Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 46328 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 46328 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 22/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Antropoli NOME, nato il 28/05/1962 a Bellona
NOME nata il 15/01/1976 a Caserta
COGNOME NOMECOGNOME nato il 23/09/1953 a Capua
avverso la sentenza del 16/01/2024 della Corte d’appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza con rinvio in relazione a COGNOME e che sia dichiarata l’inammissibilità dei ricorsi di COGNOME e COGNOME;
uditi gli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME in difesa di RAGIONE_SOCIALE, gli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME in sostituzione di NOME COGNOME in difesa di COGNOME l’Avvocato NOME COGNOME in sostituzione dell’Avvocato NOME COGNOME in difesa di COGNOME i quali tutti insistono per l’annullamento della sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, qualificato il fatto (originariamente contestato come peculato: art. 314 cod. pen.) in peculato d’uso (art. 314, comma 2, cod. pen.), aveva condannato NOME COGNOME e NOME COGNOME per aver il primo, in qualità di Sindaco di Capua, e il secondo, come dipendente del Comune con mansioni di autista, usato per finalità estranee agli scopi istituzionali dell’Ente ed esclusivamente personali, l’auto nella disponibilità dello stesso Ente, in virtù di un contratto di leasing (tra gli altri episodi, gli era stato contestato di aver fatto accompagnare con l’auto di servizio la sua compagna, NOME COGNOME nell’aprile 2016) (capo a).
Il Tribunale aveva assolto NOME COGNOME dall’imputazione del capo a), dichiarando la particolare tenuità del reato (art. 131-bis cod. pen.).
La Corte d’appello di Napoli dichiarava non doversi procedere nei confronti degli imputati NOME COGNOME e NOME COGNOME per sopravvenuta prescrizione, quanto agli episodi del 07/05/2014, del 21/05/2014, del 23/06/2014 e, riconosciuta per il peculato d’uso l’attenuante di cui all’art. 323bis cod. pen., rideterminava conseguentemente la pena nei loro confronti.
La sentenza è stata impugnata dai tre imputati.
Il ricorso di NOME COGNOME presentato per il tramite degli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME consta di due motivi.
4.1. Violazione della legge penale processuale e vizio di motivazione, in relazione all’art. 405 cod. proc. pen.
La difesa aveva già eccepito in appello l’inutilizzabilità delle intercettazioni in atti, in quanto disposte ed eseguite oltre il termine di scadenza delle indagini preliminari (sei mesi decorrenti dall’iscrizione dell’indagato nel registro dell’art. 335 cod. proc. pen.).
In particolare, non era mai stata (richiesta, e quindi) notificata all’indagato alcuna proroga del termine delle indagini preliminari; le annotazioni vergate sui fascicoli consistevano in meri aggiornamenti dell’iscrizione originaria; dunque, in
mancanza di altre iscrizioni nel suddetto registro, il termine massimo per il compimento delle indagini era già spirato.
La Corte di secondo grado ha replicato che l’iscrizione originaria era avvenuta in data 14/01/2015 e che ad essa avevano fatto seguito altre due, in data 14/07/2015 e 16/02/2016, sempre per il reato di cui all’art. 314 cod. pen.: le annotazioni cui si riferiva la difesa sarebbero stati, dunque, ordini di iscrizione cui sarebbe poi seguita l’iscrizione effettiva.
Tuttavia, tali annotazioni recano la dizione “visto si aggiorni l’iscrizione” e non possono, quindi, essere lette quale nuova iscrizione, come dimostrato dal fatto che non sono visibili sul portale SICP.
Di conseguenza, ribadito che mai furono prodotte dal Pubblico Ministero richieste di proroga del termine delle indagini preliminari, l’unica iscrizione nel registro degli indagati resta quella del 14/01/2015.
D’altronde, secondo la giurisprudenza di legittimità, al pubblico ministero è fatto divieto di procedere ad una nuova iscrizione nel registro degli indagati, dovendo soltanto disporne l’aggiornamento ai sensi dell’art. 335, comma 2, cod. proc. pen., quando la notizia risulti diversamente qualificata o circostanziata.
Conseguentemente, gli atti assunti dopo la scadenza del termine delle indagini – e tra questi le intercettazioni in discorso, che costituivano l’unica fonte di prova dei reati – non avrebbero potuto essere utilizzati.
4.2. Violazione della legge penale processuale e vizio di motivazione in rapporto all’art. 266 ss. cod. proc. pen.
Sin dai primi atti d’indagine, l’ipotesi di reato a carico dell’indagato avrebbe dovuto essere il peculato d’uso (art. 314, secondo comma, cod. pen.) – reato autonomo rispetto a quello di cui al primo comma, in relazione al quale non possono essere disposte le intercettazioni – e non il peculato (art. 314, primo comma, cod. pen.), come, invece, originariamente contestato.
Secondo l’insegnamento di legittimità, se il fatto reato è originariamente considerato come abilitante le attività intercettative, per essere poi derubricato a delitto non abilitante, il materiale raccolto è utilizzabile solo se originariamente l’ufficio di Procura non poteva conoscere la portata de facto et de iure del fatto reato-indagato (Sez. U., n. 51 del 28/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 267041, richiamate in Sez. 6, n. 23244 del 20/01/2021, Urso, non mass.).
Tale non sarebbe il caso di specie.
La Corte d’appello ha ritenuto che il Pubblico Ministero, quando richiese l’autorizzazione per le intercettazioni, si fosse conformato alla giurisprudenza dominante, secondo cui l’uso prolungato di un’autovettura configurava l’ipotesi di peculato di cui all’art. 314, primo comma, cod. pen.
Tale affermazione di principio si scontra però con gli elementi della specifica vicenda, caratterizzata da un uso sporadico di autovettura, peraltro non di proprietà del Comune, ma da questo noleggiata, per di più a canone fisso, e in uso, oltre che al Sindaco a vari dirigenti.
Dal compendio probatorio emergeva, infatti, che: quanto al 2013-2014, l’uso improprio dell’autovettura fosse consistito in 19 “passaggi” e sempre per un periodo di tempo limitato al percorso; quanto al biennio 2015-2016, gli unici episodi di uso illegittimo furono quelli del 26 e del 29 aprile 2016.
Pertanto, quando il Giudice per le indagini preliminari esercitò la c.d. verifica statica dei presupposti di ammissibilità delle intercettazioni, nell’utilizzo improprio dell’autovettura era ravvisabile soltanto un peculato d’uso, con la conseguenza che il risultato delle captazioni non sarebbe, nemmeno sotto questo profilo, utilizzabile.
Nel ricorso di NOME COGNOME presentato per il tramite dell’Avvocato NOME COGNOME sono dedotti due motivi di ricorso.
5.1. Nullità della sentenza per violazione dell’art 266 e ss. cod. proc. pen., sotto i seguenti profili.
La connessione che può reggere l’eventuale utilizzazione delle conversazioni per un fatto diverso da quello per cui le intercettazioni sono state disposte deve constare di un collegamento di natura sostanziale, non ravvisabile nel caso di specie.
Il peculato d’uso ritenuto a carico di COGNOME è fattispecie di reato autonoma rispetto al peculato e i suoi limiti edittali (da sei mesi a tre anni) non consentono di procedere ad attività captativa, ai sensi dell’art. 266 cod. proc. pen.
5.2. Mancata assoluzione dell’imputato perché il fatto non costituisce reato e vizio di motivazione.
La Corte d’appello, aderendo alla sentenza di primo grado, ha dedicato meno di una pagina all’accertamento di responsabilità di Merola. In particolare, non ha motivato la configurabilità dell’elemento soggettivo, come sarebbe stato necessario, vieppiù considerato che il peculato d’uso richiede il dolo specifico; ha disatteso Sez. U, n. 19054 del 20/12/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 255296, non risultando la produzione di un danno patrimoniale apprezzabile ed avendo, anzi, i Giudici di primo e secondo grado espresso valutazioni contrastanti quanto al disvalore penale delle condotte in oggetto; non ha considerato che il peculato d’uso è un reato proprio e che l’autista ha soltanto mansioni d’ordine meramente materiali, sicché non avrebbe potuto essere considerato incaricato di pubblico servizio; ha pretermesso che la condotta di COGNOME ha un disvalore differente rispetto a quella del Sindaco, avendo gli stessi Giudici di merito riconosciuto che
l’imputato si trovava in posizione subalterna, il che rendeva difficile opporre un rifiuto.
In considerazione della posizione subalterna del Merola, del lasso di tempo molto breve per cui è stata utilizzata l’autovettura e della brevità del percorso, oltretutto sullo stesso itinerario di servizio, le condotte del ricorrente non avrebbero potuto essere ritenute penalmente rilevanti.
Ha presentato ricorso, per il tramite degli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME, altresì NOME COGNOME rilevando preliminarmente il proprio interesse a ricorrere, essendo la pronuncia ex art. 131-bis cod. pen. suscettibile di iscrizione nel casellario giudiziale, potendo avere un peso nei giudizi civili e amministrativi in tema di risarcimento del danno e potendo astrattamente ostare ad un eventuale futuro nuovo riconoscimento della non punibilità.
Quindi, la ricorrente deduce i seguenti quattro motivi.
6.1. Violazione dell’art. 266 cod. proc. pen. ed inutilizzabilità delle intercettazioni, sotto i seguenti profili.
Manca la connessione – che deve essere sostanziale – tra l’ipotesi di reato in base al quale erano state disposte le intercettazioni e il peculato d’uso ritenuto a carico della ricorrente.
Si era in presenza, piuttosto, di un fatto storico diverso, dal momento che l’ipotesi originaria riguardava il ritenuto e continuativo utilizzo, da parte de dominus, di una vettura oggetto di contratto di leasing, mentre la vicenda che ha interessato l’imputata concerneva l’utilizzazione momentanea ed eccezionale della stessa in una sola occasione.
Il peculato d’uso configura una fattispecie autonoma di reato per cui non è possibile procedere ad intercettazione, difettando i limiti di pena previsti dall’art. 266 cod. proc. pen.
Le intercettazioni, dunque, non avrebbero potuto essere utilizzate.
6.2. Mancata assoluzione dell’imputata perché il fatto non costituisce reato e vizio della motivazione.
Il fatto contestato consta di un singolo episodio di utilizzazione della vettura, per un tratto di 15 km, e non è, quindi, inquadrabile nella fattispecie di peculato d’uso.
La sussistenza del coefficiente soggettivo è stata argomentata in base all’art. 117 cod. pen., sul concorso dell’extraneus nel reato proprio, ovvero ritenendo sufficiente la mera conoscibilità, laddove il capo di imputazione parla dell’art. 110 cod. pen. che richiede, quindi, il dolo.
In disparte tale divergenza tra contestazione e sentenza, il richiamo all’art. 117 cod. pen. non è pertinente, poiché tale disposizione riguarda il solo caso in
cui l’extraneus ignori la qualifica soggettiva che rende proprio un reato altrimenti comune: ciò che, nel caso di specie, certamente, non era (la ricorrente non poteva non sapere che il compagno era Sindaco).
Quel che avrebbe dovuto dimostrarsi era, piuttosto, che la ricorrente sapesse che l’uso del veicolo di servizio non era lecito.
Errata è, dunque, la motivazione della sentenza impugnata là dove esclude la necessità che l’imputata conoscesse l’illiceità dell’uso del veicolo di servizio da parte del compagno, come, d’altronde, emerge riflettendo sul fatto che, ad argomentare come fa la Corte d’appello, si giungerebbe al paradosso di riservare all’extraneus un trattamento deteriore rispetto al pubblico ufficiale, punendolo a titolo di colpa.
La pertinenza del mutamento del titolo di reato ex art. 117 cod. pen. va poi esclusa perché il reato base deve essere normativamente previsto.
Ebbene, se si dà corrispondenza tra l’appropriazione indebita e il peculato, inizialmente contestato, tale reato fu però, già in primo grado, riqualificato come peculato d’uso, che è fattispecie autonoma priva di corrispondenza all’interno dei reati comuni, trattandosi di reato proprio esclusivo.
Anche sotto questo profilo si conferma, quindi, che l’unica disposizione rilevante in materia di concorso di persone era l’art. 110 cod. pen.
A monte, poi, si pone l’esigenza di comprendere se possa configurarsi un concorso di persone nel peculato d’uso.
Si prescinda, infatti, dalla considerazione che la lesione del buon andamento avrebbe dovuto essere accertata in concreto, verificando che nella mezz’ora scarsa in cui l’autista compì il breve tratto, il pubblico ufficiale avesse determinato un pregiudizio effettivo al corretto svolgimento dell’attività amministrativa. Va comunque considerato che, essendo il peculato d’uso un reato di mano propria – in cui, cioè, la condotta tipica deve essere necessariamente posta in essere dall’intraneus -, esso non tollera il concorso dell’extraneus, se non sotto forma di contributo morale.
In tale contesto, quindi, l’extraneus il quale si limiti ad approfittare del passaggio offerto dal pubblico ufficiale, rappresenta una sorta di strumento dell’uso disfunzionale del potere compiuto dal pubblico ufficiale, a meno che lo abbia istigato. Con la conseguenza che il suo comportamento è radicalmente atipico, in quanto, a differenza del primo comma dell’art. 314 cod. pen., il secondo comma presuppone la violazione del legame esclusivo e unidirezionale tra il pubblico ufficiale e la res, violazione che integra una condotta infedele, di abuso, realizzabile dal solo pubblico ufficiale.
La non punibilità del terzo il quale trae vantaggio economico per difetto di tipicità del reato si desume anche dalla giurisprudenza di legittimità, là dove
6 GLYPH
0))-
questa sembra aver ritenuto configurabile il peculato d’uso nei confronti del solo dirigente Rai che fece utilizzare il telefono di servizio al coniuge, e non anche quest’ultimo (Sez. 6, n. 27742 del 15/09/2020, Gentile, non mass.).
6.3. Vizio di motivazione quanto alla mancata assoluzione nel merito della ricorrente.
Nel caso in cui si ritenesse configurabile il concorso della ricorrente nel peculato d’uso, e posto che l’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. presuppone che sia pur sempre integrata la tipicità del reato, le modalità del fatto avrebbero dovuto indurre a ritenere l’assoluta inoffensività, piuttosto che la particolare tenuità, del fatto, in ragione: dell’unicità dell’episodio; dell’esiguità del percors effettuato; del brevissimo tempo impiegato; dell’assoluta assenza di dispendio economico per l’ente; del difetto di qualunque lesione per il buon andamento della pubblica amministrazione.
6.4. Violazione di legge e difetto di motivazione quanto alla sussistenza dei requisiti del reato e travisamento della prova.
In via ulteriormente subordinata, andrebbe considerato che la motivazione della sentenza di appello ha del tutto trascurato che il contratto attraverso il quale il Comune aveva la disponibilità dell’autovettura prescindeva da possibili limitazioni operative, essendone il costo calcolato in maniera forfettaria, con previsione di un massimo che prescindeva dalla verifica della possibile usura del veicolo, e che difettava la prova che il carburante per l’utilizzo dell’auto fosse personalmente finanziato dal pubblico ufficiale (peraltro, alla scadenza del contratto, dei 90.000 km ammissibili ne erano stati percorsi soltanto 64.000).
Difetta, infine, la prova dell’elemento soggettivo, non essendo stato provato che la ricorrente fosse a conoscenza della – peraltro indimostrata illiceità dell’utilizzazione della vettura, quand’anche rientrante nella sfera dell’Ente comunale.
Il presente procedimento, originariamente calendarizzato per il giorno 11 luglio 2024, è stato trattato in data odierna, a causa dell’adesione a suo tempo prestata all’astensione dai difensori.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile.
1.1. Quanto al primo motivo, va premesso che, a mente dell’art. 335 cod. proc. pen., «il pubblico ministero iscrive immediatamente, nell’apposito registro custodito presso l’ufficio, ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa (comma 1) e che, «se nel corso delle indagini preliminari
muta la qualificazione giuridica del fatto ovvero questo risulta diversamente circostanziato, il pubblico ministero cura l’aggiornamento delle iscrizioni previste dal comma 1 senza procedere a nuove iscrizioni».
Come ulteriormente chiarito da questa Corte, quindi, nel corso delle indagini preliminari il pubblico ministero – salvi i casi di mutamento della qualificazione giuridica del fatto o dell’accertamento di circostanze aggravanti deve procedere a nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato sia quando acquisisce elementi in ordine ad ulteriori fatti costituenti reato nei confronti della stessa persona, sia quando raccolga elementi in relazione al medesimo o ad un nuovo reato a carico di persone diverse dall’originario indagato; ne consegue che il termine per le indagini preliminari decorre in modo autonomo per ciascun indagato dal momento dell’iscrizione del suo nominativo nel registro delle notizie di reato e, per la persona originariamente sottoposta ad indagini, da ciascuna successiva iscrizione (Sez. 2, n. 22016 del 06/03/2019, COGNOME, Rv. 276965, in cui in applicazione di tale principio, sono state ritenute legittime più iscrizioni successive nei confronti della stessa persona per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa a seguito dell’acquisizione di nuovi elementi in forza dei contributi dichiarativi di ulteriori collaboratori di giustizia, in relazione a div periodi di tempo (più di recente, lo stesso principio è stato espresso in Sez. 5, n. 37169 del 20/07/2022, S., Rv. 283874).
Ciò è quanto accaduto anche nel caso di specie.
La Corte d’appello ha, infatti, rilevato che la prima iscrizione di reato nel registro dell’art. 335 cod. proc. pen. avvenne in data 14/01/2015, ma che ad essa seguirono altre due (vere e proprie) iscrizioni (non meri aggiornamenti): una il 14/07/2015; un’altra il 16/02/2016.
Ha aggiunto che il Pubblico Ministero depositò, all’udienza del 5 novembre 2019, tali iscrizioni, qualificandole come tali nella nota di accompagnamento (e fornendo, quindi, una sorta di interpretazione autentica del senso del suo precedente operato).
Soprattutto, ha precisato che, anche prescindendo da tale indicazione proveniente da una parte, sebbene pubblica -, le annotazioni sulla copertina del fascicolo indicavano le date dei commessi reati e quindi si riferivano senza dubbio a fatti nuovi.
Né, invero, avrebbe potuto giungersi a conclusione diversa, posto che, come risulta dalla copia della copertina del fascicolo allegata al ricorso e sulla base di quanto rilevato in ordine alla disciplina delle iscrizioni e dei meri aggiornamenti, in uno con le date, è segnato anche il titolo di reato (art. 314 cod. proc.).
8 GLYPH
Ne consegue che il termine delle indagini preliminari, al momento in cui furono disposte le intercettazioni, non era ancora spirato e che nessun problema di inutilizzabilità del risultato captativo si pone nel caso di specie, sul punto dovendosi chiosare soltanto che a nulla rileva la mancata annotazione delle nuove iscrizioni sul SICP.
Il motivo è, dunque, manifestamente infondato.
1.2. Analogamente deve dirsi del secondo motivo di ricorso, dal momento che la motivazione del provvedimento impugnato, completa e non manifestamente illogica, si è conformata all’insegnamento affatto dominante di questa Corte.
Infatti, in disparte la considerazione che la responsabilità dell’imputato risulta fondata, oltre che sulle intercettazioni, su un’originaria denuncia, nonché sugli accertamenti effettuati sul telepass abbinato all’auto in dotazione al Sindaco (e guidata esclusivamente da COGNOME) in rapporto, per esempio, ai turni ospedalieri di Antropoli (medico presso l’ospedale Caldarelli di Napoli), a fronte di un orientamento di maggior rigore, che reputava utilizzabili i risultati delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni disposte in riferimento ad un titolo di reato per il quale le stesse sono consentite, anche quando vi sia stata una successiva diversa qualificazione giuridica del fatto (Sez. 1, n. 12749 del 19/03/2021, COGNOME, Rv. 280981), se ne è pacificamente affermato altro, che cerca di contemperare l’esigenza di non disperdere il materiale probatorio raccolto con l’esigenza di evitare abusi strumentali da parte dell’accusa.
In questa prospettiva, i Giudici di merito sono oggi invitati a compiere un giudizio retrospettivo sul carattere “patologico” o meno del mutamento della qualificazione giuridica del fatto, così da verificare, di volta in volta, s l’originaria imputazione fosse il frutto di un errore sul punto da parte del pubblico ministero ovvero se il mutamento di qualificazione sia, piuttosto, derivato dalla fisiologica evoluzione del processo, che è il luogo in cui la prova si forma progressivamente.
In altre parole, in tema di intercettazioni telefoniche o ambientali, il mutamento dell’addebito, anche per effetto della esclusione di una circostanza aggravante, che intervenga nel corso del fisiologico sviluppo del procedimento, non determina la inutilizzabilità dei risultati dell’attività tecnica, la qu consegue solo se i presupposti per disporre le captazioni mancassero al momento di autorizzazione delle stesse (Sez. 6, n. 48320 del 12/04/2022, COGNOME, Rv. 284074).
Ancora più chiaramente, si è poi affermato che la verifica dei presupposti di legittimità va effettuata con riguardo alla qualificazione del reato per il quale,
in concreto, si dispone di indizi idonei al momento dell’autorizzazione, sicché, ove ab origine il reato astrattamente configurabile non era tra quelli contemplati dall’art. 266 cod. proc. pen., le intercettazioni sono inutilizzabili pur s formalmente disposte per un titolo di reato che le consentiva (Sez. 6 , n. 36420 del 19/01/2021, COGNOME, Rv. 281989, in un caso in cui la Corte ha ritenuto inutilizzabili le intercettazioni inizialmente disposte in relazione al reat di corruzione e poi utilizzate con riguardo al reato di abuso d’ufficio, sul presupposto che quest’ultima era l’unica fattispecie concretamente configurabile in base agli elementi disponibili fin dal momento in cui l’autorizzazione era stata disposta).
E che, per contro, i limiti previsti dall’art. 266 cod. proc. pen. non operano quando lo stesso fatto-reato per il quale l’autorizzazione è stata concessa sia diversamente qualificato in seguito alle risultanze delle captazioni (Sez. 6, n. 23148 del 20/01/2021, Bozzini, Rv. 281501).
1.3. Con riferimento al caso di specie, si tratta, quindi, di stabilire se, al momento dell’autorizzazione delle captazioni, difettassero i presupposti previsti dall’art. 266 cod. proc. pen.
A tale domanda è giocoforza dare una risposta negativa: l’imputazione, passata, come anche il decreto di intercettazioni, al vaglio di Giudici, parlava di appropriazione «in modo continuativo e sistematico»; il Tribunale condannò l’imputato per il peculato di cui all’art. 314, primo comma, cod. pen., che rappresentava titolo c.d. abilitante le intercettazioni, incidentalmente, dando conto, in modo ampio, del fatto che la giurisprudenza dominante sull’uso della macchina di servizio per finalità private si esprimesse in tal senso e, soprattutto, insistendo sulla continuità della condotta; soprattutto, la Corte d’appello, pur riqualificando il fatto in peculato d’uso (art. 314, secondo comma, cod. pen.), ha ribadito – con una valutazione in fatto insindacabile in questa sede di legittimità – che «l’uso dell’auto di servizio non fu né sporadico né limitatissimo nel tempo», concludendo, con argomentazione esente da vizi, come la scelta del Pubblico ministero fosse corretta e non rappresentasse, per converso, un mero espediente per richiedere le indagini intercettative.
D’altronde, vero è che le fattispecie di peculato e di peculato d’uso sono autonome e diverse, come ricordato dal ricorrente. Tuttavia, è anche vero che, sul piano astratto degli elementi strutturali, la loro differenza si coglie, in modo (non esclusivo, ma) senz’altro prevalente, sul piano dell’atteggiamento soggettivo e che, su quello concreto-applicativo, l’apprezzamento del “senso” di condotte potenzialmente identiche nella loro materialità ma suscettibili di significare, a seconda, un’appropriazione o una momentanea distrazione – dal quale non può certo espungersi ogni margine di fisiologica discrezionalità – è
correttamente realizzabile soltanto nel contesto di una valutazione più ampia, che tenga conto del complesso dei comportamenti realizzati nel tempo.
1.4. Il ricorso di NOME COGNOME deve essere, quindi, dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
Del tutto destituito di fondamento è altresì il ricorso di NOME COGNOME.
2.1. Le ragioni della manifesta infondatezza del primo motivo con esso dedotto sono state appena illustrate con riferimento alla posizione del coimputato COGNOME sicché in questa sede si rinvia a quanto osservato a tal proposito.
Deve soltanto aggiungersi – in risposta a quello che parrebbe il senso delle deduzioni difensive – che, nel caso di specie, non si pone una questione di procedimento connesso (ove la connessione sarebbe stata da intendere, senza dubbio, in chiave sostanziale) rispetto a quello nel cui ambito erano state disposte le intercettazioni. Il procedimento che ha visto NOME COGNOME e NOME COGNOME coimputati è, infatti, ab origine lo stesso, così come lo stesso (art. 314, primo comma, cod. pen.) è stato il titolo di reato per cui il Pubblico Ministero – in modo ex ante non censurabile – ha ritenuto di dover procedere.
2.2. Inammissibile, perché generico e per larga parte manifestamente infondato, è il secondo motivo di ricorso, con il quale si tenta di revocare in dubbio, in modo invero poco ordinato, alternativamente, la sussistenza dei requisiti della tipicità del reato (dalla qualifica soggettiva pubblicistica dell’agent alla configurabilità di un danno economico e/o meramente funzionale, la cui mancanza avrebbe negato la rilevanza penale della condotta) oppure la colpevolezza dell’imputato, per il difetto dell’elemento soggettivo e/o per l’inopponibilità di un rifiuto al Sindaco e quindi – si sottende – in ragione dell’inesigibilità della condotta conforme a dovere.
Tuttavia, a nulla rileverebbe il postulato difetto della qualifica soggettiva pubblicistica – peraltro genericamente prospettata – in capo a Merola, che era impiegato del Comune con funzioni di autista, dal momento che la responsabilità dell’imputato è stata ipotizzata a titolo di concorso con il Sindaco (non in proprio) e, in tal senso, esaurientemente argomentata nella sentenza impugnata, sia sul piano del contributo causale, di tipo materiale, sia con riferimento all’elemento soggettivo.
Sotto tale ultimo profilo, è, poi, affatto inverosimile che l’imputato non versasse in dolo, dovendo ben rappresentarsi le coordinate dell’uso legittimo
dell’autovettura, in ragione del lavoro che svolgeva, ed essendo sicuramente a conoscenza della qualifica di Sindaco di Antropoli nonché della funzionalizzazione extra-istituzionale dell’autovettura.
Quanto alla mancanza di un danno, si ricorda che, secondo Sez. U, n. 19054 del 20/12/2012, dep. 2013, Vattani, Rv. 255296 (richiamata dal ricorrente), la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il telefono d’ufficio per fini personali al di fuori dei d’urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d’uso se produce un danno apprezzabile al patrimonio della Pubblica Amministrazione o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio, mentre deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative.
Si aggiunga come la medesima pronuncia, in motivazione, parli di “abuso del possesso” e di “uso improprio” della cosa, specificando che il danno fuzionale all’ufficio viene in rilievo quando l’uso della cosa sia disciplinato, come nel caso di specie, da contratti “tutto incluso” (sicché non sia ipotizzabile un danno al patrimonio della Pubblica Amministrazione).
E evidenzia come i Giudici del merito abbiano ritenuto, pur in mancanza eventuale di un danno economico, sussistente il suddetto danno funzionale, con motivazione non manifestamente illogica che, pertanto, non è sindacabile in sede di legittimità.
Né, infine, rileva la posizione subordinata di COGNOME rispetto al Sindaco, che non era certamente un suo superiore gerarchico, non essendo, d’altronde, giustificato – nemmeno nell’ambito dei rapporti gerarchici – l’adempimento di un ordine illegittimo dell’autorità (art. 51 cod. pen.), con le due note eccezioni (l’ordine ritenuto per errore legittimo e quello insindacabile), nemmeno per analogia ipotizzabili nel caso in oggetto, considerate, rispettivamente, le mansioni di COGNOME e la natura civilistica del suo rapporto di lavoro con il Comune.
2.3. Anche il ricorso di NOME COGNOME deve essere, in conclusione, dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
Un discorso diverso vale per il ricorso di NOME COGNOME
3.1. Ribadita la manifesta infondatezza delle deduzioni contenute nel primo motivo, quanto alla dedotta inutilizzabilità delle intercettazioni, e concentrando l’attenzione sul secondo motivo di ricorso, si rileva quanto segue.
3.2. Alla ricorrente è stato addebitato di aver utilizzato la macchina di servizio del suo compagno, COGNOME in un’unica occasione e per coprire un tragitto (da Sant’Angelo in Formis a Calvi Risorta) comunque breve.
Ciò premesso, in disparte ogni considerazione sull’assenza totale di offensività, piuttosto che sulla sua tenuità (art. 131-bis cod. pen.) (motivi terzo e quarto del ricorso), su un piano logicamente e giuridicamente antecedente, colgono nel segno i rilievi difensivi tesi a revocare in dubbio la configurabilità stessa del reato.
3.3. In proposito, va precisato che la ricorrente aveva già correttamente dedotto in appello l’impossibilità, per l’extraneus, di integrare la condotta tipica di un reato proprio di mano propria (o esclusivo), in ragione dell’inscindibilità, in questa tipologia di reato, dell’offesa dalla particolare qualifica dell’agente (tale da declinare la condotta in chiave di infedeltà o abuso): di talché, in assenza della qualifica legislativamente richiesta, e cioè quando la condotta sia posta in essere da un comune cittadino – qual era NOME -, nemmeno si percepisce il disvalore del fatto che cessa, quindi, di essere inquadrabile in termini penalistici (sebbene con riferimento alla fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, vd., quantomeno, Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, COGNOME, Rv. 268360).
A tale rilievo la Corte di appello (sulla scia del Tribunale) ha inteso replicare operando un richiamo all’art. 117 cod. pen.: ritenendo, cioè, che tale disposizione estenda la responsabilità dell’agente, in base ad un criterio di tipo colposo, al concorrente, con la conseguenza di considerare «irrilevante il tema difensivo della necessità di conoscere l’illiceità dell’uso del veicolo di servizio da parte del marito».
L’art. 117 cod. pen., tuttavia, non è pertinente nel caso di specie.
Ciò non soltanto o non tanto perché, come deduce la ricorrente, tale disposizione, che infatti richiede un “mutamento” del titolo di reato, si riferisce ai soli reati propri “di mano altrui” o reati propri “non esclusivi”: ovvero a fattispecie che abbiano un “clone” nell’ambito dei reati comuni (in realtà, la caratteristica della “non esclusività” è predicabile anche del peculato d’uso, la cui area operativa, a talune condizioni, può ben coincidere con quella del furto d’uso, che è reato comune).
La ragione dell’inapplicabilità dell’art. 117 cod. pen. risiede, piuttosto, nel fatto che, secondo la consolidata e risalente lettura del dato testuale, essa riguarda il solo caso in cui il correo ignori la qualifica soggettiva dell’agente, per il resto, rappresentandosi però gli elementi del fatto tipico, che comunque configurerebbe reato (comune).
Dal che, d’altronde, la ragione dell’aggravio (di mero aggravio si tratta) della risposta sanzionatoria che comunque sarebbe conseguita all’integrazione
del reato comune, in chiave: nelle originarie intenzioni legislative, di responsabilità oggettiva; oggi, di concreta prevedibilità e, quindi comunque, derogatoria dei normali criteri di imputazione dolosa dei delitti.
Siffatta, invero pacifica, lettura riceve, incidentalmente, conforto in considerazioni di ordine logico, posto che, come rilevato dalla ricorrente, a ritenere diversamente, si finirebbe con il prevedere a carico del correo un regime di ascrizione soggettiva più sfavorevole rispetto a quello valido per il reo che, invece, deve rappresentarsi, per rispondere del reato, il carattere illecito dell’uso che egli sta facendo della res.
E trova corrispondenza anche nella giurisprudenza di questa Corte, come quando ha affermato che l’estensione al concorrente extraneus della responsabilità a titolo di reato proprio, ai sensi dell’art. 117 cod. pen., presuppone la conoscibilità della qualifica soggettiva del concorrente intraneus (Sez. 6, n. 25390 del 31/01/2019, Gorbunova, Rv. 276804): così confinando, appunto, al profilo della mancata conoscenza della qualifica soggettiva dell’agente l’ambito operativo della deroga in punto di dolo del correo.
Sul punto, è appena il caso di concludere precisando che tale non era certamente il caso in oggetto, posto che NOME ben sapeva che il compagno era Sindaco e che, come tale, rivestiva una qualifica soggettiva pubblicistica.
3.4. Esclusa, dunque, l’operatività dell’art. 117 cod. pen., la responsabilità dell’imputata avrebbe dovuto essere verificata alla stregua dei normali criteri di imputazione in tema di concorso nel reato, e cioè sulla scorta dell’interpretazione sedimentatasi a proposito dell’art. 110 cod. pen.
Del concorso di persone nel reato, tuttavia, mancano, nel caso di specie: sia la prova dell’apporto causale del correo, verosimilmente sotto forma di contributo morale, non risultando in alcun passo della motivazione che NOME avesse istigato e, tantomeno, determinato COGNOME a farsi offrire un passaggio (emergendo, piuttosto, che ne aveva soltanto approfittato); sia sul piano dell’elemento soggettivo, essendo indimostrato che la ricorrente sapesse che il suo compagno stava disponendo – e che l’autista stava facendo – un uso illecito della vettura.
3.5. Il ricorso di COGNOME va, dunque, accolto.
Non residuando spazi per ulteriori accertamenti (il reato sarebbe, d’altronde, estinto, poiché il fatto è stato compiuto nell’aprile del 2016 e dalla motivazione risultano cinque mesi di sospensione dei termini prescrizionali), l’annullamento va disposto senza rinvio.
V
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di NOMECOGNOME e assolve l’imputata perché non ha commesso il fatto. Dichiara inammissibili i ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME NOME e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 22 ottobre 2024
Il Consigliere estensore