò sebbene riconoscano la sospensione condizionale della pena, contestualmente richiesta, spiegando come l’incensuratezza dell’imputato e le sue mutate condizioni lavorative consentano una prognosi favorevole ai fini penalistici.
Si sottraggono, per tal via, ad uno specifico obbligo motivazionale.
4. La sentenza impugnata va, per questa ragione, annullata.
L’annullamento deve essere disposto senza rinvio, essendosi il reato commesso in data 1 ottobre 2012 – estinto a causa del decorso dei termini prescrizionali.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione. Conferma le statuizioni civili e condanna l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, Comune di Bologna, in persona del Sindaco pro tempore, che liquida in complessivi euro 2.120,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 22/05/2025