Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 30193 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 30193 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 04/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOMECOGNOME nato a Barcellona Pozzo di Gotto l’11/05/1970 avverso l’ordinanza del 3/02/2025 del Tribunale di Messina
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso; uditi gli Avv. NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME, difensori del ricorrente, che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 3 febbraio 2025 il Tribunale di Messina ha confermato il provvedimento emesso il 19 dicembre 2024 dal Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale, con cui a NOME COGNOME è stata applicata l misura cautelare della custodia in carcere in relazione ai reati di cui gli a
cod. pen., aggravato dall’art. 416-bis.1 cod. pen., 416-bis cod. pen. e 76 d.Lgs n. 159/2011.
NOME COGNOME è stato ritenuto gravemente indiziato dei reati di peculato, avente ad oggetto il denaro ricavato dalla vendita di beni della ditta intestata a NOME COGNOME, e di partecipazione all’associazione mafiosa denominata famiglia dei barcellonesi, che aveva come obiettivo precipuo quello di acquisire in forma diretta e indiretta la gestione e, comunque, il controllo delle attivit economiche del territorio (capi 3 e 5 dell’incolpazione provvisoria).
Avverso l’ordinanza del Tribunale hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dell’indagato.
L’Avv. NOME COGNOME ha dedotto i motivi di seguito indicati.
4.1. Con il primo motivo la lamentato violazione di legge, e, segnatamente, dell’art. 358 cod. proc. pen. e vizi della motivazione, per non essere stati valutati dal Giudice per le indagini preliminari fatti e circostanze favorevoli all’indagato, neanche prospettati da parte del Pubblico ministero. NOME COGNOME e il proposto NOME COGNOME avevano intrapreso varie iniziative giudiziarie, per opporsi alla confisca della ditta RAGIONE_SOCIALE, e avevano anche chiesto al Giudice delegato la comunicazione del rendiconto di gestione. Tra gli altri documenti prodotti vi era anche il ricorso avverso il provvedimento con cui il Giudice per le indagini preliminari aveva rigettato la richiesta di restituzione dei beni, ch richiamava, a sua volta, prove testimoniali, documentali e consulenze tecniche. Tale materiale non sarebbe stato valutato, pur essendo decisivo al fine di dimostrare: a) la non definitività della confisca, in pendenza di ricorso alla Cedu; b) l’esclusione, con sentenza irrevocabile, del ruolo apicale di NOME COGNOME; c) la legittimità dell’attività aziendale.
4.2. Con il secondo motivo ha denunciato violazione di legge e vizi della motivazione per essere state ritenute sussistenti condotte distrattive che, a seguito della riforma dei delitti contro la Pubblica amministrazione, risalente al 1990, non sarebbero più ricomprese nella fattispecie di cui all’art. 314 cod. pen. Tali condotte sarebbero state commesse materialmente dall’estraneo in maniera autonoma e nel suo esclusivo interesse, senza alcun coinvolgimento diretto o indiretto dell’intraneus, ma semplicemente giovandosi dell’omessa vigilanza di quest’ultimo. L’amministratore giudiziario, infatti, non avrebbe avuto alcuna relazione con la res, oggetto di appropriazione, giacché della stessa gli impiegati si appropriavano prima ancora che rientrasse nelle casse dell’azienda. Tra
l’intraneo e la res, quindi, non sarebbe stata configurabile alcuna relazione di possesso per ragioni di ufficio o servizio e, nel porre in essere le condotte predatorie, gli estranei avrebbero sfruttato la loro personale relazione con i beni e l’assenza dell’intraneo, che non avrebbe avuto alcun vantaggio. Inoltre, non vi sarebbe prova della consapevolezza in capo all’intraneo delle condotte commesse dagli estranei, salvo alcuni indizi legati esclusivamente all’atteggiamento particolarmente riservato e ossequioso assunto dall’amministratore giudiziario con gli COGNOME. Nè potrebbe desumersi un riscontro dell’ipotesi accusatoria dall’avere il ricorrente concordato con l’amministratore giudiziario come giustificare presso il Commissariato di Pubblica sicurezza la richiesta di un nuovo registro ex art. 264 d.P.R. 495/92. Secondo il Tribunale, da ciò si ricaverebbe la disponibilità dell’amministratore a collaborare anche fattivamente con i coindagati, al fine di consentire che l’attività della ditta Bellinvia continuasse a essere svolta al di fuori di ogni controllo e che proseguisse la commercializzazione in nero dei pezzi di ricambio delle autovetture. Così argomentando, però, sarebbe stato trascurato che la mancata rendicontazione delle rottamazioni nei registri de quibus non sarebbe stata funzionale a favorire le vendite in nero, dal momento che di ogni veicolo rottamato doveva darsi comunque comunicazione al P.R.A. anche ai fini della dismissione delle targhe, come prescritto dal medesimo art. 264, commi 1 e 2, d.P.R. cit. Anche in assenza dei registri di Pubblica sicurezza, quindi, vi sarebbe stato un preciso e documentale riscontro di ogni rottamazione eseguita dalla ditta. Le condotte sarebbero riconducibili più ad ipotesi distrattive che appropriative, estromesse dalla fattispecie incriminatrice in esame sin dalla riforma dei reati contro la Pubblica amministrazione del 26 aprile 1990, per confluire in via interpretativa nel reato di abuso di ufficio, oggi abrogato. A tutto voler concedere, dovrebbe applicarsi l’art. 314-bis cod. pen. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
4.3. Con il terzo motivo ha dedotto violazione di legge e vizi della motivazione con conseguente assenza di presunzione delle esigenze cautelari, per non essere il reato di cui al capo 3) dell’imputazione stato commesso al fine di agevolare l’associazione mafiosa dei barcellonesi. Con la richiesta di riesame la difesa aveva dedotto l’erronea configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod. pen., in quanto il ricorrente, nel commettere le condotte contestategli, aveva operato esclusivamente nel suo interesse. Né la sussistenza dell’aggravante potrebbe desumersi dalla ritenuta sussistenza di gravi indizi di colpevolezza dell’indagato per il reato di cui al capo 5), ossia l’associazione di stampo mafioso, attesa la diversità dei presupposti applicativi delle due fattispecie. Non vi sarebbe un solo indizio da cui poter desumere che le somme distratte dalle casse societarie avessero preso direzione diversa da quella delle
famiglie Ofria, così come andrebbe esclusa l’asserita finalità di sostentamento dei consociati in carcere. Ciò in quanto l’elargizione di somme di denaro in favore delle famiglie e degli esponenti mafiosi NOME COGNOME e NOME COGNOME andrebbe considerata quale condotta volta al sostentamento dei propri familiari più stretti e non quale agevolazione della consorteria dei barcellonesi.
4.4. Con il quarto motivo ha lametato violazione di legge e vizi della motivazione, per essere stata ritenuta sussistente la gravità indiziaria per il reato di associazione di stampo mafioso in assenza dei requisiti costitut ivi. Le condotte, contestate agli indagati, sia pure volte ad indebiti fini di lucro, no sarebbero state finalizzate a realizzare gli scopi della presunta associazione. Verrebbero in rilievo singoli ed isolati episodi, quali, ad esempio, la vicenda del licenziamento o del terreno, da cui si ricaverebbe che la forza di intimidazione (ove realmente esistente) non deriverebbe dal vincolo associativo quanto – ma solo in via di mera ipotesi – dalla singola persona: profilo incompatibile con l’applicazione dell’art. 416-bis cod. pen., che richiede la realizzazione di un programma criminoso indefinito, grazie al clima di intimidazione e omertà che deriva dal vincolo associativo. Né il reato in questione potrebbe essere desunto dall’asserita finalità di sostentamento dei consociati in carcere, risolvendosi tale presunta finalità in dazioni di denaro ora per una ricorrenza, ora per le scarpe, ora per il mantenimento dell’anziana madre. Le uniche dazioni sarebbero avvenute in favore di NOME COGNOME, moglie di NOME COGNOME e sorella di NOME e NOME COGNOME, e di NOME COGNOME, moglie di NOME COGNOME, a sua volta nipote di COGNOME, in quanto figlio dell’altra sorella di NOME e NOME, ossia NOME COGNOME. Si sarebbe trattato di elargizioni basate sull’affectio familiaris e non societatis. Né quali elementi di riscontro potrebbero valere l’atteggiamento reverenziale manifestato nei confronti di NOME COGNOME, moglie dell’ex capo mafia NOME COGNOME, e l’offerta di riparare l’autovettura di questa, dal momento che la signora non era un’affiliata e dalla riparazione di un’auto non potrebbe ricavarsi la finalità di sostentamento del marito detenuto. Non sussisterebbe, infine, in capo al ricorrente la consapevolezza dell’esistenza di una consorteria criminale, collettore finale delle elargizioni conseguenti alla distrazione di somme dalle casse societarie. Il ricorrente era il ragioniere della ditta e ogni sua condotta si sarebbe svolta ed esaurita in quell’ambito. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
4.5. Con il quinto motivo ha dedotto violazione di legge e vizi della motivazione, essendo stata applicata la massima misura cautelare, pur essendo l’indagato incensurato e la ditta sottoposta a sigilli dall’Autorità giudiziaria Tribunale avrebbe valorizzato sia un incontro del ricorrente con COGNOME e altri soggetti, svoltosi in modo non segreto, perché di giorno e all’interno di un bar, sia l’essere il ricorrente stato ripreso mentre contava con l’amministratore
giudiziario una ingente somma di denaro. Non si sarebbe accertato, però, non solo l’oggetto dell’incontro, ma anche se il conteggio del denaro fosse una normale attività giornaliera di verifica degli incassi in contanti e se quelle somme fossero state registrate nelle scritture contabili.
Gli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno dedotto i motivi di seguito indicati.
5.1. Con il primo mctivo hanno lamentato violazione di legge nonché manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, per non avere il Tribunale riconosciuto che, nel caso in esame, si sarebbe di fronte ad un’associazione con composizione soggettiva familiare, che, talune volte, avrebbe sfruttato la caratura mafiosa di uno dei componenti, derivante dall’essere appartenuto a un sodalizio storico. I collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME avrebbero riferito di un recesso avvenuto decenni fa da parte di NOME COGNOME e NOME COGNOME dall’associazione dei barcellonesi, mentre l’altro collaboratore NOME COGNOME nulla avrebbe riferito in proposito, affermando solo di aver saputo dal figlio di NOME COGNOME che quest’ultimo di fatto gestiva ancora l’azienda di famiglia confiscata. Anche le conversazioni tra NOME COGNOME e NOME COGNOME e tra quest’ultimo e NOME COGNOME non dimostrerebbero l’attualità e l’operatività di NOME COGNOME nell’interesse dell’associazio denominata famiglia mafiosa barcellonese. Non emergerebbe dall’indagine che gli COGNOME ritenessero l’azienda come appartenente all’associazione dei barcellonesi. Risulterebbe, poi, che solo gli stretti familiari avevano usufruito delle condotte predatorie, perpetrate a danno dell’azienda, mentre gli altri appartenenti all’associazione non avevano interesse alcuno nella ditta RAGIONE_SOCIALE. L’attività appropriativa aveva un unico scopo, ossia quello di gestire l’azienda confiscata come propria e appartenente al nucleo familiare ristretto. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
5.2. Con il secondo motivo hanno dedotto vizi della motivazione in relazione alla condotta di partecipazione del ricorrente all’associazione. L’attività d quest’ultimo sarebbe stata finalizzata esclusivamente ad ottenere un proprio tornaconto personale e il mantenimento in vita dell’azienda.
5.3. Con il terzo motivo hanno denunciato la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza del reato di peculato. La condotta appropriativa del ricorrente è stata qualificata come peculato per il ritenuto concorso omissivo dell’amministratore giudiziario, che avrebbe dolosamente omesso di controllare l’azienda. Il concorso di NOME COGNOME, però, non sussisterebbe, poiché non emergerebbe dagli atti che quest’ultimo avesse consapevolezza dell’esistenza di una cassa contanti, oggetto di condotte predatorie, come confermato dagli indagati durante gli interrogatori di garanzia.
5.4. Con il quarto motivo hanno dedotto la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante dell’avere agevolato l’associazione mafiosa denominata famiglia dei barcellonesi. Il Tribunale del riesame, nell’affermare che le condotte predatorie erano finalizzate non solo all’appropriazione personale, ma anche al mantenimento di altri affiliati, avrebbe trascurato che, a fronte della rilevante attività predatoria, erano state effettuate piccole dazioni di denaro ai propri nipoti, ora per il matrimonio, ora per l’acquisto delle scarpe, ora per regali occasionali, mentre la dazione mensile da parte di NOME COGNOME alla cognata NOME COGNOME era stata determinata, come riferito nell’interrogatorio anche da NOME COGNOME, dal congiunto pagamento della badante della mamma degli COGNOME, che conviveva con Santa Ofria. Irrilevante sarebbe anche l’episodio concernente NOME COGNOME, moglie del boss COGNOME. In definitiva, NOME COGNOME avrebbe avuto il dolo intenzionale di gestire l’azienda appropriandosi dei lauti compensi, ma non di favorire l’attività associativa dei barcellonesi.
5.5. Con il quinto motivo hanno denunciato vizi della motivazione in relazione alla proporzionalità della misura cautelare applicata. L’azienda confiscata era stata chiusa e il ricorrente, privo di precedenti penali, avrebbe posto in essere solo attività gestorie dell’azienda, appropriandosi dei profitti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere rigettato, in quanto i motivi, in esso articolati, sono nel complesso infondati.
Il primo motivo del ricorso a firma dell’Avv. NOME COGNOME è, in parte, non consentito e, in parte, privo di specificità.
Va innanzitutto osservato, come già precisato da questa Corte, che il dovere del pubblico ministero di svolgere attività di indagine a favore dell’indagato non è presidiato da alcuna sanzione processuale, sicché la sua violazione non può essere dedotta con ricorso per cassazione fondato sulla mancata assunzione di una prova decisiva. Si è chiarito al riguardo che la valutazione della necessità di accertare fatti e circostanze favorevoli spetta unicamente al pubblico ministero, che agisce come organo di giustizia, non essendo vincolato, in tale veste, dalle indicazioni della difesa (Sez. 3, n. 47013 del 13/07/2018, L., Rv. 274031 – 01; Sez. 2, n. 10061 del 20/11/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 254872 – 01).
Alla luce di quanto precede deve rilevarsi che la doglianza, formulata dal ricorrente, non è consentita nella parte in cui stigmatizza la mancata raccolta da parte del Pubblico ministero di elementi favorevoli all’indagato.
Va poi aggiunto che è priva di specificità la deduzione, articolata sempre nel primo motivo, relativa all’omessa valutazione della documentazione che sarebbe stata decisiva al fine di dimostrare: a) la non definitività della confisca, pendenza di ricorso alla Cedu; b) l’esclusione del ruolo apicale di NOME COGNOME con sentenza irrevocabile; c) la legittimità dell’attività dell’impresa Bellinvia.
Va ribadito che, in tema di ricorso per cassazione, ai fini della deducibilità del vizio relativo alla omessa valutazione della prova esistente agli atti, è necessario che venga prospettata :a decisività dell’omissione nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica (cfr.: Sez. 6, n. 36512 del 16/10/2020, COGNOME, Rv. 280117 – 01; Sez. 2, n. 19848 del 24/05/2006, P.M. in proc. COGNOME, Rv. 234162 – 01).
Nel caso in disamina, il ricorrente non ha adempiuto all’onere sul medesimo incombente, non avendo illustrato le ragioni per cui le circostanze, asseritamente pretermesse, sarebbero state idonee a scalfire o, comunque, a porre in crisi la complessiva tenuta del discorso logico-argomentativo delineato dal Giudice della cautela. Ne discende che la doglianza è generica.
Ad ogni modo, può aggiungersi che, in sede di riesame, l’indagato aveva lamentato la mancata valutazione delle circostanze emerse dalle indagini effettuate dalla difesa per promuovere l’incidente di esecuzione avverso il provvedimento di confisca penale della ditta Bellinvia e il Tribunale ha osservato che la difesa aveva fornito una prospettazione alternativa dei fatti in valutazione, che muoveva da una premessa di fondo non plausibile, ossia che le vicende ablative relative alla menzionata ditta non avessero assunto ancora caratteri di definitività, essendo pendente un incidente di esecuzione promosso dai terzi interessati alla confisca penale. Il Collegio della cautela ha rilevato che lo strumento dell’incidente di esecuzione presuppone la definitività del provvedimento di confisca e dell’accertamento ivi contenuto (ossia la natura mafiosa dell’impresa Bellinvia e la riconducibilità della stessa a NOME COGNOME), con la conseguenza che la mera pendenza dell’incidente di esecuzione non fa venir meno per ciò solo la definitività del titolo. Inoltre, il Tribunale sottolineato che l’incidente di esecuzione, al quale aveva alluso la difesa, aveva ad oggetto esclusivamente la confisca penale dell’impresa e non quella di prevenzione, ormai definitiva dal 6 luglio 2017, sicché, anche laddove si volesse considerare plausibile l’opzione interpretativa proposta dal difensore sulla non definitività della confisca penale, in ogni caso sulla ditta Bellinvia graverebbe un altro titolo definitivo, ossia la confisca di prevenzione.
Il secondo motivo del ricorso dell’Avv. COGNOME e il terzo motivo del ricorso degli Avv.ti COGNOME COGNOME sono infondati.
3.1. Il reato di peculato è stato ascritto al ricorrente in concorso con altr soggetti, tra cui, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME quest’ultimo amministratore giudiziario della ditta Bellinvia, sottopost a confisca sia di prevenzione che ai sensi dell’art. 12-sexies L. n. 356/1992, entrambe disposte nei confronti di NOME COGNOME condannato in via definitiva per la partecipazione all’associazione mafiosa dei barcellonesi.
In particolare, si è contestato che l’amministratore giudiziario COGNOME aveva consentito al ricorrente e ai componenti della famiglia COGNOME di continuare a gestire la ditta Bellinvia e di appropriarsi del ricavato della vendita in nero pezzi di ricambio per autovetture.
Contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, la condotta, come descritta nell’imputazione provvisoria e accertata all’esito delle indagini compiute, continua a rientrare nell’alveo di cui all’art. 314 cod. pen.
Questa Corte ha già avuto modo di precisare che, in tema di reati contro la Pubblica amministrazione, il delitto di indebita destinazione di denaro o cose mobili, di cui all’art. 314-bis cod. pen., introdotto dall’art. 9, comma 1, d.l luglio 2024, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 agosto 2024, n. 112, sanziona le condotte distrattive di beni, le quali, nella disciplina previgente erano inquadrate nella fattispecie abrogata dell’abuso di ufficio, sicché l’ambito applicativo del delitto di peculato non risulta modificato dall’introduzione della nuova fattispecie incriminatrice (Sez. 6, n. 4520 del 23/10/2024, dep. 2025, COGNOME, Rv. 287453 – 02).
Restano, quindi, punibili ai sensi dell’art. 314 cod. pen. le ipotesi – come quella ascritta provvisoriamente al ricorrente – in cui la condotta distrattiva integra un’effettiva appropriazione, essendo la res 45 sottratta in modo definitivo dalla finalità pubblica per conseguire finalità private proprie o altrui. Co riferimento a queste ipotesi di “distrazione appropriativa” vi è, dunque, continuità nella qualificazione giuridica e, di conseguenza, nella risposta sanzionatoria, sempre affidata all’art. 314 cod. pen.
3.2. Deve poi osservarsi che nel delitto di peculato possono concorrere con l’agente pubblico, ai sensi dell’art. 110 cod. pen., anche soggetti non qualificati e non è necessario che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio sia l’esecutore materiale della condotta appropriativa, ben potendo questa, contrariamente a quanto prospettato dal ricorrente, essere compiuta da un extraneus. È, tuttavia, indispensabile che il correo privo di qualifica soggettiva, per appropriarsi della cosa, sfrutti la relazione “di possesso per ragioni di uffici o di servizio” che il pubblico agente ha con la res. Se non vi è lo sfruttamento strumentale di detta relazione, propria del pubblico agente, non si configura il
peculato, ma, al più, altri reati quali il furto o l’appropriazione indebita (cfr. i senso: Sez. 6, n. 36566 del 21/06/2024, COGNOME, Rv. 287025 – 01)
È altresì necessario che i partecipi siano consapevoli della situazione di fatto in cui operano e contribuiscano consapevolmente, ciascuno per la sua parte, a realizzare lo stesso reato (Sez. 6, 17503 del 24/01/2018, COGNOME, Rv. 272908 01; Sez. 6, n. 2005 del 05/08/1980, COGNOME, Rv. 146264 – 01). Il combinarsi dell’art. 110 cod. pen. con una specifica norma incriminatrice consente il cosiddetto concorso unilaterale perché determina fattispecie incriminatrici plurisoggettive eventuali, che puniscono contributi alla realizzazione del fatto, animati (a prescindere da un previo concerto con gli altri partecipanti) dall’elemento psicologico del reato.
È evidente, quindi, che l’amministratore giudiziario, quale gestore formale dell’impresa Bellinvia, aveva il possesso dei beni aziendali e anche del denaro ricavato dalla vendita di essi.
Nel caso in esame, va rilevato che dalla ricostruzione contenuta nell’ordinanza impugnata risulta che NOME COGNOME è stato nominato amministratore giudiziario dell’impresa Bellinvia nell’ambito sia del procedimento di cognizione, definito con la confisca per sproporzione del bene, sia di quello di prevenzione e, ai sensi dell’art. 2-sexies della L. n. 575/1965 (disciplina previgente applicabile alla procedura in ragione dell’epoca nella quale era stata avanzata la proposta di sequestro) si era impegnato dinanzi al giudice delegato ad adempiere con diligenza ai compiti del suo ufficio e, quindi, a provvedere ex art. 2 cit. «alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati, anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi». In concreto, pertanto, l’amministratore, con l’incarico ricevuto, aveva assunto il controllo dell’azienda sottratta al proposto e si era obbligato a gestirla, dapprima, per conto di chi spetta sino al provvedimento di confisca e, poi, quantomeno dall’anno 2017, allorché è divenuta definitiva la confisca di prevenzione, e fino alla definitiva destinazione della stessa all’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati, nell’esclusivo interesse dello Stato. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
È noto che, in tema di peculato, la nozione di possesso di danaro deve intendersi come comprensiva non solo della detenzione materiale della cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica, nel senso che il soggetto agente deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità del danaro e di conseguire quanto poi costituisca oggetto di appropriazione. Ne consegue che l’inversione del titolo del possesso da parte del pubblico ufficiale, che si comporti uti dominus nei confronti del danaro, del quale ha il possesso in ragione del suo ufficio, e la sua conseguente appropriazione
possono realizzarsi anche nelle forme della disposizione giuridica, del tutto autonoma e libera da vincoli, del danaro stesso, indisponibile in ragione di norme giuridiche o di atti amministrativi (Sez. 6, n. 7492 del 18/10/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 255529 – 01).
Assodato che l’amministratore giudiziario aveva il possesso dei beni dell’azienda, va poi rilevato che dall’ordinanza impugnata risulta che le immagini riprese dal sistema di videosorveglianza dimostravano che giornalmente NOME COGNOME faceva confluire il denaro, provento della vendita dei prodotti dell’azienda e non fatturato all’interno di un portafoglio, che si trovava nel suo ufficio, da quale venivano quotidianamente prelevate centinaia di euro che finivano nelle tasche degli Ofria.
Risulta, inoltre, che l’amministratore giudiziario, consapevole delle dinamiche illecite che si verificavano all’interno dell’azienda, tanto da avere rivelato alla moglie, durante una conversazione dell’ottobre 2024, che la famiglia COGNOME dirigeva nell’ombra le attività predatorie dei dipendenti, non solo aveva tollerato la presenza degli COGNOME in seno all’azienda, ma aveva anche consentito l’attività in nero e il prelievo del denaro, svolti, come detto, no occasionalmente, ma in via continuativa, e si era spinto sino a dare consigli agli COGNOME su come mantenere le posizioni consolidate, avendo promesso, addirittura, che avrebbe continuato a coadiuvare l’Agenzia Nazionale dei beni confiscati nel loro esclusivo interesse.
Tali circostanze sono state valutate dal Tribunale, con motivazione persuasiva e priva di vizi logici, quale sintomo della consapevole abdicazione di Virgillito allo svolgimento dei propri compiti e della sua sudditanza agli Ofria in funzione della piena realizzazione dei loro interessi.
Con particolare riferimento al ricorrente, l’ordinanza impugnata ha rimarcato che – sulla base delle intercettazioni e delle immagini riprese – era risultato che egli aveva consentito a NOME COGNOME ai suoi figli NOME e NOME COGNOME, a NOME COGNOME, alla moglie NOME COGNOME e al figlio NOME COGNOME di incamerare una rilevantissima parte dei profitti aziendali, che aveva spartito tra costoro, trattenendone al contempo una quota altrettanto cospicua per sé. Egli era deputato a svolgere attività di cassa e aveva ricevuto l’incarico dagli amministratori di fatto NOME COGNOME e NOME COGNOME di tenere la doppia contabilità, suddividendo le vendite in quelle che dovevano essere regolarmente contabilizzate da quelle in nero, non contabilizzate.
Il ricorrente aveva assunto, quindi, un ruolo essenziale nelle vicende in esame, avendo rappresentato l’elemento di cerniera tra gli Ofria e l’amministratore giudiziario: da una parte, infatti, quale longa manus degli Ofria, aveva curato gli interessi di costoro facendosi portavoce ed interprete all’interno
della ditta delle loro richieste, tanto da rappresentare una sorta di factotum di NOME COGNOME dall’altra, quale referente scelto da COGNOME per seguire, per su conto, l’andamento dell’impresa, aveva consentito allo stesso di esercitare solo un apparente controllo di legalità su quanto accadeva nei locali della ditta.
Alla luce di quanto precede non è revocabile in dubbio, pertanto, che il ricorrente ha sfruttato il possesso vantato dall’amministratore giudiziario per appropriarsi di beni destinati allo Stato.
Egli, infatti, ben consapevole della misura ablatoria disposta sull’impresa e del ruolo di COGNOME, che io aveva nominato suo referente, senza avere alcun titolo, sfruttando la relazione di possesso, conseguente alla formale investitura di COGNOME da parte dell’Autorità giudiziaria, si era ingerito nella gesti dell’impresa ed impossessato delle entrate derivanti dalla vendita dei pezzi di ricambio.
Risultano, dunque, sussistenti tutti gli elementi necessari per la configurabilità del delitto di peculato in capo al ricorrente.
3.3. Va disattesa anche la censura difensiva, secondo cui non sarebbe configurabile il concorso nel reato di peculato in presenza di una condotta omissiva dell’intraneus.
Nella fattispecie in esame si è contestato all’amministratore giudiziario di avere abdicato allo svolgimento dei propri compiti e, in particolare, di avere consegnato la gestione dell’impresa ai familiari del proposto, consentendo loro di appropriarsi del denaro della cassa, frutto della vendita in nero dei pezzi di ricambio.
Non è stata contestata una condotta meramente omissiva (nel qual caso, secondo la giurisprudenza di questa Corte – si veda, ad esempio, Sez. 6, n. 28301 del 08/04/2016, Dolce, Rv. 267829 – non è, comunque, ravvisabile alcun ostacolo giuridico alla configurabilità del concorso nel reato di pura condotta, come quello in esame), ma anche una condotta attiva, di piena collaborazione all’attuazione degli interessi degli Ofria.
Tale condotta attiva è stata anche riscontrata. Secondo la ricostruzione del quadro indiziario contenuta nell’ordinanza impugnata, risulta, ad esempio, che:
COGNOME è stato ripreso in atteggiamenti familiari con gli Ofria e, particolare, il 15/2/2024, mentre si appartava con NOME COGNOME estromessa dall’organigramma aziendale nel settembre 2023, dopo essersi sbarazzato del telefono cellulare: condotta, quest’ultima che, unitamente all’appellativo con il quale definiva la donna (“padrona”), con motivazione non manifestamente illogica, il Tribunale ha considerato quale espressione della sua contiguità con gli Ofria;
b) il medesimo COGNOME, a partire da giugno 2024, aveva informato NOME COGNOME di tutte le novità riguardanti la ditta e, in un’occasione, aveva accompagnato la donna presso il suo difensore;
COGNOME aveva informato gli Ofria della richiesta del rendiconto del Giudice per le indagini preliminari, circostanza, questa, che metteva in allarme la famiglia;
d) COGNOME, nell’ambito di una vicenda dai contorni opachi, connotata anche da accordi tra lo stesso e NOME COGNOME al fine di ottenere il rilascio di un nuovo registro ex art. 264 d.P.R. n. 495 del 1992, aveva delegato NOME a denunciare la distruzione dei libri contabili dell’azienda in occasione di una calamità naturale, evento che, con motivazione non manifestamente illogica, il Tribunale ha escluso essersi mai verificato.
Risulta evidente, quindi, che con le condotte attive, come illustrate nell’ordinanza impugnata, l’amministratore aveva consentito agli Ofria di gestire l’impresa e di appropriarsi del denaro della cassa.
Il terzo motivo del ricorso dell’Avv. COGNOME e il quarto motivo del ricorso degli Avv.ti COGNOME COGNOME sono infondati.
Dalla complessiva trama argomentativa dell’ordinanza impugnata risulta che il Tribunale, con motivazione adeguata e non manifestamente illogica, ha desunto la finalità agevolatrice della condotta appropriativa dalla prosecuzione da parte degli Ofria della gestione della ditta Bellinvia, ritenuta, sia in sede d prevenzione che dall’ordinanza in esame, quale impresa mafiosa, in ragione dei metodi utilizzati verso i dipendenti e i terzi. Il Collegio della cautela sottolineato che con la gestione dell’impresa, i cui proventi, oggetto della condotta appropriativa, venivano, in parte, destinati anche al mantenimento dei sodali ristretti in carcere, gli Ofria avevano continuato a manifestare la forza del sodalizio e il potere di controllo del territorio.
Anche i motivi di entrambi i ricorsi, relativi alla non riconducibili dell’attività della ditta COGNOME all’associazione mafiosa dei barcellonesi, non colgono nel segno.
Il Tribunale di Messina, con motivazione priva di errori e profili di illogicità ha escluso, come invece prospettato dal ricorrente, che le attività illecite degli COGNOME fossero da inserire in ambiti strettamente familiari, non collegati al sodalizio capeggiato da NOME COGNOME di cui ha invece sottolineato la persistente permanenza nel clan e la egemonia sul territorio esercitata attraverso la ditta mafiosa COGNOME, al medesimo e ai suoi familiari riconducibile.
In particolare, il Collegio del riesame, premesso che con l’ingerenza nelle dinamiche dell’azienda gli COGNOME per ben tredici anni avevano lucrato indebitamente i profitti aziendali, pur essendo l’impresa oramai definitivamente confiscata, ha evidenziato che la gestione dell’impresa aveva consentito alla famiglia COGNOME di mantenere il controllo mafioso sul territorio e di operare in un regime di sostanziale monopolio, facendo sì che la ditta individuale Bellinvia mantenesse di fatto le caratteristiche di impresa mafiosa, nonostante operasse formalmente sotto l’egida dello Stato, nella persona dell’amministratore giudiziario.
Il Tribunale del riesame ha, poi, evidenziato che costituisce dato processualmente acclarato che NOME NOME era soggetto affiliato alla famiglia mafiosa dei barcellonesi, annoverando due condanne per la partecipazione al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e, segnatamente, una più datata, che lo aveva riconosciuto intraneo al predetto sodalizio sino alla data del 6 novembre 1995 e l’altra più recente, che aveva esteso la sua partecipazione alla congregazione sino al 2011. Inoltre, la perdurante appartenenza di quest’ultimo al gruppo mafioso dei barcellonesi emergeva da significative conversazioni captate in altri procedimenti, confluiti nel presente, dalle quali era risultato che questi, nonostante la carcerazione subita, fosse rimasto negli anni a seguire e, precisamente, nell’anno 2021 uomo d’onore e fosse stato riconosciuto tale anche da altri esponenti di vertice del sodalizio mafioso, con i quali continuava a relazionarsi per vicende legate a delle bische clandestine gestite dal figlio NOME.
Il Tribunale del riesame ha richiamato anche l’intercettazione nel corso della quale NOME COGNOME, capo della famiglia barcellonese, aveva commentato con un sodale che NOME COGNOME pur essendo detenuto, non solo gestiva la ditta Bellinvia, ma aveva anche precise mire espansionistiche nel settore dell’ecobonus e continuava a controllare l’economia barcellonese seguendo le stesse logiche mafiose con cui aveva imposto la sua ditta sul mercato.
La vicenda dell’acquisto del terreno contiguo ai locali dell’azienda è stata considerata la cartina di tornasole di tale ragionamento: NOME aveva suggerito alla moglie di adottare metodi ritorsivi contro il proprietario del fondo che la ditta aveva interesse ad acquistare, perché ritenuto responsabile di aver indicato un prezzo di vendita troppo elevato.
Infine, le telecamere di sorveglianza avevano permesso di constatare che i locali dell’impresa Bellinvia, nel periodo di osservazione, erano stati meta di una sorta di pellegrinaggio da parte di più soggetti, prossimi congiunti di esponenti di vertice della famiglia mafiosa dei barcellonesi: circostanza / questa / che rafforza il convincimento che l’azienda fosse uno strumento del quale si
avvaleva l’associazione mafiosa tramite gli Ofria, per allargare l’area dei propri interessi criminali in ambiti diversi da quelli di tradizionale elezione e che, a contempo, assicurava agli Ofria e alle famiglie dei boss detenuti di lucrare dei ricavi dalle attività dell’impresa. Il piazzale della stessa era teatro delle vis anche della moglie del boss NOME COGNOME, riconosciuto come esponente di vertice della famiglia mafiosa dei barcellonesi, tutt’oggi in regime di cui all’art 41-bis O.P. Nel corso del pellegrinaggio erano moltissime le persone immortalate mentre ricevevano buste contenente denaro in favore dei parenti detenuti.
A fronte di siffatte argomentazioni, con cui il Tribunale ha ritenuto che l’associazione mafiosa denominata famiglia dei barcellonesi fosse operativa e che l’attività degli Ofria fosse riconducibile a tale associazione, il ricorrente s limitato a svilire la portata degli elementi considerati dal Giudice della cautela e ha sollevato censure tese a sollecitare una non consentita ricostruzione del quadro indiziario.
Deve ribadirsi che, in tema di impugnazione delle misure cautelari personali, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica e i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, COGNOME, Rv. 270628 – 01; Sez. 6, n. 11194 dell’8/3/2012, COGNOME, Rv. 252178 – 01).
Correlativamente, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, il vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame, alla Corte di legittimità spetta solo il compito di verificare, in relazione alla peculiare natur del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di meri abbia dato adeguatamente conto delle ragioni del decisum e abbia adottato una motivazione congrua rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie.
Del pari non consentite sono le censure, formulate in entrambi i ricorsi, relative alla partecipazione del ricorrente all’associazione mafiosa denominata famiglia dei barcellonesi.
Il Tribunale ha evidenziato che la valutazione complessiva delle condotte, di cui l’indagato si era reso protagonista, permetteva di trarre sicuri indici della sua compenetrazione nel tessuto organizzativo del sodalizio. Grazie all’attività di supervisione dei movimenti aziendali e al controllo dell’attività di cassa, l’indagato aveva contribuito a mantenere l’operatività di un’impresa che era ed è
rimasta mafiosa e che ha assicurato illeciti profitti non solo agli Ofria ma anche ad altri affiliati dell’associazione mafiosa dei barcellonesi (NOME COGNOME, NOME COGNOME), garantendo il mantenimento alle famiglie dei detenuti, esponenti di spicco del sodalizio mafioso. I diversi contegni che l’indagato aveva assunto non solo nei momenti in cui aveva dato corso al sistema di sotto fatturazione dei profitti aziendali e alle conseguenti attività, ma anche e soprattutto quando aveva supportato la famiglia Ofria nei momenti di fibrillazione, allorché si paventava il passaggio di consegna dell’azienda all’Agenzia Nazionale dei beni sequestrati e confiscati o allorché in ausilio a costoro aveva proceduto alle operazioni di bonifica dei locali della ditta o ancora si era adoperato per consegnare denaro alla moglie di NOME COGNOME su ordine di COGNOME, risultavano condotte indicative di affectio societatis.
Al cospetto di tali riassuntive considerazioni va rilevato che il Tribunale sulla base degli elementi raccolti, rappresentati dalle intercettazioni e dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, oltre che dalle immagini dell videoriprese effettuate – ha esposto le ragioni per cui ha ritenuto che il ricorrente fosse partecipe del persistente sodalizio mafioso facente capo a NOME COGNOME e avesse consapevolmente compiuto attività, anche distrattive, nell’interesse del clan.
Di contro, il ricorrente si è limitato a svilire la valenza indiziaria de elementi acquisiti, sebbene l’ordinanza impugnata non presenti sul punto alcun profilo di illogicità.
7. L’ultimo motivo di entrambi i ricorsi è privo di specificità.
Il ricorrente ha reiterato la medesima doglianza già disattesa – con corretti e logici argomenti – dal Tribunale, che ha evidenziato che la doppia presunzione di cui all’art. 275-bis cod. proc. pen. non poteva dirsi vinta dalle circostanze allegate dalla difesa e, cioè, dall’avvenuta chiusura della ditta e dalla sottoposizione a misura cautelare dei coindagati coinvolti nelle vicende in valutazione. Tali elementi non permettevano di rivedere in termini positivi l’allarmante giudizio di pericolosità formulato dal Giudice di prime cure, in ragione della spregiudicata condotta, di cui per anni il ricorrente si era reso protagonista e che risultava vieppiù confermato dalle risultanze delle informative della Squadra mobile della Questura di Messina del 31 gennaio 2025, depositate dall’organo d’accusa, attestanti che le condotte delittuose, emerse nell’ambito del presente procedimento, erano perdurate sino all’attualità e che, in particolare, i componenti della famiglia COGNOME avaevano tramato nell’ombra, insieme con l’amministratore COGNOME per trovare una soluzione che ostacolasse
il passaggio di consegna dell’azienda all’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati.
Siffatta motivazione, in quanto non inficiata da errori e vizi logici, sfugge al sindacato di legittimità.
8. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma
1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 4 luglio 2025.