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Peculato e concorso dell’estraneo: la Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per un soggetto accusato di peculato e associazione mafiosa. Il caso riguarda la gestione illecita di un’azienda confiscata, dalla quale venivano sottratti profitti con la complicità dell’amministratore giudiziario. La sentenza chiarisce che il reato di peculato è configurabile anche per un privato cittadino (extraneus) che concorre con il pubblico ufficiale (intraneus), sfruttandone la posizione e il possesso dei beni. La Corte ha ritenuto che la condotta di sottrazione definitiva dei beni per fini privati costituisca appropriazione e non mera distrazione, rientrando a pieno titolo nel reato di peculato. È stata inoltre confermata la sussistenza dell’aggravante mafiosa, in quanto i proventi illeciti erano destinati al sostentamento del clan.

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Pubblicato il 1 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Peculato e concorso dell’estraneo: la Cassazione sulla gestione di aziende confiscate

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, affronta un caso complesso che intreccia la gestione di beni confiscati alla criminalità organizzata, il peculato e concorso dell’estraneo, e l’associazione di stampo mafioso. La decisione offre importanti chiarimenti sulla responsabilità penale di un soggetto privato che, con la complicità di un amministratore giudiziario, si appropria dei beni di un’azienda sotto sequestro. Questo pronunciamento ribadisce principi fondamentali sulla configurabilità del peculato e sull’estensione della responsabilità penale in contesti ad alta infiltrazione criminale.

I fatti del caso

La vicenda riguarda un’azienda, attiva nel settore dei ricambi per autovetture, confiscata in via definitiva a un esponente di un’associazione mafiosa. La gestione dell’impresa era stata affidata a un amministratore giudiziario nominato dal Tribunale. Tuttavia, secondo l’accusa, la gestione di fatto era rimasta nelle mani dei familiari del soggetto inizialmente proposto per la misura di prevenzione.

Un commercialista, agendo come referente dell’amministratore giudiziario ma di fatto come longa manus della famiglia, avrebbe orchestrato un sistema di appropriazione sistematica dei profitti aziendali. Attraverso una doppia contabilità, una parte delle vendite veniva sottratta alle casse ufficiali e il denaro ricavato veniva spartito tra i membri della famiglia e il commercialista stesso. Il tutto avveniva con la consapevole e colpevole accondiscendenza dell’amministratore giudiziario, che ometteva i dovuti controlli e, in alcuni casi, collaborava attivamente per mantenere in vita questo sistema illecito.

Il ricorrente, difeso dai suoi legali, ha impugnato l’ordinanza di custodia cautelare sostenendo principalmente due punti: la propria estraneità al reato di peculato, in quanto privato cittadino (extraneus), e la qualificazione della condotta come mera distrazione e non appropriazione, quindi non penalmente rilevante ai sensi dell’art. 314 c.p.

La questione del peculato e concorso dell’estraneo

Il nodo centrale della questione giuridica verteva sulla possibilità di accusare un privato cittadino di peculato. La difesa sosteneva che tale reato, essendo un ‘reato proprio’, potesse essere commesso solo dal pubblico ufficiale (intraneus), in questo caso l’amministratore giudiziario. L’eventuale condotta del commercialista, secondo questa tesi, sarebbe stata autonoma e non riconducibile alla fattispecie del peculato.

Inoltre, la difesa ha tentato di distinguere tra ‘distrazione appropriativa’ e semplice ‘distrazione’, sostenendo che le modifiche legislative del 1990 avrebbero escluso dalla fattispecie del peculato le condotte che non integrano una vera e propria appropriazione dei beni. L’attività del commercialista, secondo i legali, non avrebbe comportato un’appropriazione, ma una semplice distrazione di fondi.

Le motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, confermando l’impianto accusatorio e le decisioni dei giudici di merito. Le motivazioni della Corte sono state chiare e articolate su tutti i punti sollevati.

In primo luogo, la Corte ha ribadito il principio consolidato secondo cui un extraneus può concorrere nel reato di peculato ai sensi dell’art. 110 c.p. (concorso di persone nel reato). È indispensabile, tuttavia, che il privato sfrutti strumentalmente la relazione di possesso che il pubblico ufficiale ha con il bene per ragioni del suo ufficio. Nel caso di specie, il commercialista ha potuto appropriarsi del denaro solo perché l’amministratore giudiziario, titolare del possesso e della gestione formale dell’azienda, glielo ha consentito con la sua condotta omissiva e commissiva. La Corte ha sottolineato che l’ingerenza del ricorrente nella gestione e il suo impossessarsi delle entrate sono stati possibili proprio grazie alla sua relazione con l’amministratore e allo sfruttamento del ruolo formale di quest’ultimo.

In secondo luogo, i giudici hanno respinto la distinzione tra distrazione e appropriazione come prospettata dalla difesa. La sentenza chiarisce che quando la condotta distrattiva comporta la sottrazione definitiva del bene dalla sua finalità pubblica per il conseguimento di scopi privati, essa integra a tutti gli effetti un’appropriazione. Le somme di denaro, provento delle vendite in nero, venivano sottratte in modo permanente alle casse aziendali (e quindi allo Stato, titolare finale del bene confiscato) per essere spartite privatamente. Questa condotta, per la Corte, rientra pienamente nell’alveo dell’art. 314 c.p.

Infine, la Corte ha confermato la sussistenza dei gravi indizi per il reato di associazione mafiosa e l’aggravante di aver agevolato tale associazione. È emerso che i proventi illeciti non servivano solo all’arricchimento personale, ma anche al mantenimento dei membri del clan detenuti e delle loro famiglie. La gestione dell’azienda confiscata era diventata uno strumento per perpetuare il potere e il controllo del sodalizio mafioso sul territorio, manifestandone la forza e l’operatività nonostante l’azione dello Stato.

Conclusioni

La sentenza in esame rappresenta un’importante conferma di principi giuridici cruciali nella lotta alla criminalità economica e organizzata. Le implicazioni pratiche sono notevoli:

1. Responsabilità estesa: Viene rafforzato il principio che la responsabilità per i reati contro la Pubblica Amministrazione, come il peculato, non è limitata al solo pubblico ufficiale, ma si estende a chiunque, con consapevolezza, concorra alla commissione del fatto sfruttandone la posizione qualificata.
2. Gestione dei beni confiscati: La decisione mette in luce l’estrema delicatezza della gestione dei beni sequestrati e confiscati, evidenziando come la connivenza o la negligenza degli amministratori giudiziari possa vanificare l’azione dello Stato e, anzi, trasformare tali beni in una nuova fonte di profitto illecito per le organizzazioni criminali.
3. Distinzione tra peculato e abuso: La Corte offre un criterio chiaro per distinguere l’appropriazione (peculato) dalla semplice distrazione: la definitività della sottrazione del bene alla sua destinazione pubblica. Se il bene viene deviato per scopi privati in modo permanente, si tratta di peculato.

Un privato cittadino può essere accusato di peculato, un reato tipico dei pubblici ufficiali?
Sì, un privato cittadino (extraneus) può essere accusato di peculato in concorso con un pubblico ufficiale (intraneus). Secondo la Corte, ciò avviene quando il privato sfrutta consapevolmente la relazione di possesso che il pubblico ufficiale ha con il bene pubblico per appropriarsene, come avvenuto nel caso di specie dove il ricorrente ha agito con la complicità dell’amministratore giudiziario.

Qual è la differenza tra appropriazione (peculato) e distrazione di beni pubblici?
La sentenza chiarisce che si ha appropriazione, e quindi peculato ai sensi dell’art. 314 c.p., quando la condotta distrattiva sottrae in modo definitivo il bene alla sua finalità pubblica per destinarlo a scopi privati. Se la sottrazione è permanente, la condotta integra un’effettiva appropriazione e non una mera distrazione temporanea.

Come è stata giustificata l’accusa di associazione mafiosa nel caso specifico?
L’accusa è stata confermata perché è emerso che la gestione illecita dell’azienda e l’appropriazione dei suoi profitti non erano finalizzate solo all’arricchimento personale, ma anche al sostentamento dei membri dell’associazione mafiosa detenuti e delle loro famiglie. Questa attività consentiva al clan di continuare a manifestare la propria forza e il controllo del territorio, configurando così un’attività a vantaggio dell’associazione stessa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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